I terremoti politici non possono essere molto più forti di questo. Il voto scioccante del Regno Unito per l’abbandono dell’Unione Europea rischia di fare a pezzi la Gran Bretagna, disfare ulteriormente l’Unione Europea, e destabilizzare l’Occidente. Crea una crepa enorme nell’ordine internazionale liberale faticosamente costruito dai leader americani ed europei dalla fine della seconda guerra mondiale. Peggio ancora, lo fa in un momento in cui quell’assetto si trova di fronte a gravi minacce da parte della Russia di Vladimir Putin e di gruppi estremisti violenti come lo Stato Islamico.
Inoltre, il voto “Brexit” potrebbe presagire un più ampio contraccolpo nazionalista, anti-establishment, e anti-immigrazione in molte delle democrazie del mondo. Al suo arrivo in Gran Bretagna il 24 giugno, Donald Trump, il probabile candidato repubblicano alle elezioni presidenziali americane di novembre, ha immediatamente esultato per il fatto che i britannici “abbiano riportato indietro il loro paese”.
Ma indietro verso cosa? Citando Winston Churchill, Chris Patten, Rettore dell’Università di Oxford, dichiara che “il problema di un suicidio politico è che si vive per pentirsene”. La domanda ora è se il desiderio di morte apparente del Regno Unito trascini giù anche la UE, la NATO, e l’economia globale.
I commentatori di Project Syndicate pongono la questione in una prospettiva globale, ciò che è stato sorprendentemente assente nel dibattito interno alla Gran Bretagna circa il suo rapporto con “l’Europa”. Essi esaminano non solo le ricadute della “Brexit”, ma anche il modo in cui il Regno Unito è arrivato a questo punto e cosa significherà la decisione di uscire per il futuro dell’Europa e quello dell’Occidente.
Democrazia Demenziale
La campagna “Remain” del Regno Unito, basata su ragione ed interessi economici, ha mostrato grande debolezza. Come dice Patten, “un referendum riduce la complessità ad una assurda semplicità. L’intreccio di cooperazione internazionale e sovranità condivisa rappresentato dalla nostra adesione alla UE è stato trasformato in una serie di affermazioni e promesse mendaci.
Ma forse la “vera follia del voto Brexit”, secondo Kenneth Rogoff, professore ad Harvard ed ex capo economista del FMI, “non consiste nel fatto che i leader britannici abbiano osato chiedere alla loro popolazione di valutare i vantaggi dell’Unione Europea a fronte della pressione migratoria che essa presenta. Piuttosto, era la soglia assurdamente bassa per l’uscita, in quanto si richiedeva solo la semplice maggioranza”. Con il 72% di affluenza alle urne, il “Leave” ha vinto con solo il 37,5% degli elettori. “Questa non è democrazia”, dice Rogoff, “è una roulette russa”. Infatti, “la maggior parte delle società pongono più ostacoli ad una coppia che cerca di divorziare, di quanto non abbia fatto il primo ministro David Cameron riguardo alla decisione di divorziare dalla UE”.
Secondo Mark Leonard, direttore dell’European Council on Foreign Relations, adesso i leader europei devono affrontare il fatto che il voto Brexit “potrebbe essere la scossa iniziale in grado di innescare nei prossimi anni in Europa un uragano di referendum”. Si trova d’accordo lo storico dell’economia della Princeton University Harold James, che suggerisce che Brexit può far presagire una “rivolta tanto forte da scuotere e forse distruggere l’Unione Europea.
Secondo Leonard, “in tutta Europa, ci sono 47 partiti insorgenti che stanno ribaltando il sistema politico”, e “il loro successo” – sono in coalizioni di governo in un terzo degli Stati membri della UE – “ha spinto i partiti tradizionali ad adottare alcune delle loro posizioni”. Dal partito polacco Legge e Giustizia e dal Fidesz al governo in Ungheria, al Fronte nazionale in Francia e al partito popolare danese, le insurrezioni populiste vanno “rimpiazzando le tradizionali battaglie di destra e sinistra con scontri che contrappongono il loro arrabbiato nativismo al cosmopolitismo delle élite che disprezzano”.
