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Dossier Il cambiamento climatico nell’Era del Trumpocene

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il cambiamento climatico nell’Era del Trumpocene

COPENHAGEN – Nell’anno in cui è stato siglato l’Accordo di Parigi sul clima, i tentativi del mondo di limitare il riscaldamento globale a 2º Celsius al di sopra dei livelli pre-industriali sembravano aver acquistato slancio. Un numero sufficiente di paesi firmatari aveva preso le necessarie misure per formalizzare l’accordo così che entrasse in vigore il 4 novembre. Nel frattempo, a ottobre, la comunità internazionale raggiunse un accordo climatico dell’aviazione, che copre un’area non contemplata dall’accordo di Parigi; e acconsentì ad emendare il Protocollo di Montreal del 1989 per abbandonare gradualmente gli idrofluorocarburi – un potente gas serra.

 

Ma dopo le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, molti osservatori temono che gli sforzi internazionali profusi per combattere il cambiamento climatico – come l’Accordo di Parigi e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (nello specifico, gli SDG 13) – potrebbero subire un deragliamento. Durante la sua campagna, il presidente-eletto Donald Trump – che nel 2012 scrisse un tweet dichiarando che il cambiamento climatico fosse una bufala inventata dai cinesi – ha manifestato la propria volontà di prendere le distanze dall’Accordo di Parigi. Ma in un’intervista rilasciata al New York Times dopo l’elezione, Trump ha dichiarato di avere una “mente aperta” sull’Accordo di Parigi, facendo così intendere un suo ripensamento rispetto alle precedenti dichiarazioni.

 

Data la convinzione di Trump secondo cui l’“imprevedibilità” sia una virtù, nessuno può sapere per certo cosa farà quando si insedierà a gennaio, e come le sue politiche influenzeranno gli accordi e i regolamenti esistenti sul cambiamento climatico. Dall’ Election Day i commentatori di Project Syndicate esprimono la propria opinione su come potrà essere la presidenza Trump; e discutono da tempo su come poter far fronte al problema del surriscaldamento del Pianeta. La maggior parte concorda sul fatto che una minaccia collettiva di questo genere richieda una risposta concertata; ma se Trump sceglierà di abbandonare gli impegni presi dal governo Usa sul clima, il resto del mondo dovrà trovare da solo una soluzione.

 

Si riaccende il dibattito

Come potrebbero cambiare le politiche americane sul cambiamento climatico con Trump? I segnali iniziali non promettono nulla di buono. Come fa notare Chris Patten, cancelliere dell’Università di Oxford, Trump “ha già nominato Myron Ebell, noto negazionista del cambiamento climatico, per vigilare sulla transizione dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA)”. Sotto l’egida del presidente Barack Obama, l’EPA rivestiva un ruolo di spicco nel ridurre le emissioni di gas serra e nell’abbandonare gradualmente le fonti energetiche inquinanti come il carbone. Questi passi avanti saranno quasi certamente spazzati via se Trump ascolterà Ebell, direttore del Center for Energy and Environment del Competitive Enterprise Institute – che ha ricevuto finanziamenti dai produttori di idrocarburi.

 

L’ex primo ministro svedese Carl Bildt condivide il pessimismo di Patten, e vede un nesso tra la dichiarata intenzione di Trump di rinegoziare l’accordo nucleare con l’Iran e la sua minaccia di ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima. Secondo Bildt, “questi sono gli unici due risultati diplomatici degni di nota raggiunti dalla comunità internazionale negli ultimi anni. Le conseguenze di una ritirata degli Usa restano un’incognita”. Ma una cosa è certa, conclude Bildt, “a soffrirne sarà certamente la stabilità globale”.

 

E di nuovo, se Trump è l’abile uomo d’affari che dichiara di essere, potrebbe riconoscere il fatto che un approccio di mitigazione possa fornire molte opportunità economiche. Una cosa su cui Trump è stato chiaro è che intende rilanciare la crescita economica. E come fa notare l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz, “una carbon tax produrrebbe una tripletta di prosperità: un aumento della crescita derivante dall’ammodernamento delle aziende a seguito dei maggiori costi delle emissioni di anidride carbonica, un ambiente più pulito e un gettito che potrebbe essere utilizzato per finanziare le infrastrutture e interventi volti a ridurre il divario economico dell’America”. Ma Stiglitz alla fine dubita che il neopresidente colga questa opportunità, considerata la sua “posizione negazionista sul cambiamento climatico”.

