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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il libero scambio in catene

All’inizio del nuovo millennio, quando il mondo è stato definito “piatto” a causa della sua apertura economica, il commercio internazionale era un argomento confinato alle pagine aziendali e alle discussioni tra tecnocrati. Oggi, il commercio è in cima all’agenda politica di gran parte del mondo; nelle economie avanzate, è il cavallo di battaglia preferito dai populisti. Anche i politici che una volta erano decisamente a favore degli accordi commerciali adesso li rinnegano.

 

In Gran Bretagna, a seguito del voto Brexit, ormai quasi ogni notte si possono ascoltare dibattiti sui pregi degli scambi commerciali con il mercato unico dell’Unione Europea rispetto agli scambi regolati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Negli Stati Uniti, entrambi i candidati presidenziali hanno fatto dell’opposizione agli accordi commerciali mega-regionali – in particolare, il Trans-Pacific Partnership (TPP), che riguarda 12 paesi, ed il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con l’Unione Europea – un punto fondamentale delle loro campagne.

 

Niente di tutto questo dovrebbe sorprendere, se si considera quanto aspramente l’opinione pubblica sia insorta contro tali accordi commerciali. Sondaggi di opinione condotti su entrambe le sponde dell’Atlantico identificano nel commercio una delle principali fonti di malcontento che agitano le democrazie sviluppate mondiali. Un sondaggio condotto da YouGov indica che circa il 71% degli Americani e il 58% dei Tedeschi credono che i loro paesi dovrebbero adottare politiche commerciali più restrittive per proteggere le loro economie dalla concorrenza straniera. Quindi il momento propizio a concludere il TPP e il TTIP sta terminando; infatti, leader come il presidente francese François Hollande sono sempre più convinti che il TTIP è già un acronimo morto.

 

Gli editorialisti di Project Syndicate sono profondamente divisi sul significato di questa svolta avversa agli scambi commerciali. C’è forse il rischio, come alcuni autori suggeriscono, che gli Stati Uniti – e la Gran Bretagna – possano riportare indietro l’orologio agli anni trenta, allorché il Congresso degli Stati Uniti promulgò la Smoot-Hawley Tariff e la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, lasciando deprezzare la sterlina ed innescando un’ondata di restrizioni su scambi e pagamenti internazionali? O le attuali posizioni contro il commercio rappresentano la reazione inevitabile ad un assunto – che il libero scambio possa avvantaggiare tutti – che non è mai stato vero, né in teoria né in pratica?

 

Tempo di Chiusura?

 

Nonostante i molti segnali d’allarme ufficiali ed accademici, Dani Rodrik di Harvard, che non è di certo un sostenitore del libero scambio, intravede “pochi segnali riguardo al fatto che i governi si stiano allontanando decisamente da un’economia aperta”. Allo stesso modo, Joseph Nye, un collega di Harvard di Rodrik, riferendosi alla campagna presidenziale americana, avverte che sarebbe “esagerato dire che l’elezione 2016 evidenzia una tendenza isolazionista che porrà termine all’era della globalizzazione”.

 

Tuttavia, i segnali provenienti da entrambi i lati dell’Atlantico – e ciò che essi implicano per il futuro dell’ordine economico internazionale emerso alla fine della seconda guerra mondiale – preoccupano molti osservatori. Otaviano Canuto, direttore esecutivo della Banca Mondiale, sottolinea “l’assenza di progressi negli ultimi colloqui sulla liberalizzazione degli scambi e la messa in atto di barriere commerciali protezionistiche non tariffarie”. Anche se tale “protezionismo strisciante non ha ancora avuto un significativo impatto quantitativo sul commercio”, sostiene, “la sua comparsa è diventata una delle principali fonti di preoccupazione a fronte del crescente sentimento anti-globalizzazione all’interno delle economie avanzate”.

