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Il coraggio di Marta e la fiducia contagiosa da costruire

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memorandum

Il coraggio di Marta e la fiducia contagiosa da costruire

Gentile direttore,
«è un buon segno che un quotidiano importante dedichi spazio ai giovani», è vero, ed è bella la lettera di Federico sulla Domenica, e ancora più bello è che sia in prima pagina.

Mi chiamo Marta ho vent’anni, studio Lingue all’università, leggo, scrivo, osservo il mondo con occhi curiosi, mai sazi eppure mi sembra, alle volte, che la vita mi scivoli via dalle mani. Tre anni fa, fra i banchi di un liceo classico, è nato un blog che ancora oggi gestisco con una decina di amici, si chiama «Uragano Elettrico». Eravamo arrabbiati, allora, perché non ci sentivamo compresi, ma sopratutto non ci sentivamo ascoltati dalla generazione dei nostri genitori e professori. Poter scrivere su un blog a sedici anni era per noi un atto rivoluzionario, volevamo strillare al mondo che eravamo cresciuti, che eravamo grandi, e interessati all’attualità, alla poesia, all’arte.

Ora che siamo all’università, la rabbia adolescenziale si è estinta ma la speranza di un mondo migliore e il desiderio di instaurare un dialogo costruttivo sono rimasti. Poco più di un anno fa pubblicavo sul blog un articolo che volevo spiegasse agli adulti il nostro punto di vista, che dimostrasse loro quanto i giovani di oggi siano pronti, volenterosi, intelligenti, consapevoli delle loro potenzialità ma anche delle difficoltà di cui è piena la vita; sopratutto volevo, con questo articolo, incoraggiare i miei coetanei a non lasciarsi scoraggiare da chi ripete che per noi non c’è posto, che non troveremo lavoro, che se vogliamo fare carriera dobbiamo trasferirci all’estero, che siamo superficiali, mammoni, privi di stimoli e passioni.

Non siamo così, o almeno non tutti, e il successo che avuto l’articolo lo dimostra. Lo allego anche a lei, chissà se dopo la lettera di Federico, che si fa portavoce di chi oggi ha trentanni, non abbia voglia di leggere anche la mia, che ne ho dieci di meno.

di Marta Viazzoli

Pubblichiamo il testo dell’articolo scritto da Marta Viazzoli.

Ho vent’anni, classe 1996.

Sono figlia della crisi economica, della disoccupazione, figlia dell’instabilità politica, della dipendenza da internet, del conflitto israeliano palestinese.

Faccio parte di quella generazione cresciuta con i pokemon , con le videocassette, con albero azzurro, col game boy, con le big babol, con messenger; di quella generazione che ha imparato a contare le monete negli anni in cui si passava dalla lira all’euro, di quella generazione che, quando in televisione trasmisero in diretta il crollo delle torri gemelle, piagnucolava per l’interruzione della melevisione.
Siamo la generazione dei “senza”: giovani senza ambizioni, giovani senza lavoro, giovani senza futuro.
Siamo la generazione del condizionale presente.
Dicono di noi che siamo immaturi, superficiali, maleducati, viziati, pigri, privi di valori. Dicono che non sappiamo come funziona il mondo, che non siamo in grado di costruire legami solidi, che siamo incapaci di dialogare, che non sappiamo cosa sia il sacrificio.
Nel 2007 l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa definì i giovani «bamboccioni» e invitò le famiglie a buttarli fuori di casa; il viceministro al Welfare Michel Martone chiamò «sfigati» gli studenti che si laureano fuori corso, affermando che fosse migliore la scelta di chi a sedici anni non ha troppi grilli per la testa e punta sugli istituti professionali; la ministra Cancellieri se la prese con i giovani «mammoni» che vogliono «il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà», quel posto fisso che fu definito «un’illusione» dalla Fornero, e «una cosa monotona» da Monti.

Si parla della giovinezza e ancora più dell’adolescenza come se fosse una malattia incurabile e contagiosa.
A voi coetanei chiedo: come vi sentite mentre leggete queste parole?
Io mi sento frustrata, incompresa, sminuita, delusa, sottovalutata. Indignatevi con me, diciamo loro tutti assieme «noi ce la possiamo fare», «possiamo farvi cambiare idea».

Perché Alessandro Magno a 23 anni aveva conquistato metà del mondo allora conosciuto, Leopardi a 21 scrisse l’Infinito, Mozart a 13 suonava davanti alla corte imperiale, ma ventitré anni è anche l’età che avevano Sergey Brin e Larry Page nel 1996, quando si preparavano a cambiare il nostro mondo, lanciando l’anno dopo Google, è l’età che aveva Mark Zuckerberg, nel 2007, quando annunciò il lancio di Facebook, Christopher Paolini aveva quindici anni quando scrisse Eragon, un libro che ha venduto trenta milioni di copie.

