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Il costo della volatilità e la certezza nel futuro

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Il direttore

Il costo della volatilità e la certezza nel futuro

Ho conosciuto martedì scorso, nella sala Sara Bianchi al Sole24 Ore a Milano, un “giovanotto” di 93 anni, l'ingegnere Carlo Alberto Carutti, che ha raccontato il boom italiano attraverso gli oggetti del miracolo economico, dal motore del Mosquito al frigorifero e alla lavatrice solo per fare qualche esempio, e la passione degli uomini d'impresa dei mitici anni Sessanta, da Guzzi a Garelli, da Zoppas a Zanussi, e a tanti altri. Questo “giovanotto” di 93 anni che si muove con l'agilità di un sessantenne e ha la lucidità di una testa che fa programmi a lunga scadenza, mi ha colpito per una frase buttata lì con leggerezza: «Ai miei tempi non c'erano i mezzi, ma il futuro si sentiva come una certezza. Questa era la nostra forza». Oggi un'Italia stremata da una campagna elettorale divisiva, dove i contenuti del referendum costituzionale sono stati troppo spesso oscurati da insulti e azioni maldestre di delegittimazione dell'avversario, si recherà alle urne, e noi auspichiamo che la partecipazione sia alta perché la democrazia (quella vera) si nutre di scelte consapevoli, di presenze non di assenze. Questa è l'unica indicazione che ci sentiamo di dare ai nostri lettori nel giorno del voto, consapevoli come siamo di avervi informato ogni giorno, punto per punto, sui singoli contenuti illustrandoli e analizzandoli, e avendo deciso di riproporveli oggi unitariamente per contribuire a compiere quella scelta consapevole che è la base di un Paese maturo e di una democrazia compiuta e che, in questa giornata, deve conservare la sacralità della sua individualità.

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Soprattutto, però, vorremmo che si diradasse quella nube di volatilità che il giudizio dei mercati fa aleggiare sull'Italia e continua a indicare che c'è preoccupazione. Dobbiamo metterci nelle condizioni di dimostrare a chi vuole investire in Italia che questo Paese ha scelto, chiunque lo governi, nel breve e nel medio termine, la strada obbligata di una crescita sostenuta in grado di assorbire occupazione crescente perché si è saputo dare un progetto di società garantito da maggiore capacità di creare reddito futuro (nuovi lavori) e da un sostegno a chi giocoforza resta indietro. Produttività, industria 4.0, scuola e ricerca, semplificazione e efficienza della giustizia civile alla voce fatti, servizi pubblici che funzionano, cultura della legalità e ambiente, ripresa degli investimenti e discontinuità di metodo e di contenuti nelle relazioni industriali, devono diventare patrimonio comune e condiviso di un Paese che decide di innovare con i piedi piantati nella sua storia, ma ha la testa e il cuore incorporati nel futuro di un mondo globalizzato che cambia sempre più velocemente. Percorso come è da nuovi populismi e da rigurgiti nazionalisti, ma anche da nuovi stimoli fiscali che sopravanzano su quelli monetari, in un quadro che non ci consente di escludere del tutto nuovi attacchi a debiti sovrani in un'Europa che cresce ancora poco e resta politicamente fragile, paralizzata dalle tante scadenze elettorali nazionali, per riuscire a liberarsi dei suoi troppi tabù. Se vince il No dobbiamo persuadere il mondo che non è vero che siamo in un ritardo perenne, che non è vero che siamo a un punto di non ritorno, e che saremo viceversa in grado di raddoppiare gli sforzi perché il cambiamento sia tangibile e percepibile come tale. Se vince il Sì non è la fine della corsa, guai solo a pensarlo, non si è arrivati al traguardo, si è vinto il “premio della montagna” al Giro d'Italia o al Tour de France. Parliamo ovviamente di un passaggio importante, con qualche pasticcio da correggere, sulla strada ineludibile della modernizzazione e delle riforme per continuare il cammino intrapreso di cambiamento e fare sempre di più. Questo governo e questo presidente del Consiglio dovranno viverlo, però, come un momento positivo, ma solo un momento, non dovranno mai perdere la consapevolezza che la strada da percorrere resta ancora lunga. Per loro e per noi.

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Buona parte dell'aumento dello spread italiano, rispetto a quello spagnolo, è dovuto a questa nube di incertezza che avvolge il Paese e si può ridurre oggettivamente con il Sì perché garantisce naturalmente governabilità e si mettono in moto soluzioni di mercato più facili per le banche (dove c'è, peraltro, molta esagerazione, con numeri sparati, quasi sempre poco meditati) o con il No a patto che assicuri una nuova legge elettorale, uguale governabilità e competenza tecnica per la soluzione del problema bancario, ma guai se si perde la consapevolezza in entrambi i casi che bisogna tornare a dare più opportunità di lavoro e a buttare giù lo spread con le nostre azioni, riforme vere e condivise, facendo noi le cose difficili. Sarebbe sbagliato contare troppo sulla Bce che sta già facendo tantissimo con il programma di Quantitative Easing mentre dobbiamo misurarci con la pressione dei mercati che si trasferisce dal debito sovrano alle azioni delle banche. Il percorso intrapreso di riforme, sotto la stella polare produttività/condivisione, ha bisogno di costanza nel tempo e di qualità dell'azione di governo per essere completato e percepito diffusamente in profondità (anche se non sarebbe male cogliere gli spazi di miglioramento che ci sono stati) e fare sparire per sempre dai radar dei mercati il “tail risk”, il cosiddetto rischio estremo. Solo così la speranza venuta meno, potrà tornare a dare ai giovani di oggi quella certezza nel futuro che hanno avuto le donne e gli uomini del miracolo economico italiano. Spetta a noi costruire il nuovo sapendo che non lo si costruisce solo demolendo il vecchio.

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