 

Il ripetersi dell’esperienza degli anni trenta era proprio ciò che molti esperti, politici e imprenditori hanno cercato di evitare all’indomani della crisi finanziaria globale del 2008. Nella prima prova importante del G20 – composto dai principali paesi sviluppati ed emergenti, che rappresentano circa l’85% del PIL mondiale – i leader degli stati membri sono stati frettolosamente convocati a Washington, DC, nel novembre 2008, per coordinare le misure per affrontare la crisi. Mantenere un regime commerciale aperto ed evitare misure protezionistiche era ciò che tutti avevano in mente.

 

Si trattava di un programma geopolitico tanto quanto economico – se non di più. Infatti, come Barry Eichengreen ci ricorda, sarebbe sbagliato “invocare il vecchio detto secondo cui la Smoot-Hawley fu la causa della Grande Depressione, perché non andò così”. Ciò nonostante, negli anni trenta, con l’erosione della fiducia e la rimozione degli incentivi alla cooperazione, le guerre valutarie e commerciali “alimentarono tensioni geopolitiche”. Eichengreen sottolinea che in particolare “i leader statunitensi, britannici, francesi e canadesi si azzannavano l’uno l’altro quando avrebbero dovuto collaborare per fare avanzare altri obiettivi comuni” – vale a dire, mobilitare “una coalizione di coloro che volevano contenere la minaccia nazista”.

 

Arriviamo velocemente al 2016, e “[dove] sono cambiate molte più cose che la mera retorica”, afferma Bjørn Lomborg, direttore del Copenhagen Consensus Center. Dal punto di vista di Lomborg, ciò che Canuto definisce un incremento strisciante delle restrizioni commerciali a livello mondiale è di fatto una tendenza al galoppo. Egli lamenta che “l’uso di politiche protezionistiche” è aumentato di “almeno il 50% nel 2015, superando le misure di liberalizzazione commerciale in un rapporto di tre a uno”, e che i membri del G20 rappresentavano l’81% di queste nuove restrizioni.

 

L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, della Columbia University, si chiede come sia possibile “che venga tanto vituperato qualcosa che secondo i nostri leader politici – e molti economisti – avrebbe dovuto avvantaggiare tutti”. Uno dei motivi, sostiene Jeffrey Frankel di Harvard, è che l’ampliamento della torta economica è necessario per mantenere il consenso sul commercio – “un’asserzione fondamentale in economia”. Poiché le dimensioni della torta non aumentano più in maniera sufficiente perché i vincitori possano risarcire i perdenti, anche solo in linea di principio, e in tal modo avvantaggiare tutti, i perdenti si sono sentiti sempre di più privati dei propri diritti.

 

Stephen Roach della Yale University sostiene una tesi simile. Egli cita i dati del Fondo Monetario Internazionale mostrando che “la crescita annua del volume del commercio mondiale è stata in media solo del 3% nel periodo 2009-2016 – la metà del tasso del 6% registrato dal 1980 al 2008”, a causa sia della recessione successiva al 2008, che di un recupero lento e fiacco. “Con il commercio mondiale che si sposta verso una traiettoria decisamente più bassa”, egli afferma, “la resistenza politica alla globalizzazione non ha fatto che intensificarsi”.

 

Dubbi sul Commercio

 

Ma questo non significa che la crescita vacillante del commercio mondiale sia la questione più importante da affrontare, come credono molti – tra cui il FMI. Al contrario, Daniel Gros, direttore del Center for European Policy Studies, sostiene che “una fede cieca nella globalizzazione” è la ragione principale dell’attuale reazione politica, perché essa “ha portato molti a declamarne” i benefici in maniera eccessiva, “creando aspettative sulle conseguenze della liberalizzazione del commercio impossibili da rispettare”.