E questi sono solo alcuni dei nomi più noti ma ci sono anche Adriana ed Enrica, siciliane, cinquant’anni in due, che stanno sviluppando nanotecnologie per ricavare tessuti dalle bucce degli agrumi, che altrimenti finirebbero al macero, della loro terra, tanto bella quanto dilaniata dalla crisi; Filippo e Marco, due ragazzi giovanissimi, che nonostante la crisi editoriale, hanno messo in piedi delle librerie-baite nel parco nazionale della Val Grande, riuscendo a conciliare la passione per i libri e l’amore per la natura; Raul, 20 anni, napoletano, ha creato insieme a sua sorella una startup per comparare i prezzi dei vari servizi di trasporto e Monica, anche lei studentessa universitaria che ha fondato un’impresa per aiutare famiglie che cercano baby-sitter.

Di ragazzi come Adriana, Enrica, Filippo, Marco, Raul e Monica ce ne sono tantissimi, sono quegli stessi ragazzi che chiamano bamboccioni, sfigati e mammoni, quei ragazzi che continuano sentirsi ripetere «se vuoi fare qualcosa di buono nella tua vita, non puoi farlo qui» quei giovani che hanno negli occhi l’entusiasmo e nel cuore la voglia di vivere, di vedere il mondo, di lavorare e di sporcarsi le mani per un sogno nonostante la crisi economica, la disoccupazione, l’instabilità politica, la dipendenza da internet, il conflitto israeliano palestinese; nonostante i pokemon , le videocassette, l’albero azzurro, il game boy, le big babol, messanger.

Tutti insieme dovremmo alzare la voce per dire che il futuro esiste perché esistiamo noi, che nel mondo di oggi le possibilità sono infinite, che tra cento e mille anni gli uomini leggeranno, ascolteranno, studieranno i capolavori che noi scriveremo e comporremo. Noi giovani dobbiamo essere i primi a reagire perché soprattutto noi abbiamo la forza e l’urgenza di farlo e dobbiamo pretendere un futuro nuovo, libero, pulito in cui veder riconosciute le nostre capacità.

I nostri nonni non avevano la possibilità di viaggiare con facilità, i nostri genitori per fare una ricerca non avevano a disposizione google, noi abbiamo innumerevoli strumenti di conoscenza e infinite strade da percorrere e non possiamo permetterci di stare fermi adducendo come scusa la crisi, perché avere delle possibilità significa anche assumersi delle responsabilità. Lo diceva Sant’Agostino molti anni fa, «Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora», «i tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi».

Non sono i tempi che ci rendono quelli che siamo, ma viceversa, noi dobbiamo fare i tempi, noi dobbiamo togliere quel “senza” e diventare la generazione dei “con”, noi dobbiamo smettere di usare il condizionale ed iniziare ad usare verbi al futuro. E sarò impopolare a dire tutto questo nell’era della lamentela, ma sono certa che Mario Calabresi ha ragione quando scrive: «Chi predica l’entusiasmo si assume il rischio di provocare reazioni di fastidio, spesso viene guardato con sospetto perché rompe il fronte del malumore, ma rischia anche di dare coraggio a qualcuno, e questo è un rischio che vale la pena correre».

***

Questa lettera di Marta Viazzoli era rimasta nel cassetto. Mi sono ricordato di lei perché il suo articolo, speditomi un po’ di tempo fa, mi era piaciuto molto, ne avevo visto qua e là pubblicato qualche stralcio, e perché continuo a ricevere mail, segnalazioni, racconti di vita di donne e uomini, ventenni, trentenni, che credono nel loro Paese, scommettono su se stessi, hanno fiducia nel futuro e hanno una gran voglia di “alzare la voce”. Sono donne e uomini che amano l’Italia e appartengono al mondo, fanno i conti con una crisi globale che continua a mordere in casa nostra più che altrove, ma non si rassegnano e rivelano nei comportamenti di essere anni luce distanti da cliché che ne svalutano con leggerezza le capacità, la determinazione e il talento.

Non cogliere questi segnali importanti, come gli insufficienti ma reali miglioramenti che emergono nella pubblica amministrazione, nel mondo accademico e della ricerca, può essere pericoloso perché si rischia di ignorare la forza di un capitale umano che resta la principale risorsa di questo Paese per costruire un futuro all’altezza della sua storia. Devono cadere, in fretta, tutti gli steccati. Tra impresa e università, tra chi fa ricerca in Italia e chi la fa all’estero, tra pubblica amministrazione e mondo produttivo, tra giovani e meno giovani. Il circolo virtuoso del merito impone di sperimentare strade nuove e di riconoscere il valore ovunque esso sia.

A ben pensarci, potrebbe essere questa la carta più importante da giocare per fare in modo che la determinazione e il talento personali si moltiplichino: bisogna che siano in tanti ad avere fiducia nel futuro loro e di questo Paese, perché solo così il sentimento di fiducia finisce con l’essere contagioso e pone le basi di un cambiamento profondo, diffuso, destinato a durare a lungo. Per queste ragioni, abbiamo deciso di pubblicare la lettera e l’articolo ricevuti da Marta Viazzoli. Hanno il pregio della freschezza e la forza della chiarezza espositiva.

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