 

Mentre alcuni osservatori hanno citato la separazione costituzionale dei poteri  come possibile controllo su Trump, Alfred Stepan dell’Università della Columbia crede sia una magra consolazione per i fautori dell’Accordo di Parigi: “in politica estera, gli Usa hanno sempre avuto poco controllo sul presidente”. Secondo Stepan, Trump dovrà far fronte ad “alcune limitazioni interne” che gli impediranno di abbandonare immediatamente l’accordo, ma potrebbe ancora comprometterlo efficacemente “suggerendo a paesi come l’India che gli Usa non adempiranno ai propri impegni”.

 

La ritirata

Ovviamente, il borioso unilateralismo è un’arma a doppio taglio. Stiglitz avverte, se Trump non perseguirà le politiche ambientaliste, altri paesi potrebbero “iniziare a imporre dazi sui prodotti Usa realizzati con modalità che violano le norme globali sul cambiamento climatico”. E oltre alla comunità internazionale, “il mercato stesso sarà il maggiore ostacolo di Trump”, sostiene l’economista della NYU Nouriel Roubini: “Se tenta di perseguire politiche populiste radicali, la risposta sarà rapida e punitiva: i titoli saliranno alle stelle, il dollaro crollerà, gli investitori si rifugeranno nei buoni del Tesoro Usa, i prezzi dell’oro registreranno un’impennata, e così via”.

 

Inoltre, nonostante tutte le apparenti debolezze, osserva Anne-Marie Slaughter, presidente e Ceo di New America, l’Accordo di Parigi potrebbe comunque rivelarsi più resistente di un “tradizionale trattato”, proprio perché non impone meccanismi stringenti di compliance o target difficili sulle emissioni per i governi firmatari. Invece di creare un quadro per una  “coercizione selettiva”, l’accordo incoraggia una “competizione supportata collettivamente”. E in ogni caso, come osserva Jeffrey Frankel, un tempo nel consiglio dei consulenti economici del presidente Bill Clinton, obiettivi eccessivamente “alti” “non sarebbero stati credibili”.

 

In modo indiretto, la struttura flessibile dell’accordo potrebbe rivelarsi un vantaggio. Slaughter fa notare che se da un lato potrebbe essere “vincolante solo per l’amministrazione del presidente Barack Obama”, l’accordo finale che è stato raggiunto lo scorso dicembre “non è solo per i governi”. Anzi, riconosce che “le imprese, la filantropia, la società civile, il mondo accademico e le singole persone hanno tutti un ruolo da svolgere”.

 

E così anche i governi subnazionali, che secondo Slaughter “spesso sovraperformano significativamente le rispettive controparti nazionali, operando attraverso strumenti come C-40, una ‘rete di mega-città del mondo impegnate nella lotta al cambiamento climatico’”. Molti stati e molte città americane riconoscono già da soli i benefici economici derivanti dalla riduzione delle emissioni di gas serra. Fintanto che ignoreranno i segnali confusi provenienti dalla nuova amministrazione, riusciranno ancora a beneficiare della incipiente green economy.

 

In modo analogo, anche se Trump rinnegasse gli impegni dell’America e non implementasse le politiche nazionali atte a ridurre le emissioni, una manovra di questo genere ucciderebbe l’Accordo di Parigi solo se altri paesi decidessero di fare lo stesso, ma è molto improbabile che succeda. Per le grandi economie emergenti come Cina e India, “il passaggio piuttosto rapido dai combustibili fossili”, sostiene John Mathews della Macquarie Graduate School of Management, “è guidato non tanto dai timori sul cambiamento climatico quanto dai benefici economici percepiti in relazione alle fonti energetiche rinnovabili”.

 

Con la Cina e l’India alla guida, il resto del mondo continuerà con tutta probabilità a perseguire le riduzioni delle emissioni di carbonio, a prescindere dalla partecipazione degli Usa, semplicemente perché è vantaggioso farlo. Gli Usa, nel mentre, soffriranno più di quanto non soffra il clima se non passeranno alla green economy.

 

E ancora, se gli Usa non saliranno a bordo, l’arduo compito diventerà particolarmente gravoso per altri paesi, molti dei quali patiranno molto più degli Usa per gli effetti del cambiamento climatico. Per prepararsi a un tale scenario, tutte le parti interessate ancora impegnate a mitigare gli effetti del global warming dovranno considerare in che modo espandere e migliorare gli sforzi in atto.

 

L’approccio va perfezionato

 

Questo sarà certamente necessario in ogni caso. Come avvertono Eric Beinhocker e Myles Allen dell’Università di Oxford, per affrontare la minaccia climatica in modo adeguato, il mondo non può semplicemente ridurre le emissioni nette, le deve eliminare interamente se intende “stabilizzare per sempre la temperatura del Pianeta a un qualsiasi livello”. In altre parole, “prima chiudiamo il rubinetto, minore sarà la temperatura su cui si stabilizza il clima, minori i rischi cui far fronte, e minori le spese che sosterremo per adattarci a un Pianeta più caldo”.

