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Se il corruttore svela gli ingranaggi della corruzione

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Il libro di Piergiorgio Baita e Serena Uccello

Se il corruttore svela gli ingranaggi della corruzione

La corruzione è «un male gravissimo della nostra società che inquina le fondamenta del vivere civile» e che va «combattuto senza equivoci o timidezze» attraverso «una grande alleanza tra tutti gli strati della società, dalla scuola al mondo economico, dai corpi intermedi alle istituzioni locali». Parole pronunciate tempo fa dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che dimostrano come questo fenomeno criminale sia più vivo che mai e che non si debella – come ammonisce lo stesso Capo dello Stato - senza «un impegno politico, sociale, culturale, che deve coinvolgere l'intera comunità».

Un’ulteriore prova che la corruzione sia «un male gravissimo» arriva da un libro pubblicato a settembre da Einaudi. Si intitola “Corruzione. Un testimone racconta il sistema del malaffare” ed è stato scritto da Serena Uccello, giornalista del Sole 24 Ore, assieme all’ingegnere Piergiorgio Baita, l’ex presidente di Mantovani Spa che nello storico interrogatorio del 28 maggio 2013 ha «scoperchiato» la «pentola» del Mose (copyright del procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’inchiesta) chiamando direttamente in causa anche “pezzi da novanta” del mondo politico locale e nazionale come Giorgio Orsoni (sindaco di Venezia dall’8 aprile 2010 al 23 giugno 2014), Giancarlo Galan (ex ministro ed presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010) e Altero Matteoli (ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011).

Ma chi è veramente Baita? Serena Uccello lo descrive così: «È testimone e protagonista. È stato per decenni la Mantovani SPA. E la Mantovani SPA è stata una delle anime più forti del Consorzio Venezia Nuova e non solo: strade soprattutto, ma non solo. In Veneto soprattutto, ma non solo». Per meglio inquadrare il personaggio la giornalista riporta le frasi pronunciate nella puntata di Report del 26 ottobre 2014 dall’ex magistrato Felice Casson: «Baita teneva i contatti con tutti, oltre che gestire i propri interessi...e metteva in contatto tutti...una persona certamente molto intelligente è capace di quel tipo mestiere».

Un dialogo serrato, quello fra la giornalista e l’imprenditore finito in carcere varie volte per vicende legate alla corruzione: nel 1992 nell’ambito della tangentopoli veneta (Baita è a capo del Consorzio Venezia Disinquinamento), nel 1995 (quando lavorava per la Chiarotto, che sarebbe diventata in seguito la Mantovani) e poi nel 2013 a causa del Mose, il Modulo sperimentale elettromeccanico previsto da una legge speciale del 1973 per “salvare Venezia” dall’acqua alta e rivelatosi poi uno dei maggiori sistemi corruttivi della storia italiana (35 persone arrestate e oltre mille indagate) con un costo dei lavori schizzato negli anni fino a superare i cinque miliardi di euro. Di questo sistema criminogeno finito sotto processo (la sentenza è attesa per metà gennaio), con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla creazione di fondi neri destinati a pagare le tangenti alla politica, l’ingegnere – in questo caso coinvolto in qualità di teste - svela ai lettori i dettagli piccoli e grandi.

Puntualmente incalzato dalla giornalista, brava a contestualizzare i fatti narrati servendosi di studi, numeri e testimonianze varie, Baita analizza gli errori e racconta i meccanismi «che hanno elevato la corruzione del singolo episodio a sistema». Protagonista nella costruzione di grandi opere, «settore – scrive la Uccello - nel quale sono state codificate le regole dell’illecito che si sono poi diffuse a tutti i comparti dell’economia», Baita ripercorre i principali scandali degli ultimi 25 anni spiegando in che modo si sono andati «a saldare nel corso del tempo cattivo mercato e cattiva politica, imprenditoria incapace e pubblica amministrazione incompetente». La conclusione a cui arriva è che la corruzione «non è solo un reato», ma anche «un fenomeno, una mentalità, una cultura» e – in fin dei conti – «un elemento costitutivo del mercato». Per combatterla non si può fare affidamento solo sul codice penale, è necessario «correggere il sistema», cambiandolo alla radice. Le norme che inaspriscono le pene «vanno benissimo per colpire i reati», «ma non riducono la corruzione» perché questa «non sempre si manifesta con un reato». Si può ad esempio manifestare con una nomina che dà potere a chi la riceve. «Il potere - sottolinea l’ex manager ora in pensione - vale in molti casi più di ogni altra cosa: spesso è più facile corrompere un funzionario pubblico assumendogli il figlio piuttosto che allungandogli una mazzetta».

