Commenti

Tutte le «voci» del Presidente

  • Abbonati
  • Accedi
lezioni usa

Tutte le «voci» del Presidente

Non c’è spettacolo al mondo più grande di una campagna presidenziale americana. Se poi lo scontro è tra la regina dei copioni e il maestro dell’improvvisazione, lo spettacolo diventa immenso. Ma che sia chiaro: neppure questa volta c’è alcunché di veramente nuovo. Le regole seguite da entrambi i candidati sono state scritte un’ottantina di anni fa nello Stato in cui è nata l’industria delle recite, prima di quelle a fini d’intrattenimento e poi di quelle a fini politici. Parliamo della California, dove nel 1911 viene costituito Nestor Studios, il primo studio cinematografico, e nel 1933 Campaigns Inc, la prima società di consulenza politica.

A stabilire le regole che governano tutt’oggi lo spettacolo elettorale americano (e ormai anche mondiale) sono stati Clem Whitaker e Leone Baxter, i due ex giornalisti fondatori di Campaigns Inc, apripista di un’industria che non genera certamente i profitti di Hollywood, ma registra comunque un volume d’affari di una decina di miliardi di dollari all’anno.

Come tutte le regole in grado di sopravvivere nel tempo, anche quelle dettate da Whitaker e Baxter erano poche ed elementari. La prima: il messaggio deve essere chiaro e soprattutto semplice, perché all’elettore non si deve mai chiedere di riflettere troppo. La seconda è che il catenaccio non paga: una campagna elettorale si vince all’attacco e non in difesa. Terza e ultima: in un modo o nell’altro si deve creare una grande messa in scena. Insomma, come a Hollywood, in politica non contano i fatti bensì le emozioni. Anche se suscitate da esagerazioni o vere e proprie falsità.

La prima grande vittima delle tre regole del duo di Campaigns Inc fu lo scrittore Upton Sinclair che nel 1934, in piena Depressione, con una compagna contro la povertà aveva inaspettatamente conquistato la candidatura del partito democratico a governatore della California, ma che fu poi sconfitto dal repubblicano Frank Merriam, la cui campagna fu orchestrata appunto da Whitaker e Baxter. In un suo successivo libro Sinclair spiegò di essere stato battuto da “La Fabbrica di bugie” creata dai due ex giornalisti, i quali non avevano esitato a prendere brani di romanzi di Sinclair e spacciarli per dichiarazioni da lui fatte. E lo avevano fatto senza alcuna remora. Tant’è che la difesa della Baxter non fu di negare la manipolazione, ma semplicemente di giustificarla così: «Quelle citazioni erano irrilevanti per gli elettori, ma noi avevamo un solo obiettivo: impedirgli di diventare governatore».

Nella campagna che terminerà domani, non c’è dubbio che il più bravo a mettere in pratica i comandamenti di Whitaker e Baxter sia stato Donald Trump. Per il suo messaggio privo di qualsiasi sfaccettatura o profondità, per la sua campagna tutta all’attacco (è arrivato a dire che la sua concorrente dovrebbe essere messa in galera) e soprattutto per la grandissima messinscena che è riuscito a creare e sostenere per sei mesi.

L’ironia è che Trump ha seguito il copione facendo pressoché a meno degli eredi di Whitaker e Baker, cioè dei professionisti della sceneggiatura politica, i cosiddetti spin doctor, che avendo dominato per decenni le campagne elettorali americane da qualche tempo sono anche sbarcati in Europa e persino in Italia (negli ultimi mesi Jim Messina, il guru della campagna di riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca, è stato ingaggiato dal Pd di Matteo Renzi per la campagna sul referendum).

Tanto Trump è stato fedele alle regole di Whitaker e Baxter quanto Hillary Clinton è stata ligia ai copioni scritti dei loro eredi. Essendo priva di un carisma o di un messaggio forte, la candidata democratica ha speso decine di milioni di dollari in società di consulenza che hanno definito ogni aspetto della sua campagna. Ne ha usate ben quattro diverse: Gmmb, che ha plasmato la sua strategia elettorale; Chapman Cubine Adams & Hussey, che ha coordinato le campagne di stampa pubblicitaria; Bully Pulpit Interactive, che si è occupata dei media digitali; e la società di sondaggi Benenson Strategic Group, il cui socio fondatore, Joel Benenson, è stato parallelamente assunto come chief strategist.

Da questo punto di vista la Clinton non ha deviato dalla strada maestra seguita da suo marito e dal suo erede democratico Barack Obama, entrambi i quali, pur dotati di forte carisma, hanno abbondantemente usato gli stessi sistemi. E le stesse società. Per capire il grado d’impatto di questi professionisti della politica basti pensare che Gmmb ha incassato tra i 40 e i 60 milioni di dollari per gestire l’acquisto degli spot pubblicitari per Obama. E che il famosissimo motto della campagna del primo presidente afro-americano, «Yes, we can», non solo è stato proposto dallo stratega David Axelrod, ma è stato riciclato da un’altra campagna elettorale da lui coordinata in passato.

«Visti i successi avuti da Axelrod con Obama, e prima di lui da Karl Rove con George W. Bush, in questi ultimi anni l’industria della consulenza è cresciuta a dismisura, e con essa sono saliti i costi della politica», spiega Matt Grossman, professore del Dipartimento di Scienze Politiche della Michigan State University, autore di un recente studio su quel settore. Lo studioso ha appurato che il grosso del reddito non scaturisce dalle fee per le consulenze offerte, ma dai prodotti mediatici che vengono acquisiti su spinta o iniziativa del consulente. «In media il 42,2% del reddito viene dalla produzione o dall’acquisto di spot televisivi, mentre un altro 18,2% dalla stampa pubblicitaria», rileva Grossman. «Poiché la pubblicità elettorale è la più significativa fonte di reddito, è chiaro che il ricorso a quella pubblicità diventa la strategia più ovvia da seguire. E visto che il compenso è stabilito in percentuale agli spot prodotti o dei quali si gestisce tempistica e contenuti, è altrettanto chiaro perché se ne comprano sempre di più, e i candidati passano sempre più tempo nella raccolta di fondi freschi per poterli pagare».

All’incentivo elettorale dei candidati che contano sugli spot per vincere si aggiunge insomma quello economico dei consulenti che ci contano per arricchirsi. Con la differenza sostanziale che il candidato può vincere o perdere, mentre il consulente vince sempre.

© Riproduzione riservata