 

Riportare a uno zero netto le emissioni non è solo più semplice e più fattibile se fatto il prima possibile, è anche più pratico a livello politico rispetto ai principali target dell’Accordo di Parigi di limitare il surriscaldamento globale. Come sostiene Oliver Geden della Stiftung Wissenschaft und Politik (l’ente che fornisce analisi di politica estera al governo tedesco), “nessuna formula scientifica può descrivere come condividere in modo equo tra i paesi il peso della mitigazione globale [del cambiamento climatico], lasciando ogni governo nella posizione di affermare con certezza che le proprie politiche sono in linea con qualsiasi target di temperatura fissato”.

 

Secondo Geden, lo stesso Accordo di Parigi include di fatto un target “nascosto” per uno zero netto delle emissioni nella seconda metà di questo secolo. Secondo i suoi calcoli, questo – e non i target di riscaldamento fungibili che “si rivolgono all’interno sistema della Terra e non ai singoli attori o governi” – dovrebbe essere il benchmark primario in grado di guidare aziende, società civile e governi a tutti i livelli. Un framework di questo tipo “dice ai politici e alla gente esattamente cosa fare e punta direttamente all’attività umana”.

 

Geden propone il Protocollo di Montreal come nuovo modello per combattere il cambiamento climatico. Quel trattato ha creato un quadro normativo per il ripristino dello strato di ozono abbandonando gradualmente nel tempo le sostanze atmosferiche dannose, invece di definire un target generale di stabilizzazione per lo strato di ozono stesso. Il segretario esecutivo della Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici Patricia Espinosa e il chimico e premio Nobel Mario Molina, dal canto loro, descrivono il Protocollo di Montreal come “un successo eccezionale” e citano le recenti stime a dimostrazione che lo strato di ozono “possa riprendersi entro il 2065, evitando migliaia di miliardi di dollari in costi globali per la salute e l’agricoltura”.

 

Il docente della Singapore Management University Simon Zadek pensa che dovremmo anche tentare di “riformare il commercio internazionale e le norme di finanziamento per validare e incoraggiare le transizioni trainate da una crescita green”. Le regole che evitano che i paesi realizzino “guadagni economici dagli investimenti green supportati dal gettito fiscale” dovrebbero essere allentate, secondo Zadek, per aiutare non solo “i maggiori esportatori potenziali come la Cina, ma anche i paesi più piccoli in Africa e in altre aree che stanno tentando di beneficiare della loro volontà di passare al green”.

 

Bjørn Lomborg del Copenhagen Consensus Center auspica un’altra soluzione di buonsenso che potrebbero implementare i singoli paesi: la fine dei sussidi per i combustibili fossili. In questo modo “si ridurrebbero le emissioni di CO2, l’inquinamento dell’aria e le congestioni stradali”, scrive Lomborg, e “si bloccherebbero i soldi per altre aree come la sanità e la nutrizione, dove semplici misure possono esercitare un massiccio impatto rispetto al costo”. Questo obiettivo riflette il timore di Lomborg che, dall’Accordo di Parigi ai 17 SDG – che  si articolano in 169 obiettivi di sviluppo separati – ora la comunità internazionale ha “aspirazioni più nobili” di quando sia disposta a pagare.

 

Il conto va pagato

L’amministratore del programma di sviluppo Onu Helen Clark riconosce altresì la portata della sfida sul fronte dei finanziamenti. A suo avviso, “il mondo migliore contemplato dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile non può essere realizzato senza una leadership forte”. “Prima di tutto bisogna trovare i fondi richiesti”. E poiché “i governi che agiscono da soli” non possono affrontare problemi globali, invoca un’ampia coalizione che comprenda “società civile, comunità scientifica, mondo accademico, governo locale e settore privato”.

 

Come ho illustrato in uno dei miei recenti articoli, il settore privato potrebbe rivestire il ruolo più importante nel frenare il global warming – e non ha bisogno del permesso del governo federale Usa per farlo. Alcuni imprenditori hanno iniziato a intraprendere attività e modelli di investimento più sostenibili, ma c’è molto altro da fare.

 

Scrivendo subito dopo la conclusione dell’Accordo di Parigi nel dicembre del 2015, il presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim ha fatto notare che con questo accordo i paesi hanno presentato piani di azione che “identificano necessità climatiche per migliaia di miliardi di dollari”. E questi progetti dovrebbero essere visti come “enormi opportunità di investimento per il settore privato”.

