Come i vagabondi dell’opera di Samuel Beckett “Aspettando Godot”, gli americani e le persone di tutto il mondo stanno nervosamente aspettando l’imminente presidenza di Donald Trump. Ovviamente, diversamente da Godot, Trump arriverà, e sappiamo tutti anche quando arriverà. Ma come i desolati Vladimiro ed Estragone, le emozioni sono forti e cambiano alla velocità della luce, alternando paura, rassegnazione, umore nero e disperazione per ogni barlume di speranza nelle parole e nelle azioni del presidente-eletto.
Come con l’opera teatrale di Beckett, il significato dell’ostentazione pubblica fatta da Trump per promuovere la sua amministrazione è difficile da inquadrare. “La speculazione sulle probabili politiche domestiche ed estere di Trump è dilagante, ma poco, se non addirittura nulla di tutto ciò, è significativo”, asserisce Richard Haass del Consiglio sulle Relazioni estere. “Fare campagna elettorale e governare sono due attività molto diverse, non vi è ragione di credere che il modo in cui ha condotto la prima determini in che modo si approccerà alla seconda”.
Haass forse ha ragione, ma il fatto è che, a parte un certo ammorbidimento nella retorica di Trump, sinora i segnali di speranza sono stati piuttosto inesistenti nella transizione. Sì, Trump ha fatto un passo indietro – almeno per ora – riguardo alla sua minaccia di nominare un procuratore speciale per indagare sull’avversaria Hillary Clinton. Ma a quella decisione sono seguite una raffica di nomine allarmanti: Steve Bannon, ex capo del sito estremista Breitbart News e icona del movimento di destra alternativa “alt-right” dei bianchi nazionalisti d’America, come consigliere speciale e capo stratega; il senatore Jeff Sessions, i cui commenti razzisti hanno portato il Senato controllato dai repubblicani a negargli la nomina di giudice federale 30 anni fa, come procuratore generale; e il generale Michael Flynn, che crede che gli Stati Uniti siano in “guerra mondiale” con l’Islam militante e che l’America sia minacciata dalla legge della Sharia, come consigliere per la sicurezza nazionale. Con dei riconosciuti irriducibili in queste posizioni chiavi, cresce di giorno in giorno la paura per l’imminente amministrazione.
Dovendo fare i conti con l’imminente presidenza di Trump, gli opinionisti di Project Syndicate hanno iniziato a valutare le possibili implicazioni economiche e politiche. A prescindere, però, dalla possibilità o meno che Trump dia seguito alle principali promesse fatte durante la campagna, una cosa è certa, osserva Bill Emmott, ex direttore dell’Economist:“nessuno dovrebbe sottostimare il prossimo presidente Usa”. Facendo un confronto fra Trump e Silvio Berlusconi, Emmott osserva che negli ultimi 22 anni, il magnate imprenditoriale e politico d’Italia “ha vinto tre elezioni generali e ha rivestito la carica di primo ministro per nove anni”. Coloro che “continuano a prevedere la sua imminente caduta, ipotizzando che durerà solo quattro anni alla Casa Bianca, se non sarà coinvolto in un impeachment prima di allora”, dovrebbero prenderne nota.
Comprendere la Trumponomics
La principale differenza tra Trump e Berlusconi, dice Emmott, è che Trump “ha un programma, anche se di difficile lettura”. Concorda anche Adair Turner, presidente dell’Institute for New Economic Thinking. “Ciò che effettivamente farà il presidente Trump è inconoscibile in molte aree politiche”, osserva Turner. “Ma nel caso della politica economica, una cosa è chiara – la politica fiscale sarà allentata”. E sebbene “con buona probabilità l’esatta forma dello stimolo sarà inefficace e regressiva”, sostiene, “la direzione della transizione – da stimolo monetario a fiscale – ha senso”.
