Commenti

Gli stimoli repubblicani: più Reagan che Keynes

  • Abbonati
  • Accedi
L'Analisi|Global view

Gli stimoli repubblicani: più Reagan che Keynes

Fin dal momento in cui Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali, la stampa e i mercati finanziari si sono concentrati sulla sua proposta di tagliare le tasse e spendere mille miliardi di dollari in infrastrutture nei prossimi dieci anni. L’aspettativa che queste politiche sospingano la domanda aggregata ha fatto salire di 50 punti base i tassi di interesse a lungo termine.

Ma l’idea che le politiche di Trump porteranno a un incremento dei prezzi e dei salari non quadra con i dettagli delle sue proposte. Chiunque abbia ascoltato i suoi discorsi o letto i documenti della sua campagna elettorale avrebbe dovuto notare che la sua proposta non prevedeva che fosse lo Stato a effettuare gli investimenti in infrastrutture. Non stava invocando uno stimolo di bilancio keynesiano basato sulla spesa in disavanzo, ma un «sistema di credito d’imposta per le infrastrutture senza effetti sul deficit» per incentivare le imprese private a intraprendere la costruzione di strade, ponti, gallerie, aeroporti e così via.

Naturalmente non è chiaro se il Congresso sarà d’accordo con nuovi crediti d’imposta di questa portata. E anche se sarà d’accordo, nulla garantisce che le imprese reagiranno come desiderato.

I tradizionali crediti di imposta sugli investimenti sono stati usati efficacemente in passato per incoraggiare le imprese a espandere la loro capacità produttiva per le cose che fabbricano e vendono. Ma come fa un’impresa a realizzare introiti dalla proprietà di strade, ponti e gallerie? E anche se ci fossero introiti da realizzare, come potrebbe essere nel caso degli aeroporti, le imprese potrebbero essere scoraggiate dalla necessità di fare affidamento su accordi di prezzo a lunga scadenza.

È facile anche cadere nella trappola di pensare ai tagli delle tasse come a un modo per spingere la domanda aggregata. Ma i parlamentari repubblicani potrebbero insistere per finanziare riduzioni delle tasse sul reddito personale limitando le deduzioni che le persone fisiche usano attualmente per ridurre gli oneri tributari. Il piano fiscale presentato a nome dei repubblicani da Paul Ryan, il presidente della Camera dei rappresentanti, invoca l’eliminazione di tutte le deduzioni tranne quelle per i contributi ad associazioni di beneficenza e quelle degli interessi sul mutuo. Un cambiamento del genere procurerebbe introiti pari a circa l’1% del Pil, abbastanza per finanziare riduzioni molto sostanziali delle aliquote individuali.

La famosa riforma fiscale di Ronald Reagan nel 1986 era una politica offertista mirata a migliorare gli incentivi, non una tradizionale politica della domanda che punta a mettere più denaro nelle tasche della gente. Il piano fiscale di Reagan usava modifiche della normativa sulle deduzioni fiscali e altre regole contabili per finanziare riduzioni imponenti delle aliquote, che fecero scendere quella più alta dal 50 al 28 per cento. L’abbassamento delle aliquote indusse i singoli individui a lavorare di più e a ricevere una quota maggiore del loro reddito potenziale sotto forma di denaro liquido tassabile, invece che sotto forma di benefici accessori e altre modalità di compenso non soggette a imposizione fiscale.

Se gli individui non avessero risposto a questa modifica degli incentivi, il taglio delle tasse di Reagan non avrebbe prodotto effetti sui conti pubblici, né in un senso né nell’altro. Ma dal momento che i contribuenti reagirono al miglioramento degli incentivi, i redditi reali lordi crebbero e il gettito aumentò. I parlamentari repubblicani farebbero bene a modellare i tagli delle tasse di Trump sulle politiche offertiste dell’amministrazione Reagan.

Nei trent’anni successivi alla riforma fiscale reaganiana, le aliquote sono aumentate in modo sostanzioso, specialmente per i contribuenti più ricchi. L’aliquota massima è cresciuta dal 28 al 39,6% su salari e stipendi, e a più del 43% su alcune forme di reddito da investimenti.

Secondo l’Ufficio bilancio del Congresso, nei trent’anni tra il 1984 e il 2013 l’aliquota effettiva è calata per la maggior parte delle fasce di reddito, ma è salita notevolmente per l’1% più ricco. Più specificamente, per le famiglie del quintile più povero nel 2013 l’aliquota effettiva era del 3,3%, circa la metà rispetto alla media dei trent’anni precedenti. Per i tre quintili di mezzo, l’aliquota effettiva nel 2013 era del 13,8%, contro una media del 16,6% nei tre decenni precedenti. Per il successivo 19% di contribuenti, salendo nella scala del reddito, l’aliquota effettiva è scesa solo di poco; ma per l’1% più ricco è salita di 3,4 punti percentuali, al 34 per cento.

In questo contesto di aumenti delle aliquote e spostamento dell’onere fiscale sui livelli di reddito più alti, non sarebbe sorprendente se il Congresso riducesse le aliquote più alte e allargasse la base imponibile per mantenere costanti le entrate.

Naturalmente non c’è nessuna ragione, in questo momento, di puntare a un aumento della domanda aggregata. L’economia ha essenzialmente raggiunto la piena occupazione, con la percentuale dei senza lavoro attestata in ottobre al 4,9 per cento. La carenza di manodopera ha fatto aumentare l’inflazione di fondo (che esclude cibo ed energia) al 2,2% nel corso dell’ultimo anno, contro l’1,9% dell’anno prima. E i salari degli addetti alla produzione sono aumentati del 2,4%, più dei prezzi. La Federal Reserve può avviare l’aumento dei tassi di interesse a dicembre senza alcun bisogno di una spinta compensativa alla domanda da parte della politica di bilancio.

© Riproduzione riservata