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Le banche centrali «sfidano» il protezionismo

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L'Analisi|lo scenario

Le banche centrali «sfidano» il protezionismo

Il vento del protezionismo, dopo la Brexit e la vittoria di Donald Trump, soffia forte. Una nuova sfida che le banche centrali sono in grado di affrontare?

La risposta è diversificata. C’è chi sottolinea, ad esempio, che la politica monetaria rischia di essere un’arma spuntata. Usata a piene mani per combattere la deflazione, tra i principali effetti della globalizzazione, adesso potrebbe avere il fiato corto. L’affermazione non è da tutti condivisa. O meglio: si riconosce che la situazione va mutando e, però, non si arriva all’estremo di considerare di fatto impotenti gli istituti centrali. A ben vedere l’attenzione viene focalizzata su altri aspetti. In primis quello del più marcato limite «territoriale» degli effetti delle politiche monetarie. Il ragionamento è il seguente. Gli scambi commerciali, a livello globale, stanno rallentando.

“Le banche centrali dovranno, diminuendo il sostegno dell’interscambio commerciale, porre maggiore attenzione agli interessi dell’area geografica di loro «competenza»”

 

Il Wto ne stima per il 2016 una crescita dell’1,7%. Cioè: ben al di sotto delle precedenti previsioni. In un simile contesto, che inevitabilmente si rafforzerà dopo Brexit e la vittoria di Donald Trump, gli istituti centrali saranno più concentrati sulle dinamiche locali. Dovranno, diminuendo il sostegno dell’interscambio commerciale, porre maggiore attenzione agli interessi dell’area geografica di loro «competenza». Non che ciò non accada già adesso. Tuttavia il fenomeno si accentuerà. La prova? L’hanno fornita, seppure indirettamente e sul piano dei rapporti con la politica, gli stessi banchieri centrali. Prima è stata la volta del Governatore britannico Mark Carney, che ha alzato la voce per rivendicare la sua indipendenza dall’Esecutivo guidato Theresa May.

Poi la stessa Janet Yellen ha detto forte e chiaro che rimarrà per l’intero mandato. Ebbene: al di là della volontà di reclamare la propria autonomia, simili interventi sono la cartina di tornasole della rinnovata rilevanza del «mondo locale». Ma non è solamente una questione geografica. Sempre di più sarà importante la dinamica delle monete. Un fronte dove le banche centrali, nonostante i dubbi di molti, potranno recitare il ruolo ancora da protagonisti. In che modo? Un esempio può aiutare a capire meglio. Il nuovo Presidente Usa, se darà seguito a quanto dichiarato in campagna elettorale, farà in modo di aumentare la produzione industriale sul territorio statunitense. Una situazione che, ovviamente, avrà bisogno del sostegno dell’export e, quindi, del dollaro debole. Nei giorni successivi la vittoria di Trump, però, questa condizione non è stata soddisfatta. Al di là dell’ultima seduta (il Dollar index è sceso) il biglietto verde si è rafforzato.

“Dopo il tanto atteso secondo rialzo dei tassi, non è azzardato ipotizzare una Fed di nuovo maggiormente accomodante nel 2017”

 

Tanto che molti prevedono lo scenario della parità tra euro e divisa americana. Mentre altri, addirittura, ipotizzano il crollo della moneta unica al di sotto dell’unità rispetto al dollaro. Forse, nel breve periodo, potrà anche accadere. E tuttavia, dopo il tanto atteso secondo rialzo dei tassi, non è azzardato ipotizzare una Fed di nuovo maggiormente accomodante nel 2017. Anche perché, troppi lo dimenticano, il rimpatrio della produzione industriale non è una passeggiata. Certo: ci sono gli sgravi fiscali cui si cumula, tra le altre cose, la riduzione della tassazione sugli utili delle aziende.

E tuttavia, analogamente a molti altri Paesi industrializzati, da un lato la popolazione statunitense è in media più vecchia di quella negli emerging; e, dall’altro, esistono (per fortuna) maggiori tutele del lavoro (sempre rispetto agli emerging). Il che, da qualunque parti la si «giri», indurrà ulteriori costi aziendali. Oneri che, per essere compensati, richiederanno alti volumi di vendite. Ebbene: in un simile contesto ipotizzare di mettere in secondo piano la domanda estera è velleitario. E quindi il cambio favorevole diventa un obiettivo obbligato. Al che, però, sorge la preoccupazione: il timore è che la Fed, nel nuovo mondo di Trump, non possa (o non voglia) perseguire il mini-dollaro senza dare il via ad una guerra monetaria con la Cina (o la stessa Europa).

Fin qui alcune considerazioni riguardo alle eventuali mosse delle banche centrali. Tuttavia un altro aspetto è rilevante. Il protezionismo, almeno alla Trump, gioca più sul piano dell’economia reale che della congiuntura di carta. Un livello diverso da quello che, nel mondo globalizzato della grande liquidità, è stato «sfruttato» a piene mani dagli istituti centrali. Di nuovo salta fuori un elemento che induce dei «dubbi» rispetto all’efficacia delle loro politiche. Insomma: «grande è la confusione sotto il cielo», scrive Finance Lounge citando MaoTse-tung. E però grandi timonieri in grado di tracciare la rotta oggi non se ne vedono.

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