Ha certamente un senso politico, dichiara l’economista e premio Nobel Robert Shiller, il quale crede che l’imperativo di Trump sia di soddisfare i suoi principali elettori, quelli con “redditi medi e stagnanti e bassi livelli di istruzione”. Ma la verità è che gli sgravi fiscali da lui pianificati per gli abbienti e il grande impulso alla spesa per le infrastrutture (basata, come fa notare Turner, sui crediti d’imposta sugli investimenti) “difficilmente riusciranno a spostare il potere economico verso coloro che hanno avuto relativamente meno successo”. Di fatto, Shiller avverte, “gli imprenditori potrebbero sviluppare modalità ben più scaltre di rimpiazzare i posti di lavoro con computer e robot, e il protezionismo potrebbe generare ritorsioni da parte dei partner commerciali, instabilità politica e, infine, persino conflitti armati”.
Sinora, però, gli investitori sembrano gestire la “Trumponomics” senza problemi. “I mercati”, afferma Nouriel Roubini della NYU, “concederanno a Trump il beneficio del dubbio, per ora”. A giudicare dal rialzo del tasso di cambio del dollaro dall’elezione, che è un understatement. Come osserva Benjamin Cohen dell’Università della California di Santa Barbara, “i flussi di capitale in entrata hanno prodotto un aumento del valore al dollaro portandolo a livelli mai visti nell’ultimo decennio”, così da far “sembrare che i mercati stiano registrando un massiccio voto di fiducia nel presidente-eletto”.
Ma Cohen avverte, “i movimenti a breve termine del tasso di cambio non riescono assolutamente a giudicare la forza sottostante di una valuta”. Per ora, i mercati rispondono alla promessa di Trump di “attuare forti sgravi fiscali e aumentare la spesa sulle infrastrutture decadenti e sulle forze armate americane presumibilmente ‘esaurite”, che “rilanceranno la crescita economica nel breve termine e inevitabilmente spingeranno al rialzo i tassi di interesse”. Non sorprende che, con la scarsità di “rendimenti allettanti sugli investimenti” a livello globale, “il potenziale boom di Trump ha attirato fondi verso Wall Street, così aumentando la domanda del dollaro”.
La domanda è: per quanto tempo ancora? Come riconosce Cohen, “un paese che emette una valuta favorita a livello internazionale può generalmente esercitare una certa influenza sugli altri e detiene un netto vantaggio economico”. In modo analogo, Harold James di Princeton fa notare che, poiché gli Usa “sono storicamente il porto sicuro mondiale in tempi di incertezza economica, potrebbero essere meno colpiti di altri paesi dalla imprevedibilità politica”. E ribadisce che anche all’indomani della “crisi finanziaria del 2008 – una crisi inequivocabilmente originata negli Usa – l’effetto “porto sicuro” ha causato un rafforzamento del dollaro sulla scia di un incremento dei flussi di capitale in entrata”. Ma come enfatizza Cohen, la posizione privilegiata del dollaro non è immutabile. Se Trump “perseguirà la sua promessa protezionistica di mettere l’America prima di tutto”, sostiene, “gli investitori e le banche centrali si sentiranno gradualmente incentivati a trovare riserve alternative per i miliardi risparmiati”.
Ciò suggerisce che “anche se le politiche di Trump”, come riferisce Cohen, “si rivelassero disastrose”, la fiducia nel dollaro non collasserebbe con la stessa rapidità con cui è crollata la fiducia nella sterlina dal referendum sulla Brexit svoltosi a giugno nel Regno Unito. “Un grande paese come gli Usa può generalmente imporre i costi della sua imprevedibilità sugli altri paesi”, spiega James, mentre “i paesi più piccoli, come il Regno Unito, tendono a fare i conti con i costi immediati”. Jim O’Neill, ex segretario commerciale del Tesoro inglese ed ex Ceo di Goldman Sachs Asset Management, attribuisce il brusco calo del valore della sterlina al “pessimismo del mercato sulle prospettive di offerta dell’economia inglese e sulla futura crescita della produttività”. “La debolezza della sterlina, a prescindere dai suoi potenziali benefici ciclici”, sostiene O’Neill, “riflette un premio di rischio sul Regno Unito, a causa del suo spinoso percorso di uscita dall’Ue e di altre incertezze politiche”.
