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Il voto Usa e i «perdenti della tecnologia»

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L'Editoriale|i consensi a trump

Il voto Usa e i «perdenti della tecnologia»

Trump arriva alla presidenza sull’onda della frustrazione di milioni di cittadini dell’ “America di mezzo” che soffrono la precarietà e la dequalificazione dei propri posti di lavoro. La globalizzazione è vista, sia dagli elettori sia da molti analisti, come la causa, di questo degrado. Per contrastarlo, alcuni suggeriscono di compensare i “perdenti della globalizzazione”, altri di rallentare la globalizzazione stessa, erigendo barriere doganali e muri contro l'immigrazione.

Quest’analisi coglie solo una parte del problema. Nelle società occidentali, disoccupazione, dequalificazione del lavoro e disuguaglianza derivano solo in parte dall’integrazione dell’economia mondiale. Un ruolo crescente è giocato dalla tecnologia tipica della quarta rivoluzione industriale che caratterizza la nostra epoca, quella dell’informazione, della comunicazione, del big data, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale. La robotica avanzata sostituisce il lavoro mediamente qualificato, polarizzando l’occupazione sui due segmenti estremi: da un lato quello ad altissima qualificazione, ben remunerato sia economicamente sia con la soddisfazione e il prestigio sociale, e all’altro estremo le mansioni manuali più umili, dequalificate, sottopagate. Se le ricette, giuste e sbagliate, suggerite per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione sono abbastanza chiare, la gestione sociale e politica del progresso tecnico è più complessa, meno discussa anche perché non si presta a scorciatoie populiste.

Un modo ottimista di affrontare il fenomeno è pensare che la distruzione o dequalificazione del lavoro operata dalla tecnologia sia temporanea: nel medio termine la tecnologia stessa creerà nuove occupazioni. Si tratterebbe, dunque, solo di compensare in qualche modo i “perdenti della tecnologia” insieme a quelli della globalizzazione, aspettando che il problema si risolva da solo, come è successo in passato. Possiamo contarci?

La crescita della produzione e del benessere è, nella felice espressione di Mokyr, «dono di Atena», dea della sapienza, dell’intelligenza, della creatività, ma la diffusione di questo dono non è stata uguale in ogni rivoluzione industriale.

La prima, applicando la macchina a vapore alla manifattura, alle miniere, ai trasporti ha creato posti di lavoro nelle fabbriche, ma ne ha distrutti molti nell’artigianato e nell’industria domestica. Per due generazioni ha aggravato le condizioni di lavoro e accresciuto la diseguaglianza nella distribuzione del reddito. La seconda rivoluzione industriale, che inizia alla fine dell’Ottocento sulle ali del motore elettrico e di quello a combustione interna, è stata la socialmente più inclusiva. Ha creato milioni di posti di lavoro aggiuntivi, sempre meglio retribuiti. Ha consentito la nascita del sindacato e di partiti operai che hanno ottenuto orari di lavoro più corti in ambienti più sani. Ha combattuto la piaga del lavoro minorile. Ha migliorato le condizioni di vita di tutti, creando città sane e vivibili – grazie ai sistemi fognari, all’illuminazione, a rapidi trasporti urbani – case per la prima volta dotate di riscaldamento e acqua corrente, connessioni veloci e sicure da un punto all’altro della terra. La cosiddetta terza rivoluzione industriale del secondo dopoguerra è la continuazione della seconda di cui perfeziona e diffonde le tecnologie dominanti, con un’estrema meccanizzazione e l’introduzione dei primi computer. Ciò che la caratterizza, dal nostro punto di vista, è l’accelerazione nel processo di riduzione delle disuguaglianze e quindi un consenso sociale mai visto prima o dopo di allora. La quarta rivoluzione industriale che stiamo vivendo non ha per ora diffuso benessere e occupazione qualificata quanto la seconda e la terza. Da questo punto di vista sembra piuttosto assomigliare alla prima. E generare analoghe tensioni sociali.

Nel primo Ottocento, i doni di Atena si concentravano sproporzionatamente nelle mani di pochi, anche grazie a istituzioni a essi favorevoli, prima tra tutte il suffragio elettorale limitato. La quarta rivoluzione industriale mette nelle mani di tutti smartphone, tablet, collegamenti istantanei con il mondo intero ma concentra i propri benefici economici in un numero assai inferiore di mani. Alla lunga, questa tendenza è insostenibile sia socialmente sia economicamente. Questo problema non fa ancora parte del discorso pubblico, non è all’attenzione della politica. È più semplice indicare la globalizzazione piuttosto che il robot come nemico da abbattere. Ma non si tratta di abbattere né l’uno né l’altra ma di capire come diffondere nel modo più equo possibile i nuovi doni di Atena. Su questo è indispensabile un dibattito tecnico, istituzionale, economico e politico perché le soluzioni non sono facili né ovvie. Si sa che è necessario uno sforzo enorme per l’istruzione, ma non si fa abbastanza in proposito. Forme di reddito minimo garantito (l’imposta negativa sul reddito che piaceva anche a Milton Friedman) vanno studiate e adottate, ma non basteranno a eliminare tutta la frustrazione di chi perde un lavoro che è anche veicolo di realizzazione personale e inserimento sociale. Sarà traducibile in pratica l’antico slogan «lavorare meno, lavorare tutti» (che è poi il sogno di Keynes per i propri pronipoti)? Forse, se realizzeremo istituzioni più inclusive. Come nell’Ottocento si impose una riforma delle leggi elettorali, vanno oggi forse pensati modi nuovi di distribuire i diritti di proprietà sulle innovazioni. La via più semplice è quella di una forte tassazione dei diritti stessi. Si può immaginare un “azionariato diffuso” della proprietà dei diritti di sfruttamento economico delle grandi innovazioni compatibile con adeguati incentivi a ricerca e innovazione? Non è detto che le strade siano queste, altre se ne possono immaginare, importante è cercarle perché, mentre la tecnica degli ultimi decenni rivoluziona il nostro modo di lavorare, le istituzioni non possono restare ferme alla precedente rivoluzione industriale.

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