Il problema – secondo Baita – è che «nessuno vuole veramente correggere il sistema. Tutti puntano invece a governarlo», convinti che prima o poi possano beneficiarne. Un’accusa piuttosto pesante, seppure non nuova. Come se ne esce? Ecco il suggerimento dell’ex presidente di Mantovani: «Bisognerebbe introdurre, come è stato fatto nel resto d'Europa, i contratti Public-Private Partnership che presuppongono la suddivisione dei rischi connessi alla realizzazione di un’opera pubblica» e che prevedono ad esempio che «il rischio di costruzione deve essere sempre e integralmente della parte privata». Ovvero, se in corso d’opera - per qualche imprevisto - i costi aumentano e i tempi si dilatano, a pagare deve essere l’impresa e non lo Stato. Un suggerimento che, se accolto, contribuire quanto meno a limitare gli episodi corruttivi.

Nel post scriptum l’imprenditore chiarisce che non vuole dare “lezioni” ma che il suo intento è quello di «ordinare e raccontare» ciò che ha conosciuto attraverso la sua esperienza. Parla della «restituzione di un percorso di conoscenza» «per fornire chiavi di lettura dell’insieme» e si dice consapevole «degli errori della classe imprenditoriale» di cui ha fatto parte. Dice di non cercare «rivincite, nuovi ruoli, nuovi panni». Ma «piuttosto un senso. E un valore»: «Se abbiamo sbagliato dobbiamo dimostrare di avere imparato». Certo, fa effetto sentire queste parole da un personaggio che già negli anni ’90 finiva in carcere pur predicando fin da allora le virtù del mercato e della legalità e che poi nel corso della sua vita professionale continuerà in qualche modo a “compensare” più volte le responsabilità personali denunciando all’autorità giudiziaria i meccanismi distorti di una pratica diventata “sistema”. È però senz’altro vera la riflessione di fondo che fa Baita: se il contrasto e la punizione del reato sono compito della magistratura, il sovvertimento del sistema della corruzione compete al senso etico di ciascuno di noi.

In attesa però che maturi questo nuovo atteggiamento culturale - che consideri magari il reato di corruzione al pari di quello relativo a fatti di mafia - bisogna intensificare gli strumenti di contrasto. Come chiede anche il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, a cui la giornalista ricorre per dare conto di cosa è stato fatto e di cosa manca: «Ci vorrebbe un pacchetto di misure per potenziare le inchieste. Anzitutto bisogna dare più forza alle indagini su quelli che vengono chiamati reati spia: illeciti che sono il segnale della corruzione. Se riusciamo a scoprirli, possiamo anche bloccare le mazzette. Per esempio vanno punite le false fatturazioni che servono a creare i fondi neri per le tangenti». Quelle tangenti che sono poi alla base di tutto il sistema del malaffare molto ben raccontato nelle pagine di questo libro, il cui senso ultimo – come precisa Serena Uccello – è quello di «sentire la corruzione come qualcosa che ti coinvolge direttamente, come individuo e come collettività». Il punto finale del percorso deve essere, insomma, la condanna sociale della corruzione. L'unico tipo di condanna che, per dirla con le parole di Italo Calvino, può far uscire il Paese da questa «epoca di bassa marea morale».

Piergiorgio Baita con Serena Uccello
Corruzione. Un testimone racconta il sistema del malaffare
Einaudi
pp. 168
€ 9,99

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