È probabile che queste incertezze diventino ancora più pronunciate negli Usa, in parte perché Trump è, nelle parole di Turner, “impulsivo e occasionalmente vendicativo”. Come ci rammenta Cohen, “Trump ha già fatto scattare il campanello d’allarme durante la campagna con i commenti superficiali sul tentare di rinegoziare il debito Usa riacquistandolo dai creditori con uno sconto”. E aggiunge che “nessuna dichiarazione potrebbe essere costruita meglio per provocare una ritirata dal dollaro verde”. Altrettanto importante è il fatto che i fondamentali economici dell’America probabilmente si indeboliranno. Dal momento che gli sgravi fiscali e gli aumenti della spesa di Trump spingeranno al rialzo il debito americano, e dal momento che i posti del manifatturiero non ricompariranno, “le passività in dollari dell’America potrebbero raggiungere un punto critico in qualsiasi momento”, oltre il quale “gli investitori diffidenti, in cerca di un alternativo bene-rifugio, precipiteranno in un’irreversibile spirale al ribasso” del dollaro. In questo scenario, mentre “sempre più valute” – tra tutte, il renminbi cinese – “diverranno competitive, gli straordinari vantaggi del dollaro si consumeranno, così come la privilegiata posizione dell’America”, e ciò si tradurrà in “un lento e lungo dissanguamento” dell’economia americana.
Verso un Accordo della Trump Tower?
Quel dissanguamento sarà più evidente nel deficit commerciale dell’America, sostiene l’ex presidente di Morgan Stanley Asia e ora professore a Yale Stephen Roach. Il piano di Trump di rilanciare la crescita attraverso un disavanzo pubblico in un paese con una cronica carenza di risparmi”, afferma Roach, “punta a un’ulteriore compressione dei risparmi nazionali, rendendo del tutto inevitabile un ampliamento di un gap commerciale già di notevoli proporzioni”. Di fatto, questa “dinamica smaschera il tallone di Achille della Trumponomics”, fa notare, perché la promessa di protezionismo di Trump “si scontra direttamente con l’inevitabile ricorso dell’America ai risparmi esteri e ai deficit commerciali per sostenere la crescita economica”.
Qui, dichiara Roach, “la contabilità creativa, da tempo elemento della cosiddetta “supply-side economics”, non è mai stata più fantasiosa” di quella evidente nell’escamotage statistico alla base della previsione del team Trump di “un massiccio miglioramento della bilancia commerciale generale nel prossimo decennio”. Come fa notare Roach, assumere “una posizione dura sul commercio” come promette di fare Trump, “in un tempo in cui i risparmi nazionali stanno per subire pressioni notevoli semplicemente non quadra”. “Le stime più conservatrici del deficit di bilancio federale suggeriscono che il già depresso tasso di risparmio nazionale netto potrebbe rientrare in territorio negativo a un certo punto nel periodo 2018-2019”, che a sua volta “rimetterebbe nuova pressione sui deficit di parte corrente e sui deficit commerciali, rendendo estremamente difficile invertire la perdita di posti di lavoro e reddito la cui responsabilità, secondo i politici, è da attribuire ai partner commerciali dell’America”.
Certamente gli attuali trend nel commercio mondiale non verranno in salvo di Trump. Come osserva Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley, il commercio “è sceso di quasi l’1% nel secondo trimestre” di quest’anno, a causa di un brusco calo della spesa per gli investimenti e della “decelerazione economica della Cina”. Inoltre, la flessione dei tassi di crescita cinesi riflette fattori strutturali e non ciclici: poiché “la fase di crescita esponenziale della Cina è finita”, dichiara Eichengreen, questo cruciale “motore del commercio globale rallenterà”. Allo stesso tempo, “è improbabile che l’efficienza delle spedizioni continui a migliorare più rapidamente dell’efficienza della produzione di ciò che viene spedito”. Di conseguenza, “disimballare” le catene di fornitura globali, qualcosa che Trump ha promesso di fare con la produzione di automobili tra le case automobilistiche americane e i loro stabilimenti in Messico, “finirà per diminuire i rendimenti”.
