Caro Fabi, spesso mi viene il dubbio che la storia non insegni nulla. Comunque andrà a finire quella che abbiamo vissuto da lontano è stata la peggior campagna elettorale con i peggiori candidati alla presidenza Usa. Possibile che la più grande potenza mondiale non sia riuscita a esprimere veri statisti? Nella recente storia americana non si ricordano grandi personalità, tranne Henry Kissinger. Il suo realismo avrebbe probabilmente evitato i passi falsi americani nel Medio Oriente e non solo.
Antonio Magnoni
Caro Magnoni, la carriera di Kissinger si è fermata non solo per ragioni politiche, ma soprattutto perché non avrebbe potuto mai diventare presidente degli Usa essendo nato in Germania, a Fuerth, cittadina del Nord della Baviera che diede i natali anche a Ludwig Erhard, cancelliere tedesco negli anni 60. E l’essere nato su suolo americano è un requisito indispensabile per candidarsi alla Casa Bianca. Kissinger, che ora ha 93 anni, lasciò la politica dopo la presidenza di Gerald Ford perché la Casa Bianca passò ai democratici con Jimmy Carter e perché i presidenti repubblicani che seguirono, Reagan e Bush, avevano in politica estera un’impostazione meno pragmatica e diplomatica di quella del segretario di Stato dell’era Nixon e Ford.
L’eredità storica di Kissinger è controversa. Gli si riconosce il suo positivo contributo per la fine della guerra nel Vietnam e per aver messo i presupposti della pace tra arabi e israeliani dopo la guerra del Kippur. Ma restano ombre per il sostegno americano ai colpi di Stato, e alle successive repressioni, in Cile e Argentina.
È interessante, anche in risposta alla prima affermazione della lettera, quanto scriveva Kissinger nella conclusione del libro “Diplomazia della restaurazione”, scritto nel 1957 e pubblicato in italiano da Garzanti nel 1973, libro dedicato agli equilibri europei dopo la Rivoluzione francese. Dopo aver affermato che «l’opera dello statista comporta non solo un problema di concezione, ma anche di attuazione: la capacità di valutare ciò che è conseguibile, oltre che vedere che cosa è auspicabile», Kissinger scrive: «Un popolo può rendersi conto delle probabili conseguenze di una rivoluzione, ma questa conoscenza sarà inutile se non saprà riconoscere una situazione rivoluzionaria. C’è tuttavia una differenza tra conoscenza fisica e conoscenza storica: a ogni generazione è concesso un solo atto di astrazione; essa può tentare un’unica interpretazione e un unico esperimento, perché è essa stessa il proprio soggetto. Questa – conclude Kissinger – è la sfida della storia e la sua tragedia, la forma che prende il destino su questa terra. E affrontarla con successo, e anche riconoscerla, è forse il compito più arduo dello statista».
Un’analisi questa che porta a riflettere su come in questi anni Duemila, dalle due parti dell’Atlantico, sia sempre più difficile, ma allo stesso tempo necessario, poter contare su veri e solidi “statisti”.
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