La globalizzazione è uno dei motivi principali per cui i populisti hanno guadagnato terreno. Dopo tutto, dice Slawomir Sierakowski, Direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, nonostante un’economia globalizzata, “la politica è ancora un processo nazionale”. E quando così tante persone sono convinte “che la democrazia – la volontà popolare – è stata compromessa” da questa disconnessione, “l’influenza diventa l’unico dominio del populisti, perché solo loro possono effettuare il cambiamento – e solo attraverso la distruzione. Questo è il motivo per cui i populisti sembrano credibili anche quando mentono”.
Cameron, esponente delle elite come lo sono i politici occidentali, ora ha annunciato le sue dimissioni, con la sua figura per sempre offuscata dalla decisione di placare i conservatori euroscettici con lo svolgimento del referendum. Secondo quanto sostiene Leonard, anch’egli con un richiamo a Churchill, Cameron “aveva la possibilità di scegliere tra il partito ed il paese, ha scelto il partito, ed ha finito col perdere sia l’uno che l’altro”. E sulla scia della sua fallimentare manovra faziosa, è riuscito solo a “rendere la UE ingovernabile”.
Secondo Javier Solana, ex alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza della UE, ciò è destinato ad “indebolire la sicurezza, la politica estera, e la reputazione internazionale di entrambi i partiti”. Per esempio, il fatto che Brexit potrebbe compromettere l’accordo di pace in Irlanda del Nord non preoccupa solo Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations. La Gran Bretagna è la seconda più grande economia della UE e – con la Francia – una potenza militare mondiale determinante. Ian Buruma sostiene che se si porta via la Gran Bretagna, la UE diventerà “un’impresa franco-tedesca, con la Germania decisamente partner dominante, e tutti gli Stati membri più piccoli schiacciati tra i due”.
Haass concorda: “una tale preponderanza di potere non può essere sana nel lungo periodo, in quanto alimenterà il risentimento verso la Germania e probabilmente renderà i paesi della UE meno desiderosi e capaci di agire unitamente sulla scena mondiale”. Inoltre i Tedeschi ravvedono un altro problema. Come sostiene Clemens Fuest, presidente dell’Ifo Institute, Brexit renderà più difficile l’opposizione del suo paese al protezionismo.
Piccola Inghilterra, Regno Unito Fratturato
Come ha fatto la Gran Bretagna ad arrivare a questo punto? Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli esteri svedese, ci ricorda che per decenni l’adesione britannica alla UE ha goduto di un sostegno bipartisan.
Margaret Thatcher, spesso lo si dimentica, “ha siglato l’Atto Unico Europeo, che ha creato il mercato unico – uno dei passi più importanti nella costruzione europea, e che deve molto all’ispirazione britannica” Ma questi ed altri “notevoli risultati” serviti a plasmare la UE “sono stati per lo più un segreto ben custodito in patria”, dove ha attecchito “una certa nostalgia del passato”, costantemente rafforzata da una campagna al vetriolo anti-europea – e, in particolare, anti-tedesca – guidata da alcuni dei media più importanti del paese”.
Oggi che gli Euroscettici hanno vinto, le aspre divisioni della Gran Bretagna sembrano incolmabili. Mentre gli elettori inglesi e gallesi più anziani, meno istruiti, delle aree suburbane e rurali hanno supportato Brexit, gli elettori giovani, meglio istruiti, dei centri urbani hanno sostenuto la permanenza nella UE. La Scozia, che per il 62% ha votato per restare, ora sembra pronta ad un secondo referendum per l’indipendenza. Quanto ci vorrà prima che Londra, dove tre elettori su cinque si sono espressi per il “Remain”, cerchi l’indipendenza come città-stato globalizzata? In Irlanda del Nord, il Sinn Fein, il principale partito cattolico, ha chiesto un referendum sull’Irlanda unita. La Spagna è alla ricerca di una sovranità congiunta su Gibilterra.