Considerato il probabile deterioramento della bilancia commerciale Usa, sostengono Andrew Sheng e Xiao Geng dell’Università di Hong Kong, “le politiche che rafforzeranno il dollaro in modo considerevole”, come la spesa per le infrastrutture finanziate dal debito, “potrebbero rivelarsi fortemente problematiche”. A fronte di un apprezzamento del tasso di cambio, “il valore degli asset esteri detenuti dagli Usa scenderà in termini di dollari, mentre le passività del paese continueranno a crescere, a causa dei sostenuti deficit fiscali e di parte corrente”, aumentando “il vero rischio di un’inversione dei flussi di capitale”.
Ovviamente, come Cohen e James, anche Sheng e Xiao riconoscono che le normali regole non necessariamente si applicano “al paese con la valuta di riserva globale dominante”. Credono inoltre che “altri paesi con valuta di riserva continueranno a consentire alle proprie monete di deprezzarsi, allo scopo di rilanciare le proprie economie, e i paesi emergenti probabilmente continueranno ad usare i tassi di cambio per far fronte alla volatilità dei flussi di capitale”. Alla fine, se si continuerà così, “non si farà che intensificare la pressione sul sistema monetario internazionale”.
In quel caso, il mondo potrebbe ritrovarsi come in passato. In assenza di ingenti afflussi di capitale per correggere gli insostenibili “squilibri indotti dal dollaro”, fanno notare Sheng e Xiao, l’economia globale potrebbe aver bisogno di “un nuovo Accordo del Plaza – l’accordo del 1985 stipulato per svalutare il dollaro e spingere fortemente al rialzo lo yen giapponese e il Deutsche Mark”.
Manovre in blocco
Contemplare la possibilità di un tale accordo sottolinea un tema comune per i commentatori di Project Syndicate. Esattamente come “il referendum sulla Brexit non ha causato la catastrofe economica prevista dalla campagna del ‘Remain’”, James fa notare come i costi del populismo Americano saranno a carico di altri – e non solo dei paesi più piccoli, ma anche (e soprattutto) dalle economie emergenti – ben prima che vengano percepiti a casa. Di conseguenza, osserva Turner, la scelta per il resto del mondo è chiara: deve andare oltre “l’eccessivo ricorso all’inevitabilmente imperfetta leadership globale degli Stati Uniti”.
A fronte della sempre più pressante necessità di minimizzare i costi della Trumponomics, molti paesi potrebbero non avere altra scelta se non quella di unirsi in blocchi regionali difensivi. “La Cina potrebbe parlare a nome di tutta l’Asia”, osserva James, e “l’Europa potrebbe agire unitamente”. E mentre “l’integrazione regionale potrebbe preparare il terreno per le necessarie riforme di governance, e quindi una chiara via d’uscita alla trappola populista”, nel peggiore dei casi, il “nuovo regionalismo potrebbe alimentare animosità geopolitiche e riprendere le tensioni degli anni 30”.
È probabile che questo rischio resti marginale sulla scia di una maggiore predominanza dell’idea di regionalismo, soprattutto in Asia, la regione economicamente più dinamica del mondo. Come enfatizza Lee Jong-Wha, professore dell’Università della Corea, “il commercio e gli investimenti intra-regionali sono più importanti che mai” a fronte delle politiche populiste e dell’isolazionismo americano. “Oltre ai benefici economici, l’integrazione apporterebbe importanti benefici politici, con un’Asia integrata che gode di maggiore influenza sulla scena internazionale”. Ma per “raccogliere quei benefici, l’Asia deve attenuare i conflitti politici e militari nella regione e sviluppare una visione a lungo termine per l’integrazione regionale”.
L’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio pensa che anche l’Europa, che ha investito decenni nell’integrazione, debba focalizzarsi ora sull’unità regionale. Altrimenti, “una volta terminata la Brexit e sradicata la partnership transatlantica, l’Ue potrebbe davvero andare in fumo”. Qui Palacio, una convinta federalista dell’Ue, accetta la necessità di un’Europa con un nuovo modello, essendo l’alternativa più probabile quella di “diventare una piattaforma su cui il suo egemone, la Germania, possa ergersi e guidare”. E ci ricorda che “il dato di fatto è che nulla viene fatto a Bruxelles in questi giorni senza il benestare del governo tedesco”, quindi “l’Ue ha già imboccato questa strada”.