 

Gros biasima il rifiuto dei politici di distinguere tra il commercio guidato dalla liberalizzazione e quello favorito dalle materie prime. “Fin dai primi anni novanta”, afferma, “quando le tariffe e le altre barriere commerciali avevano già raggiunto livelli molto bassi, i vantaggi tradizionali della liberalizzazione del commercio si erano in gran parte esauriti”. Ma il “boom ventennale dei prezzi delle materie prime” che ha fatto seguito “ha consentito che i principali esportatori di materie prime importassero di più”, aumentando al contempo il valore totale del commercio mondiale.

 

Un risultato che con impazienza “la maggior parte degli economisti e dei politici”, continua Gros, “ha attribuito ... alle politiche di liberalizzazione del commercio”, rafforzando così “l’idea che l’iper-globalizzazione fosse la chiave di enormi guadagni per tutti”. Il punto cruciale è che “la crescita alimentata dall’incremento dei prezzi delle materie prime, a differenza di quella prodotta dallo smantellamento delle barriere commerciali, ha causato una riduzione del tenore di vita dei paesi avanzati importatori di materie prime, poiché ha ridotto il potere d’acquisto dei lavoratori”. Di conseguenza, “quando i lavoratori dei paesi avanzati sono stati spremuti economicamente, sono giunti alla conclusione che la globalizzazione era il problema”.

 

Gros, non è il solo a dubitare che una maggiore liberalizzazione possa contribuire in modo significativo al rilancio del commercio mondiale e della crescita economica. Jomo Kwame Sundaram e Vladimir Popov, rispettivamente della Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite e dell’Accademia russa delle Scienze, sostengono una tesi simile. Affermano che “con il commercio globale già significativamente liberalizzato – e con redditi già stagnanti o in diminuzione – le ipotesi che nuovi [accordi di libero scambio] possano migliorare i redditi sono dubbie, nella migliore delle ipotesi”. Allo stesso modo, Eichengreen sostiene che “proprio come la protezione tariffaria non è un problema macroeconomico in condizioni deflazionistiche, del tipo “trappola di liquidità”, un commercio più libero, la panacea familiare agli economisti, non è una soluzione”.

 

Lomborg, da parte sua, ritiene tuttavia che la liberalizzazione degli scambi abbia ancora molto da offrire ai paesi più poveri. “Rilanciare il moribondo Doha Development Round dei negoziati di libero scambio a livello mondiale”, dice, renderebbe il mondo “più ricco di 11 mila miliardi di dollari ogni anno entro il 2030, con 7 mila miliardi di dollari che andrebbero ai paesi in via di sviluppo”. Questo potrebbe “ridurre il numero di persone in condizioni di povertà di una cifra sorprendente pari a 145 milioni in 15 anni”.

 

Ma Sundaram e Popov offrono un serio correttivo allo scenario roseo di Lomborg. Essi avvertono che le disposizioni di carattere non commerciale contenute nei trattati del tipo del TPP finirebbero per “rafforzare i rent-seekers della finanza, i possessori di proprietà intellettuale, e le multinazionali nei confronti dei governi – che tutti insieme frenerebbero le economie emergenti, piuttosto che aiutarle”.

 

Teoria Logora o Pratiche Sleali?

 

Roach, che si annovera tra “i difensori del libero scambio e della globalizzazione”, tuttavia rimprovera i suoi colleghi economisti perché non riescono a sviluppare un’adeguata base intellettuale per le politiche che promuovono. “Il meglio che gli economisti sono in grado di offrire”, ammette, “è lo schema dell’inizio del XIX secolo di David Ricardo: se un paese produce semplicemente in conformità ai suoi vantaggi comparati (in termini di dotazione di risorse e competenze dei lavoratori), presto, crescerà grazie all’incremento del commercio internazionale”. Ciò non basta, insiste Roach:

 

“Le argomentazioni di Ricardo, espresse in termini di vantaggi comparati di Inghilterra e Portogallo, rispettivamente in tessuti e vino, difficilmente sembrano rilevanti per il mondo di oggi iperconnesso e basato sulla conoscenza. Il premio Nobel Paul Samuelson, che ha aperto la strada alla traduzione dei fondamenti ricardiani all’interno dell’economia moderna, è giunto ad una conclusione simile alla fine della sua vita, quando ha messo in evidenza come un paese dirompente imitatore di tecnologie, con bassi livelli salariali, quale è la Cina potrebbe rovesciare la teoria dei vantaggi comparati”.