Inoltre, la direzione politica del Regno Unito non è chiara. Apparentemente pro-mercato e pro-globalizzazione, i conservatori favorevoli alla “Brexit” hanno vinto il referendum sulla scia di una campagna nazionalista e populista. Essi sicuramente assicureranno controlli più duri sull’immigrazione, un tema sul quale sono uniti gli elettori conservatori e laburisti che hanno appoggiato il “Leave”. Ma come potranno far quadrare il sostegno al libero commercio e alla deregulation con il loro impegno verso gli elettori della classe operaia a fare di più per proteggere i posti di lavoro ed i servizi pubblici? Inevitabilmente, gli elettori arrabbiati anti-establishment si ribelleranno quando i leader pro-Brexit non riusciranno a realizzare quanto promesso.
Certo, sarà necessario che il successore di Cameron cerchi di riparare ai danni provocati dal referendum sulla Brexit. Boris Johnson, ex sindaco di Londra e uno dei principali esponenti pro-Brexit, è il candidato favorito per questo compito, ma potrebbe non ottenerlo. Molti di coloro che hanno appoggiato la campagna “Remain” lo considerano un traditore, e molti “Leavers” lo ritengono un opportunista disonesto.
Indipendentemente da chi sarà il successore di Cameron, secondo Patten il processo di fuoriuscita “dominerà in Gran Bretagna per il prossimo decennio e forse più a lungo”. E tale processo certamente renderà il Regno Unito “più povero e meno rilevante nel mondo”. Molti sostenitori della Brexit “si accorgeranno che ben lungi dal guadagnare in libertà, hanno perso il loro lavoro”.
Le scosse economiche di assestamento saranno infatti profonde per il Regno Unito. Accanto alla caduta della sterlina al suo livello più basso dal 1985, i prezzi delle azioni sono crollati in Gran Bretagna e in Europa. Mentre gli investitori si affrettano a mettersi in salvo (relativamente), i rendimenti dei titoli del Tesoro USA e Bund tedeschi sono scesi a nuovi minimi. Anche se i banchieri centrali si sono impegnati a fornire liquidità d’emergenza alle banche, ove necessario, essi non possono isolare completamente le economie dallo shock reale della rottura.
Patten ha sicuramente ragione riguardo al fatto che ci attendono anni di incertezza paralizzante sulle relazioni commerciali e sulle normative nazionali. Mentre le decisioni concernenti investimenti ed occupazione vengono rinviate o annullate, la crisi economica danneggerà le finanze pubbliche, che ad un certo punto richiederanno aumenti fiscali e tagli alla spesa. George Soros ritiene che:
“I leader europei, desiderosi di scoraggiare gli altri Stati membri dal seguire l’esempio del Regno Unito, potrebbero non essere disposti ad offrirgli termini – in particolare per quanto riguarda l’accesso al mercato unico europeo – tali da alleviare i disagi della fuoriuscita. Con l’Unione Europea che rappresenta la metà del fatturato del commercio britannico, l’impatto sugli esportatori potrebbe essere devastante (nonostante un tasso di cambio più competitivo). E, con le istituzioni finanziarie che nei prossimi anni trasferiranno operazioni e personale verso gli hub della zona euro alla City di Londra (ed al suo mercato immobiliare) i dolori non saranno risparmiati”.
Eppure, questi rischi non sono riusciti ad assumere il giusto rilievo tra gli elettori britannici. Secondo Jeffrey Sachs della Columbia University, gli elettori “Leave” li hanno ignorati considerandoli un esito di “un’implicita lotta di classe”. In poche parole, quali che siano le loro preoccupazioni circa l’immigrazione, “il voto della classe operaia per Brexit era motivato dal ritenere che la gran parte o tutte le perdite di reddito sarebbero state in ogni caso a carico dei ricchi, e soprattutto dei disprezzati banchieri della City di Londra”.
Ana Palacio, ex ministro degli esteri spagnolo, considera un problema diverso, ed afferma che “molti sostenitori del ritiro si scelgono con cura politiche e regolamenti”. Volevano che “i Britannici credessero non solo che la City di Londra potesse continuare ad essere il centro finanziario più importante d’Europa, ma anche che il Regno Unito potesse conservare l’accesso al mercato unico della UE, anche in assenza della libera circolazione dei lavoratori”. Questo è “pura fantasia”. E ora la Gran Bretagna deve vivere con le conseguenze delle sue disillusioni.