Forse però nessuna regione del mondo sente più ansia rispetto alla presidenza Trump dell’Est Europa, considerati gli evidenti rapporti di Trump con il presidente russo Vladimir Putin. “Trump non è solo un bambino scontroso che gioca con le coppie nucleari”, sostiene Slawomir Sierakowski, direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, “è altresì pericolosamente ambizioso, e le sue proposte di politica estera potrebbero smantellare alleanze cruciali e destabilizzare l’ordine internazionale”. Per la Polonia e per tutti i paesi dell’Est Europa, non si tratta tanto di una questione di benessere economico quanto di una “questione di vita o di morte”.
Il timore è che Trump forgi con Putin una Yalta 2.0”, consegnando l’Ucraina e altre parti dell’ex Unione Sovietica che ottennero l’indipendenza nel 1991 a una sfera di influenza russa. Alla fine, secondo Sierakowski, “l’influenza russa significherà il ritiro della NATO dall’Est Europa”, mentre “l’Europa occidentale potrebbe essere altrettanto contenta del ritiro, cogliendo l’occasione di liberarsi dei vicini sempre più gravosi”. Poi, con lo scemare dell’influenza occidentale, è probabile che i paesi dell’Est Europa intensifichino i legami economici e diplomatici con la Russia. L’Ungheria sotto il primo ministro Viktor Orbán procede proprio in questa direzione, e gli stati baltici – dove il Partito di Centro pro-Russia dell’Estonia guiderà un nuovo governo – potrebbero essere i prossimi. Quando si tratta della Russia, se Trump governerà come ho condotto la propria campagna elettorale, le previsioni, secondo Sierakowski, sono cupe: “quei paesi che non hanno ancora abbracciato [Putin] non avranno altra alternativa che farlo”.
Arriva il Cavaliere
Secondo Emmott, è una cosa già vista. “Da Berlusconi abbiamo imparato”, osserva, “che le espressioni di ammirazione per gli uomini forti come [Putin] dovrebbero essere prese sul serio”. Questo perché, per entrambi gli uomini, tutta la politica è personale: “I narcisisti soldati solitari come Berlusconi e Trump sono abituati a fare accordi personali, e preferiscono altri uomini forti come interlocutori”.
Per la stessa ragione, Trump, come il Cavaliere, “probabilmente continuerà ad apprezzare la fedeltà soprattutto nella sua amministrazione”, osserva Emmott. È per questo che i suoi figli più grandi sono stati “attori chiave nella sua campagna e transizione”, ed è per questo che “anche le nomine non famigliari di Trump – spesso figure controverse o radicali che non avrebbero trovato posto in nessun altra amministrazione se non nella sua – riflettono l’enfasi sulla fedeltà personale”.
Alla fine non vi è nulla di originale o straordinario sul populismo di Trump. I massicci conflitti di interesse; il ricorso al razzismo e al clientelismo, invece che alla coerenza ideologica, per mantenere la sua base politica; la scelta di una storia di vittimizzazione e ostilità nei confronti dei giornalisti (e comici) indipendenti; la cruda derisione e intimidazione degli avversari: è tutto ben noto agli elettorati in Europa, America Latina e altrove. La novità sta nel fatto che questo stile di politica sta salendo al potere nella più grande economia del mondo, che negli ultimi sette decenni è stata anche il principale garante dell’ordine e della stabilità globali.
È per questo che non dobbiamo chiudere gli occhi davanti a Trump o far finta di niente contro i tentativi di normalizzare la sua amministrazione – né da parte dei suoi alleati, né da parte degli indeboliti avversari domestici o dalla stampa docile. Secondo Palacio, “aggrapparsi all’ottimismo – e convincersi che alla fine le cose andranno bene – è inutile”. I danni ci saranno – sia in casa che all’estero – a causa dell’elezione di Trump, perché alcuni sono già sotto gli occhi di tutti. Secondo Palacio, “dobbiamo invece trovare un motivo di speranza – e credere che le cose alla fine avranno un senso”. E “l’unico modo per farlo è essere onesti con noi stessi e analizzare seriamente ciò che possiamo e dobbiamo fare per garantire che si possa raggiungere il massimo”.
Traduzione di Simona Polverino
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