 

Stiglitz, un critico di lunga data dell’imperante programma di globalizzazione, è ancora più acuto nella critica al sostegno incondizionato degli economisti al libero commercio. Il problema per lui non consiste tanto nella teoria in quanto tale, quanto nellapromessa dei suoi sostenitori che il libero scambio comporterebbe vantaggi per tutti. In realtà, Stiglitz sostiene che la teoria implica esattamente l’opposto. Egli osserva che “sotto l’ipotesi di mercati perfetti (alla base della maggior parte delle analisi economiche neoliberiste), il libero scambio  implica l’equiparazionedei salari dei lavoratori non qualificati di tutto il mondo”. “Il commercio di beni è un sostituto della circolazione delle persone”. Di conseguenza, l’“[i]importazione di merci dalla Cina – beni la cui produzione richiede molti lavoratori non qualificati – riduce la domanda di lavoratori non qualificati in Europa e negli Stati Uniti”.

 

Di conseguenza essa abbassa i salari di questi lavoratori. “Alla fine”, spiega Stiglitz, “sarebbe come se i lavoratori cinesi continuassero a migrare verso gli Stati Uniti e l’Europa fino a quando le differenze salariali venissero eliminate del tutto. Egli osserva che “non sorprende che i neoliberisti non abbiano mai pubblicizzato questa conseguenza della liberalizzazione del commercio”. Invece, “essi sostenevano – si potrebbe dire mentivano – che tutti potrebbero avvantaggiarsene”.

 

Dal punto di vista di alcuni sostenitori del libero scambio, però, la globalizzazione è nei guai non a causa delle teorie neoliberiste, ma a causa di pratiche illiberali. Harold James della Princeton University suggerisce che “le decisioni giudiziarie e quasi-giudiziarie tese ad imporre pesanti sanzioni pecuniarie alle imprese straniere” potrebbero essere considerate in modo analogo alle guerre protezionistiche degli anni trenta, con gli Stati Uniti e l’Europa ancora una volta i principali antagonisti. Egli fornisce un esempio eloquente: “dopo che la UE ha annunciato che avrebbe richiesto ad Apple di pagare 13 miliardi di euro (14,6 miliardi di dollari) di tasse arretrate, che essa sostiene illegalmente ridotte dal governo irlandese, gli Stati Uniti hanno multato la Deutsche Bank, una società tedesca, per 14 miliardi di dollari per saldare i crediti relativi alle sue attività relative a titoli ipotecari prima del crollo del 2008”.

 

Come James riconosce, tali sanzioni potrebbero essere considerate come “una risposta efficace in un mondo dove le multinazionali sono diventate estremamente abili a ridurre le loro passività fiscali convenzionali”. Ma egli non è convinto. “A differenza delle tasse normali”, osserva, “le multe contro le imprese non sono prevedibilmente o uniformemente applicate, e devono essere contrattate e regolate singolarmente in ciascun caso”. Questo non è propriamente un ambiente che alimenta la parità di condizioni. Al contrario, “[q]ueste dispute sono spesso politicizzate e implicano interventi governativi di alto livello”.

 

Ciò riflette la pressione enorme sui governi nazionali per dimostrare che l’attuazione delle regole del commercio internazionale non ostacola le imprese nazionali nei confronti delle imprese straniere. Si consideri la politica industriale. Sia l’OMC che la Commissione Europea inaspriscono i controlli su qualsiasi progetto che abbia sentore di aiuti di Stato, come ad esempio il nuovo Airbus A350, che, secondo una recente sentenza dell’OMC, ha beneficiato degli “effetti diretti e indiretti” del sostegno pubblico a lungo termine.