“Andare in pezzi”
Cameron ha rimandato al suo successore la decisione di attivare la procedura formale dell’Articolo 50 per lasciare la UE. Idealmente, la Gran Bretagna e l’Unione Europea dovrebbero concordare una qualche forma di adesione associativa, che preservi il più possibile la cooperazione economica e politica. Ma la politica si schiera contro questo. La Gran Bretagna è probabile che sia sempre più sciovinista, mentre i governi della UE ora hanno tutto l’interesse a essere rigidi – sia per scoraggiare gli altri dal seguire il Regno Unito fuori dalla porta che per ottenere un vantaggio economico competitivo. Infatti, l’economista svedese Anders Åslund afferma che la UE dovrebbe imporre un ultimatum con principi chiari ed onerosi per l’uscita del Regno Unito”.
I federalisti europei sognano che Brexit possa innescare una nuova unità per l’integrazione nella UE; ma c’è scarsa propensione per questo. Soros ci ricorda che “i contrasti tra gli stati membri hanno raggiunto un punto di rottura, non solo riguardo ai rifugiati, ma anche a causa di tensioni eccezionali tra paesi creditori e debitori all’interno della zona euro”. La Germania e la Francia, i cui deboli leader devono affrontare nuove elezioni l’anno prossimo, sono ai ferri corti. Un recente sondaggio ha rilevato un consenso per l’Unione Europea ancora più basso in Francia che in Gran Bretagna. Come giustamente conclude Soros, “niente di tutto questo fa ben sperare per un serio programma di riforma della UE”.
Anzi, al contrario: con la UE che appare debole, fragile ed insofferente, Brexit rischia di spaccarla ulteriormente. I partiti anti-europei di estrema destra adesso avranno il vento in poppa. Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale francese, vuole un referendum sulla “Frexit”. Geert Wilders del Partito olandese per la Libertà vuole un voto sulla “Nexit”.
Insieme al rischio di ulteriori fuoriuscite è presente un’altra minaccia: mentre la UE potrebbe sopravvivere sulla carta, i paesi aderenti potrebbero andarsene sempre di più per la propria strada. Una testimonianza viene dalle modalità con cui la Commissione Europea ha approvato la reintroduzione dei controlli alle frontiere nazionali nell’Area Schengen apparentemente senza frontiere. Cosa farebbe se un governo nazionalista imponesse unilateralmente controlli sui migranti UE, o addirittura sul commercio?
Il Fattore Paura
La campagna “Remain” del Regno Unito, posta nella non invidiabile posizione di difendere una UE che appare spesso disfunzionale, ha sottolineato il rischio di un salto verso l’ignoto – un approccio che ha spinto i sostenitori Brexit come Johnson a deridere ciò che hanno chiamato “Progetto Paura”. Eppure l’unica arma affidabile della campagna del campo Brexit si è rivelata essere proprio la paura: confondendo terrorismo ed immigrazione con l’adesione alla UE, nel tentativo di invogliare gli elettori a tirare su il ponte levatoio.
Ovviamente, questa non è una strategia unicamente britannica: gli elettori danesi – condizionati dai timori riguardo a rifugiati e terrorismo – hanno respinto la proposta di una più stretta cooperazione con la UE nelle attività transfrontaliere di polizia in un referendum tenutosi un mese dopo gli attacchi dello scorso novembre a Parigi. Ma i sostenitori Brexit hanno fatto compiere all’argomento un ulteriore passo avanti. Essi hanno sostenuto che lasciare la UE non avrebbe messo in pericolo la sicurezza della Gran Bretagna, perché la NATO, non l’Unione Europea, ne assicura la difesa.
Ma Jacek Rostowski, ex vice primo ministro polacco, sottolinea che sicurezza e difesa non sono la stessa cosa. “La vera sicurezza comporta l’aspettativa che un paese non sia costretto a sollecitare l’alleanza di difesa a cui appartiene – e questo è ciò che comporta l’adesione all’Unione Europea, così com’è oggi”.