 

È d’accordo Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute dell’Università della Columbia, che fa notare come oggi al mondo non manchino le opportunità di investimento; anzi, dalla crisi finanziaria del 2008, la “grande delusione” sono stati i bassi tassi di investimento in generale, soprattutto nello sviluppo sostenibile. A suo avviso, “il mondo necessita di massici investimenti nei sistemi energetici a basso contenuto di carbonio”. “E necessita di ingenti investimenti nei veicoli elettrici (e nelle batterie più avanzate), insieme a una netta riduzione dei veicoli a motore a combustione interna”.

 

Sachs e Kim credono che il settore finanziario debba rafforzare e indirizzare i flussi finanziari verso progetti green, e Sachs invita i prestatori multilaterali, compresa la Banca mondiale, ad “aumentare in larga misura il debito a lungo termine proveniente dai mercati di capitale ai bassi tassi di interesse prevalenti”. Queste istituzioni, scrive Sachs, “dovrebbero poi concedere in prestito quei fondi ai governi e agli enti per gli investimenti pubblico-privati”.

 

Il futuro da finanziare

È lodevole che la Banca mondiale abbia già promesso di incrementare i propri “finanziamenti sul clima fino a 29 miliardi di dollari l’anno entro il 2020”, scrive Kim. E non sono solo le “istituzioni per lo sviluppo come la Banca mondiale” a “riconsiderare attualmente le proprie politiche di investimento”, fa notare Hans Joachim Schellnhuber dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico (PIK), Christian Thimann di AXA Group e Axel Weber di UBS Group AG. “Nel settore privato”, asseriscono, “c’è un crescente entusiasmo per attività ‘green’ come obbligazioni, prestiti, indici e investimenti per le infrastrutture”. Inoltre, mentre il mondo si allontana dai combustibili fossili, gli istituti finanziari stanno sempre più disinvestendo dalle partecipazioni correlate ai combustibili fossili.

 

Ma come ammettono questi autori, oggi “meno dell’1% degli asset istituzionali in tutto il mondo è investito in attività ecologiche per le infrastrutture”; e anche quando gli investitori disinvestono dai combustibili fossili, non vi è garanzia che reindirizzeranno quei fondi verso “attività più sostenibili”. Schellnhuber, Thimann e Weber giungono alla conclusione che “finanziare il cambiamento richieda un cambiamento dei finanziamenti”, e forniscono alcune raccomandazioni su come procedere in tal senso.

 

Innanzitutto, invocano il principio per cui “what gets measured gets managed”, ossia ciò che è misurabile si può gestire, ed enfatizzano la necessità di “dati accurati, scientificamente fondati e standard uniformi”, che consentiranno agli investitori di valutare rischi e premi correlati al clima. Ciò richiede alle “aziende di fornire informazioni finanziarie coerenti e comparabili relative al clima alle parti interessate, siano esse investitori o finanziatori”. Zadek certamente concorda. “Senza stabilire un prezzo del rischio climatico”, scrive, “gli investitori stanno effettivamente scommettendo – e di fatto, incoraggiando – un insostenibile aumento delle temperature globali”.

 

Molte persone non si fideranno dell’industria finanziaria per il futuro del Pianeta. Ma come fa notare il commissario generale per la France Stratégie Jean Pisani-Ferry, “anche dopo aver causato una recessione in questo secolo e milioni di disoccupati, la finanza appare indispensabile” nella lotta contro il cambiamento climatico.

 

Ciò potrebbe valere soprattutto nell’era di Trump. Ma se le parti interessate intraprendono delle misure che possano andare ad aggiungersi agli attuali accordi globali sul clima, la presidenza di Trump non porterà necessariamente e inevitabilmente a una catastrofe planetaria. Gli Usa rivestono ancora un ruolo importantissimo nello scenario mondiale, ma non sono gli unici. Schellnhuber, Thimann e Weber, dal canto loro, prevedono un nuovo periodo di leadership tedesca all’orizzonte. Quando la Germania assumerà la presidenza del G20 nel 2017, avrà l’opportunità di convincere le altre importanti economie a mantenere la giusta rotta. Se lo faranno, l’amministrazione di Trump si ritroverà sotto una crescente pressione a fare lo stesso – come dovrebbe.

Traduzione di Simona Polverino

 

Bo Lidegaard, ex redattore capo del quotidiano danese Politiken, è autore del recente Countrymen.

 

Copyright: Project Syndicate, 2016.
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