 

Un esempio più incalzante è il nuovo regime di bail-in per le banche della UE, che, meno di sei mesi dopo il referendum Brexit, potrebbe trasformare l’Italia nella prossima spinosa questione politica dell’Europa. Oltre ad avere uno dei settori bancari più vulnerabili della UE, l’Italia ha anche uno dei tassi più alti d’Europa riguardo alla proprietà di titoli bancari e di obbligazioni da parte di individui e famiglie. Il divieto di utilizzare fondi pubblici per salvare le banche, entrato in vigore all’inizio di questo anno, pertanto, rende molto difficile per il governo italiano la risoluzione delle crisi bancarie del Paese, senza comprometterne la stabilità politica già traballante.

 

Protezionismo Responsabile?

 

Data la crescente consapevolezza dei limiti della liberalizzazione degli scambi, quanto è probabile la minaccia di un aumento del protezionismo? E cosa più importante, quanto è grave la minaccia?

 

Per rispondere ad entrambe le domande, Rodrik suggerisce che non si dovrebbe guardare agli anni trenta, ma agli anni ottanta. Rodrik ci ricorda che allora “era il Giappone, invece della Cina, ad essere lo spauracchio del commercio, tallonando i mercati globali – e prendendone il controllo”. Con gli Stati Uniti e l’Europa “ad erigere barriere commerciali e ad imporre ‘restrizioni volontarie alle esportazioni’ (VERs ) su acciaio ed automobili giapponesi”, la paura del “‘nuovo protezionismo’ strisciante era all’ordine del giorno”. Eppure il decennio successivo è stato caratterizzato dalla più grande ondata di globalizzazione che il mondo abbia mai conosciuto. Cosa è successo?

 

“Col senno di poi, il ‘nuovo protezionismo’ degli anni ottanta”, spiega Rodrik, “consisteva più in un regime di manutenzione che in un regime di rottura”. A dire il vero, “le ‘garanzie’ di importazione e le VER del tempo erano ad hoc”, egli afferma, “ma erano risposte necessarie alle sfide distributive e di regolazione poste dall’emergere di nuove relazioni commerciali”.

 

Quindi, adesso che si fa? Stiglitz è a favore di forti misure di welfare, in stile scandinavo, come parte di un contratto sociale in grado di mantenere società ed economie aperte. Frankel e Roach suggeriscono politiche specifiche, come quelle attuate negli Stati Uniti, ad esempio assicurazioni sanitarie universali, un esteso Earned Income Tax Credit, e un’ampia Trade Adjustment Assistance per aiutare la riqualificazione dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Ma, data la persistenza della depressione della domanda globale ed i bassi prezzi delle materie prime, è improbabile che tali misure riescano a riportare il commercio e la globalizzazione al loro vigore precedente.

 

In ultima analisi, Rodrik ha probabilmente ragione circa la necessità di un “migliore equilibrio tra autonomia nazionale e globalizzazione”. Egli afferma che l’odierna reazione anti-commercio è un messaggio per i politici che devono “porre le esigenze della democrazia liberale innanzi a quelle del commercio internazionale e degli investimenti”. L’ortodossia del libero scambio non è l’unica alternativa al populismo, ed “ai partiti di centro-destra e di centro-sinistra non dovrebbe essere chiesto di salvare l’iper-globalizzazione a tutti i costi”. La questione è quella di preservare un’economia globale relativamente aperta, non aderire devotamente a qualche modello ideale che anche i più fedeli sostenitori del libero scambio ammettono non esistere.

 

Paola Subacchi dirige la ricerca sull’economia internazionale presso Chatham House. Il suo libro sul renminbi, The People’s Money, sarà pubblicato in novembre dalla Columbia University Press.

 

Copyright: Project Syndicate, 2016.
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