Infatti, Brexit rappresenta una minaccia diretta per la NATO. Rostowski sottolinea che una “fuga verso il nazionalismo” in Europa significherebbe il potenziamento di forze che sono diventate una quinta colonna del Cremlino di Vladimir Putin. Ad esempio, la posizione assunta dal Fronte Nazionale dall’estrema destra francese sull’aggressione della Russia in Ucraina suggerisce che, se Le Pen venisse eletta presidente nel 2017, “bloccherebbe qualsiasi forma di resistenza ... all’avventurismo di Putin, che sta minacciando il fianco orientale della NATO”.
Joseph Nye di Harvard sostiene che le conseguenze geopolitiche di Brexit sono immense. Egli scrive che “di fronte ad una Cina in ascesa, una Russia declinante ma foriera di rischi, e la prospettiva di turbolenze prolungate in Medio Oriente, una stretta cooperazione transatlantica sarà fondamentale per il mantenimento di un ordine internazionale liberale a lungo termine”. “Brexit, indebolendo sia l’Europa che la Gran Bretagna” rende “più probabile un sistema internazionale caotico”.
Siamo Anglos?
Gli attivisti Brexit hanno respinto tali preoccupazioni, spesso sostenendo che, al di fuori della UE, la Gran Bretagna potrebbe nutrire relazioni più strette con il resto del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti e dagli altri “popoli di lingua inglese”. Ma gli Stati Uniti rifiutano questa idea. Rostowski suggerisce che “non curandosi di un interesse tanto basilare per l’America”, come la sicurezza europea, la Gran Bretagna “comprometterà ciò che resta del 'rapporto speciale' bilaterale”. Haass concorda con questo punto: “una delle ragioni per cui i gli Stati Uniti hanno così grande considerazione per il legame con l’UK è costituita dal ruolo del Regno Unito in Europa”.
Gli attivisti Brexit hanno comunque parlato in modo sognante di una Gran Bretagna con un ruolo più importante nell’“Anglosfera”, che comprende anche Australia, Canada e Nuova Zelanda. Ma Gareth Evans, ex ministro degli esteri australiano, versa acqua fredda su questa idea. In poche parole, nessuno dei paesi che potrebbero appartenere ad un club di questo tipo ha interesse ad aderire. La geografia, non la storia, detta la strategia. La Gran Bretagna e il Canada non hanno alcun peso per gli Stati Uniti nel fronteggiare la Cina, mentre l’Australia e la Nuova Zelanda non sono di alcuna utilità nei confronti della Russia. Questo è il motivo per cui il Commonwealth – nato dall’impero britannico ormai estinto da lungo tempo – è una fabbrica di chiacchiere a cui gli Stati Uniti dedica poca attenzione.
Così anche riguardo ai rapporti economici. Gli scambi con la Gran Bretagna non sono più così importanti per l’Australia, e gli Stati Uniti sono concentrati su accordi commerciali mega-regionali, come il Trans-Pacific Partnership (TPP) e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con la UE. Come giustamente conclude Evans: “se la Gran Bretagna se ne va dall’Europa, pensando di poter compensare con la creazione di una propria nuova associazione internazionale influente, si troverà molto sola davvero”.
Il Percorso di una Reale Riforma
Ma non può restare da sola. Data la minaccia a venire di ulteriori referendum stile Brexit, i leader europei riconoscono che l’esistenza stessa dell’Unione è in questione. Secondo lo stratega politico francese Dominique Moisi, “ si deve urgentemente intraprendere una massiccia autovalutazione, sia letteralmente che metaforicamente. È necessario capire quello si è fatto – o non fatto – per perdere la fiducia dei propri cittadini ed escogitare un piano, a livello nazionale e comunitario, per riconquistare quella fiducia”.
Tale piano dovrebbe includere uno sforzo per ricordare ai cittadini europei ciò che il progetto europeo ha raggiunto – e, quindi, ciò che è in gioco nella minaccia che Brexit rappresenta per la sua integrità. Come ha sottolineato all’inizio di quest’anno Bildt, che è stato primo ministro quando la Svezia ha aderito alla UE nel 1995, “negli anni settanta ed ottanta, la promessa magnetica di integrazione ha contribuito a stabilizzare la democrazia in Grecia, Spagna e Portogallo”. Dopo il crollo del comunismo, negli anni novanta “l’orizzonte dell’adesione alla UE ha facilitato, incoraggiato, e in qualche misura guidato la transizione” in Europa centrale e orientale. Allo stesso modo, il “potere soft di un’Europa integrata ha ispirato le riforme democratiche per decenni in Turchia” e ha avuto lo stesso effetto in Ucraina negli ultimi anni.
