Commenti

Le ottusità che frenano l’Europa

  • Abbonati
  • Accedi
L'Analisi|le analisi del sole

Le ottusità che frenano l’Europa

Lo guardavano dall’alto in basso economisti e intellettuali di mezzo mondo, sbeffeggiavano un fenomeno da baraccone: lui, il vecchio attore quasi settantenne che correva per la Casa Bianca promettendo di rilanciare il sogno americano con l’economia dell’offerta.

Con il taglio delle tasse, più investimenti nella difesa e le guerre stellari per rimettere al suo posto l’Urss di Leonid Breznev. Una rivoluzione culturale, economica e militare.

Si ritrovarono increduli e storditi, molti tra quelli europei, quando poi Ronald Reagan nel 1980 fu eletto presidente e 4 anni dopo confermato a furor di popolo con un consenso record (58,8%) tuttora imbattuto da un repubblicano. E ancora di più furono sbalorditi quando quell’attore, che per inciso aveva governato la California per 8 anni, fu classificato tra i grandi presidenti americani, un innovatore in economia, l’uomo che aveva fatto esplodere l’impero sovietico.

L’Europa fatica a capire l’America, i fermenti profondi della sua società, il coraggio delle rotture, il rifiuto di mugugnare sul proprio scontento, la voglia di rischiare e rigenerarsi alla ricerca di nuove frontiere e opportunità. Fatica a capire perché l’Europa è l’esatto contrario: scarsa reattività agli errori, rifugio nella loro ripetitività piuttosto che esplorare il nuovo, ricerca di garanzie anti-rischio invece del rischio.

E così nemmeno questa volta ha visto arrivare il terremoto Trump: ha preferito enumerarne e deriderne limiti e gaffes, peraltro molti, invece che coglierne carisma e potenzialità, soprattutto la sintonia del suo messaggio con sentimenti e frustrazioni della maggioranza degli americani.

Intendiamoci, The Donald non è Ronald, l’imprenditore campione dell’anti-politica non assomiglia affatto al politico di lungo corso sbocciato sotto i riflettori di Hollywood. Entrambi però hanno intercettato il profondo disagio del proprio Paese e sono scesi in campo per restituirgli un futuro migliore, fare di nuovo l’«America grande» o per dirla con Reagan «gli Stati Uniti più forti e rispettati nel mondo».

C’è un paradosso nell’ottusità con cui l’Europa, che poi regolarmente le si aggrega dietro, coglie sempre in ritardo le svolte della storia e i ricorrenti scossoni che l’America si auto-prescrive. L’insurrezione contro la democrazia liberale e globale, i suoi contraccolpi sulla pelle della gente inviperita e impoverita, è esplosa negli Stati Uniti travolgendo Hillary Clinton, simbolo dell’establishment, e portando Trump nello studio ovale ma è nata e cresciuta molto prima in Europa.

Tartassata da anni dalla proliferazione di populismi, nazionalismi, euroscetticismo, invece di provare a capirne le cause e tentare di dare risposte adeguate alla società disorientata, l’Europa come sempre ha minimizzato illudendosi che, mettendo la testa sotto la coperta, le isterie collettive si sarebbero esaurite da sole.

Oggi il successo del trumpismo, la scelta americana dei tagli netti e rigeneranti, rischia di complicarle la vita destabilizzandone democrazie e modello di sviluppo. Trasmette infatti una frustata di energia e di speranza a tutti i movimenti anti-sistema che sognano da anni l’assalto alla diligenza dei poteri costituiti. Dopo la vittoria di Brexit e alla vigilia di una lunga stagione elettorale che chiamerà alle urne Italia, Austria, Olanda, Francia e Germania, la vittoria controcorrente di Trump mette il vento nelle vele di tutti i contestatori europei: dal partito del no referendario in Italia all’estrema destra in Austria, Olanda e Francia, agli euroscettici in Germania. Potrebbero essere dolori diffusi.

L’ha capito da mesi Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione Ue che da tempo prova a disarmare i populismi nostrani mettendo fine a 9 anni di politiche di autoflagellazione con un patto di stabilità più flessibile, per coniugare insieme più stimoli alla crescita economica con conti pubblici risanati nel tempo. L’ha ripetuto ieri Pierre Moscovici, il suo “ministro” competente, deciso a usare le leve di bilancio «per affrontare una sfida comune alle democrazie occidentali che non possono cessare di essere società ed economie aperte».

Trump ha colpito, non si sa se l’Europa che conta, quella dei Governi, ne raccoglierà l’implicito invito all’azione. Urgente. Per ora si limita a temerne gli strappi con la lunga tradizione di partnership. Non a caso in una lettera indirizzatagli ieri l’Unione non solo gli ricorda l’importanza del legame transatlantico per la stabilità del mondo ma gli chiede chiarimenti su questioni di mutuo interesse come il commercio e la politica di sicurezza.

«Interessi dell’America al primo posto ma negozieremo con tutti in modo leale e onesto, cercando partnership e non conflitti» aveva già risposto l’interessato nel suo primo discorso da 45mo presidente degli Stati Uniti. Parole nuove e rassicuranti al contrario di quelle incendiarie del candidato.

Però l’Europa non può farsi illusioni: dovrà a sua volta cambiare registro, cominciando dalla politica di difesa comune. Trump non le farà più sconti sullo scudo Usa. Se lo si vuole, dovrà cominciare a pagarlo. Sul serio. Ma è pronta l’Europa in crisi al nuovo ménage tra adulti?

© Riproduzione riservata