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Il volontariato prende la laurea

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Il volontariato prende la laurea

C’è bisogno di andare all’università per fare volontariato? A prima vista si potrebbe pensare di no, perché ciò che conta nel mettere in gioco tempo, lavoro e competenze al servizio di una comunità o di una buona causa è la disposizione d’animo. Non a caso le caratteristiche costitutive dell’opera di volontariato, ossia la libertà e la gratuità delle prestazioni, presuppongono l’altruismo e la ricerca di un bene comune che può specchiarsi, ma certamente non si esaurisce, nella soddisfazione personale.

A ben guardare, però, l’esperienza del volontariato richiede anche un importante bagaglio di conoscenze e di consapevolezza, sia nella gestione delle relazioni che stanno alla base delle diverse attività, sia nell’organizzazione e conduzione della vita associativa. Non sorprende, perciò, il grande successo sia numerico sia qualitativo che sta ottenendo sul campo l’università del volontariato, progetto nato quattro anni fa a Milano per iniziativa del Ciessevi (Centro di servizi per il volontariato) e diventato rapidamente una best practice nazionale.

L’idea di base è tanto semplice quanto ambiziosa: creare una scuola di formazione per i volontari, articolata per anni accademici e percorsi di studio specifici, con tanto di diploma finale e validazione delle competenze acquisite. Il tutto, ovviamente, in un contesto di gratuità che mantiene il trasferimento di know how all’interno del mondo non profit. Avviato un po’ in sordina, il progetto ha fatto registrare un exploit costante: 6.300 partecipanti dal 2012 al 2015 nella sola sede milanese, 300 corsi realizzati, due master attivati per figure dirigenziali nell’associazionismo, 35 enti partner, tra i quali le università milanesi di Bicocca, Bocconi, Cattolica, Iulm, Statale e Politecnico.

Non solo: l’esperimento lombardo è stato rapidamente replicato in altre province, per iniziativa dei Centri di servizio locali. Sono così nate le sedi di Bologna e Treviso e, da quest’anno, di Salerno e Cosenza, per un totale di oltre 10mila iscritti, 400 corsi, 210 docenti e 75 organizzazioni partner, sia profit che non profit. Da ottobre è attivo anche un portale dedicato (www.univol.it) che - spiegano i presidenti dei Csv promotori - «rispecchia la caratteristica fondativa del network, ossia quella di essere un luogo di formazione ma anche di pensiero, dove chi fa quotidianamente Terzo settore può trovare materiali, informazioni e riflessioni, sentendosi parte di un progetto diffuso in tutta Italia».

Come è nata l’idea di un’università del volontariato? «Dalla constatazione – afferma Patrizia Bisol, responsabile dell’area formazione di Ciessevi Milano – che cresce di anno in anno il numero delle persone che si avvicinano a esperienze di volontariato volendo capire prima di che cosa si tratta, come potrebbero spendere al meglio le proprie competenze e il proprio tempo, con una buona formazione sul cosa fare e come agire».

Da qui l’impianto di corsi che rispondono, secondo la Bisol, a tre caratteristiche principali. «La prima è l’attenzione all’esperienza dei partecipanti e alla loro esigenza di acquisire competenze immediatamente trasferibili e utilizzabili nelle proprie associazioni. La seconda è la costruzione di piani didattici differenziati per ambiti, in modo da aiutare le organizzazioni a diversificare compiti e ruoli e a valorizzare il capitale umano dei propri volontari. La terza è la previsione di un monitoraggio individualizzato per ogni studente, per facilitare la scelta di corsi coerenti con interessi, esperienze pregresse, compiti da realizzare».

Va letta in quest’ottica anche la scelta di stringere in tutte le sedi partnership con università locali, enti di formazione ed esperti nelle diverse tematiche proposte, così da costituire una rete di soggetti in grado di proporre contenuti agganciati alle dinamiche territoriali e all’operatività delle non profit.

Tutto questo, però, spiega solo in parte il successo dell’iniziativa. «Il segreto – conclude la Bisol – potrebbe anche risiedere nel fatto che questo percorso promuove lo sviluppo di competenze che hanno a che fare con i desideri, le passioni e le attitudini, siano esse del giovane volontario o del neopensionato, e forse anche un pochino nella ricerca di un riconoscimento sociale che spesso fatica ad arrivare dall’ambito professionale».

Comunque sia, il valore aggiunto così creato va a capitalizzare il bene comune, così confermando la coerenza con lo spirito più autentico del volontariato.

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