Eppure i leader europei devono anche capire perché ricordare non è stato sufficiente per gli inglesi – e perché non è sufficiente per molti altri. Moisi sostiene che “è fondamentale che tale valutazione preceda la spinta per una maggiore integrazione. Se la UE in preda al panico tentasse di fare dei balzi avanti, dimostrerebbe la sua mancanza di comprensione di ciò che sta realmente accadendo”.
Per Joschka Fischer, ex ministro degli esteri tedesco, il dibattito sulla Brexit riflette una realtà semplice: “il Regno Unito vuole un’Europa diversa da quella che l’Unione Europea rappresenta attualmente. La sua preferenza è per un’Europa consistente essenzialmente solo di un mercato comune”.
Ma gli Euroscettici di sinistra avevano un motivo diverso per sostenere Brexit. Essi credono che il ritiro dall’Unione consentirà ai loro paesi di sfuggire ai vincoli “neoliberisti” della UE, come i limiti su proprietà e sussidi dello Stato. L’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, un’icona della sinistra occidentale, ne prende le distanze: egli sostiene che “la società buona può essere raggiunta attraverso l’entrata nelle istituzioni prevalenti al fine di superare la loro funzione regressiva”, e non “invitando i progressisti europei ad unirsi ai neofascisti”.
Dunque, cosa si dovrebbe fare sulla scia del voto Brexit? Laura Tyson, capo consigliere economico del presidente Bill Clinton, dice che Brexit “rafforza la tesi della necessità in Europa di maggiori stimoli e misure non convenzionali”, al fine di stimolare la crescita e l’occupazione, i migliori antidoti per il populismo. L’economista premio Nobel Michael Spence si augura che Brexit possa “portare a una profonda revisione degli assetti di governance e degli accordi istituzionali europei” del tipo che Moisi raccomanda. Ma, “il ripristino di un senso di controllo e responsabilità presso gli elettori”, secondo Spence “richiederebbe una leadership illuminata in ogni angolo d’Europa – compresi governi, imprese, sindacati e società civile, così come un rinnovato impegno verso integrità, inclusione, responsabilità, e generosità”.
Anatole Kaletsky, co-presidente di Gavekal Dragonomics, non è ottimista. Se Brexit può vincere “in un paese stabile e politicamente flemmatico come la Gran Bretagna”, sostiene, “i mercati finanziari e le imprese di tutto il mondo saranno sconvolte dalla loro compiacenza nei riguardi delle insurrezioni populiste nel resto d’Europa e negli Stati Uniti”. Cosa che ha già avuto inizio, e, come sottolinea giustamente, “le accresciute preoccupazioni del mercato, a loro volta, cambieranno la realtà economica”. Nel peggiore dei casi, “i mercati finanziari amplificheranno l’ansia economica, generando altra rabbia anti-establishment ed alimentando ancora più alte aspettative di rivolta politica”.
Soros riconosce lo stesso rischio, individuando l’Italia come paese particolarmente soggetto “ad una vera e propria crisi bancaria – che rischia di portare al potere già dal prossimo anno il Movimento populista Cinque Stelle, che a Roma ha appena conquistato la carica di sindaco”. La UE non può semplicemente provare a cavarsela, come ha fatto in passato. “Ma non dobbiamo mollare”, afferma Soros. “Dopo Brexit, tutti noi che crediamo nei valori e nei principi per cui la UE è stata progettata dobbiamo unirci per salvarla ricostruendola accuratamente”. A volte le battaglie che pensiamo di perdere sono quelle che è più necessario combattere.
Philippe Legrain, ex consigliere economico del presidente della Commissione europea, è visiting senior fellow presso l’European Institute della London School of Economics ed autore di European Spring: Why Our Economies and Politics are in a Mess – and How to Put Them Right.
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