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L’effetto Trump e la lezione degli Anni Trenta

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Editoriali

L’effetto Trump e la lezione degli Anni Trenta

Con legittima soddisfazione, Angela Merkel ricorda, ai tedeschi che le cose in patria non sono mai andate tanto bene, almeno sul piano economico. Lo stesso potrebbe dire un leader mondiale. Donald Trump, che a questa leadership non sembra aspirare, arriva alla Casa Bianca in un momento economico fortunato sia negli Stati Uniti sia nella maggior parte del pianeta.Lo shock del settembre 2008 e una ripresa delle economie avanzate sotto le attese hanno prodotto speculazioni su un possibile “ristagno secolare”, analogo a quello previsto nel 1938 da Alvin Hansen che confrontava il primo trentennio del secolo, caratterizzato da rapido progresso tecnico e robusta dinamica degli investimenti e del reddito, con un'economia incapace, dopo il fatidico 1929, di utilizzare pienamente capitale e lavoro, tanto che Hansen non esitò a prevedere la “fine della crescita”.

La nuova teoria della stagnazione ha diverse versioni. Summers, ex segretario al Tesoro statunitense, evidenzia la debolezza della domanda, testimoniata dall'eccesso di risparmio rispetto all'investimento. Gordon, della Northwestern University, mette in luce i freni allo sviluppo che si profilano all'orizzonte dal lato dell'offerta: fiacca dinamica demografica, peculiarità delle nuove tecnologie, modesta qualità dell'istruzione, diseguale distribuzione del reddito e debito pubblico eccessivamente elevato.Il dibattito tra gli economisti non è arrivato a conclusioni condivise. Riguarda, comunque, soprattutto il futuro. Per valutare lo stato attuale dell'economia, all'inizio dell'era Trump, vediamo qualche dato.Il Fondo monetario internazionale prevede per l'economia globale una crescita del 3,4% nel 2017, di poco inferiore alla media realizzata dalla fine della crisi ma superiore, seppur di poco, a quella del periodo 1972-2007. L'economia globale, dunque, non mostra al momento segni di ristagno secolare. Summers e gli altri, tuttavia, si riferiscono soprattutto alle economie avanzate.

Vediamo anche qui i dati. Gli Stati Uniti godevano nel 2015 di un prodotto interno lordo del 13% superiore a quello del 2007, l’ultimo anno pre-crisi, mentre nel 1938, quando Hansen parlava di ristagno secolare, il Pil americano era ancora inferiore del 10% a quello del 1929. La crescita 2009-15, attorno al 2%, è stata solo marginalmente inferiore a quella “secolare” (1980-2007): difficile, dunque, parlare di ristagno. La situazione attuale, dunque, è ben lontana da quella osservata da Hansen negli anni Trenta.

E l’Europa? La zona euro ha sofferto la crisi più delle altre economie avanzate. Tra il 2009 e il 2015, è cresciuta in media solo dello 0,9% l’anno. Se però si escludono i Paesi iberico-mediterranei, la crescita dei restanti 14 membri dell’Eurozona balza, nel medesimo periodo, a una media dell’1,7% ogni anno, non lontana da quella statunitense.

Nel complesso, dunque, nel mondo e nelle stesse economie avanzate, a eccezione di quelle mediterranee, l’uscita dalla crisi è stata relativamente rapida con il ritorno a tassi di crescita vicini a quelli secolari. Solo nei “gloriosi” trent’anni postbellici si sono verificate condizioni tali da produrre una crescita significativamente più elevata di quella secolare. Quelle condizioni non sono ripetibili nel prevedibile futuro. Siamo tornati, e non è poco, a tassi di sviluppo prossimi al trend di lunghissimo periodo, avendo esorcizzato il rischio, che nel 2008 pareva assai forte, di cadere nel “ristagno secolare” degli anni Trenta (la recente storia economica italiana è diversa e peculiare ma non è questa la sede per parlarne).

Questa, in estrema sintesi, è la fotografia dell’andamento del Pil mondiale all’inizio dell’era Trump, inizio salutato con moderato entusiasmo dai mercati azionari e da una vendita di dimensioni storicamente quantomeno inconsuete delle obbligazioni sovrane e private. I motivi di soddisfazione però si fermano all’oggi. La continuazione dei trend economici positivi dipende dalla riduzione delle incertezze politiche e sociali nemiche della crescita tanto degli investimenti quanto dei consumi. Segni di una rivolta contro la globalizzazione nei Paesi avanzati erano chiaramente visibili ben prima dell’elezione del magnate immobiliare di New York. I suoi programmi protezionisti e isolazionisti sono oggi un enorme elemento aggiuntivo d’incertezza che può avere un forte impatto sull’andamento dell’economia mondiale. Non è escluso che una pausa nel cammino della globalizzazione sia politicamente opportuna, come molti sostengono, ma è certo che una subitanea marcia indietro, con la cancellazione di trattati operanti da anni e l’affacciarsi di pratiche protezionistiche che si pensavano abbandonate per sempre, agirebbero da freni potenti alla crescita mondiale. Un ritorno agli anni Trenta, evitato dopo la crisi, sarebbe allora una possibilità concreta. Né rassicura del tutto la promessa della Cina di raccogliere la bandiera del mercato e del libero commercio internazionale. All’orizzonte più lontano restano i pericoli dei freni alla crescita evidenziati da Gordon e l’esigenza di contrastarli con politiche sociali, redistributive, educative e di finanza pubblica ma nei prossimi anni il pericolo maggiore è quello di una diffusa reazione protezionista.

Gli anni Trenta mostrano che non si tratta di pericolo solo economico.

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