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Un «vigile» privato sulle quotate

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Un «vigile» privato sulle quotate

Luca Enriques ha recentemente discusso sulla stampa la peculiarità italiana dei cosiddetti amministratori di minoranza, formulando una proposta di revisione meritevole di più approfondita analisi d’impatto. È un richiamo di attenzione al tema della corporate governance oggi pertinente, solo che si consideri il ruolo di crescente sostituzione che il mercato dei capitali è chiamato rapidamente a svolgere rispetto al credito bancario.

In questa prospettiva a noi sembrerebbe utile proseguire il dibattito su di un diverso ma collegato tema: quello su come sia possibile meglio assicurare reale effettività alle regole di autodisciplina sulla corporate governance cui i singoli emittenti dichiarano di aderire (anzitutto in tema di amministratori, ma non solo). Questo tema ci sembra coerente con quello proposto da Enriques perché esso pure sollecita al tempo stesso maggiore autonomia privata e un ruolo di coraggiosa avanguardia per Consob.

Il punto di partenza del nostro ragionamento è il codice di corporate governance delle società quotate promosso da Borsa italiana che, specie nella sua ultima edizione, definisce in modo puntuale (seppur, come ogni cosa in un mondo in costante evoluzione, sempre perfettibile) le migliori pratiche. Esso è inoltre oggetto di analisi statistica da parte di Assonime con un apprezzato rapporto annuale.

Si tratta tuttavia di un sistema di regole il cui monitoraggio – per quanto accurato – è di tipo essenzialmente formale: talora poco più che un mero esercizio di “box-ticking” rimesso allo stesso emittente. Lo stesso accade, troppo spesso, per gli esercizi periodici di autovalutazione sulla composizione e l’attività dei consigli di amministrazione (e ciò spiega a ben vedere la sorpresa che viene talora manifestata in Italia a fronte della più incisiva verifica della corporate governance attuata dalla Banca centrale europea per le banche quotate).

È ciò efficiente? Ne dubitiamo, se si vuole conseguire un risultato non di forma bensì di sostanza. Certo, si tratta di un limite diffuso anche altrove e non specifico dell’Italia. Perché tuttavia non provare a offrire, dall’Italia, un contributo sperimentale di avanguardia, assai utile anche all’Europa, puntando su una maggiore cooperazione pubblico-privata non solo nella co-regolazione ma anche nella co-vigilanza? Per farlo basterebbe mettere a frutto le significative risorse e competenze private già ora disponibili presso Borsa italiana e Assonime e delegare, sotto la attenta vigilanza di Consob, a un organismo privato di natura consortile il ruolo di monitoring trustee della attuazione sostanziale del codice di autodisciplina. L’organo, supportato da un adeguato ufficio permanente, dovrebbe certificare (se del caso con un sistema di rating) su base annuale la compliance da parte di ciascun emittente al codice, all’esito di un processo strutturato di dialogo in continuo con l’emittente e con ciascun componente dei suoi organi, espletando periodiche verifiche (ad esempio sulla professionalità e sul tempo e le modalità in concreto di assolvimento dei doveri della carica) e partecipando quale mero osservatore ai lavori degli organi sociali.

In questo modo il custode privato del codice svolgerebbe anche un ruolo di “induction” e di “challenging” per gli amministratori indipendenti, siano essi “di maggioranza” o “di minoranza” e soprattutto aiuterebbe la società a rilevare in anticipo e a tempestivamente affrontare (al riparo dalla sanzione) gli inevitabili aspetti di fragilità che ogni sistema complesso e grande impresa presenta. Al contempo, la vigilanza pubblica verrebbe enfatizzata nella sua efficacia trovando nell’operato del monitoring trustee un prezioso alleato. Ci sembra che, tra tutte le autorità di mercato in Europa, Consob sia la più attrezzata per avviare questa sperimentazione.

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