Commenti

La Fed alla prova dell’indipendenza

  • Abbonati
  • Accedi
PROMESSE ELETTORALI E TASSI MONETARI

La Fed alla prova dell’indipendenza

L’esito della riunione della Fed sui tassi – sapremo oggi le decisioni – è scontato dai mercati: un rialzo di un quarto di punto del tasso-guida è praticamente sicuro. Su questo rialzo ci sono due osservazioni da fare. La prima riguarda il presente. La seconda riguarda il futuro.

Per quanto riguarda il presente, bisogna ricordare che il grado di restrizione, per quanto riguarda la politica monetaria, non dipende solo dai tassi, a breve o a lunga che siano. Vi sono altre grandezze della moneta, come il suo valore esterno – il tasso di cambio – che influenzano l’economia. Per quel che riguarda i tassi, le politiche monetarie non convenzionali – l’allentamento quantitativo, o Qe – hanno esteso l’influenza delle Banche centrali – che prima era limitata ai tassi a breve – lungo l’intera struttura delle scadenze.

Il risultato? Siamo ai minimi storici, sia sul breve che sul lungo, e, dato che i tassi sono il prezzo del danaro e ogni prezzo è anche un reddito, si comprende il malumore dei risparmiatori che vedono assottigliarsi il rendimento del risparmio. Le Banche centrali si difendono: i tassi sono bassi per ragioni strutturali, sono stati schiacciati, secondo uno studio della Banca d’Inghilterra, da demografia, progressi nell’intermediazione finanziaria, diseguaglianze... – come ha detto Mark Carney, il canadese Governatore della Banca centrale inglese, «Noi siamo attori in una commedia scritta da altri». I critici ritorcono che la discesa dei tassi-guida corre parallela alla discesa del tasso reale a lunga – ma, si obietta, correlazione non è causazione...

A parte la diatriba, rimane vero che i tassi sono bassi e rimarranno lontani dai valore dei passato. Si è detto, comunque, che le condizioni monetarie non dipendono solo dai tassi. Un tasso di cambio che si apprezza ha una portata restrittiva sull’economia analoga a quella di un tasso d’interesse che aumenta. Esistono “indici di condizioni monetarie” che mettono assieme il tasso di interesse reale e il cambio effettivo reale: un regola del pollice dice che il rapporto è di 6 a 1, cioè a dire un apprezzamento del cambio di 6 punti equivale a un aumento di 1 punto del costo del danaro. Applicando questa regola, e guardando all’ultimo aumento del tasso-guida della Fed (di un anno fa), vediamo che il cambio reale del dollaro si è apprezzato, da allora, di circa il 3 per cento: è come, quindi, se la Fed avesse aggiunto, al quarto di punto di un anno fa, un altro mezzo punto. Questa accademica considerazione non distoglierà la Fed dall’aumentare ancora il tasso sui Federal Funds. E in effetti i tassi a lunga si sono già mossi al rialzo. La seconda considerazione riguarda il futuro. Continuerà la “normalizzazione” dei tassi? La Fed ha già detto che, anche dopo questo ciclo di rialzi, il livello dei tassi non tornerà a quel che in passato era considerato “normale”. Non è escluso, tuttavia, che la risalita del tasso-guida debba tener conto anche di quella che sembra oggi una “esuberanza irrazionale” dei mercati. Wall Street – e le altre Borse del mondo che ne prendono l’imbeccata – si affidano alle grandi spese per infrastrutture e ai tagli di tasse promessi da Trump. Ma queste iniziative sono lente a venire e lente nel produrre effetti.

Ci sono troppe “galline domani” nel carniere delle Borse, e le quotazioni stanno perdendo il legame con i profitti delle società. L’indipendenza della Fed sarà messa a dura prova nei tempi a venire: ogni successivo aumento dei tassi, per giustificato che sia, sarà scrutinato per soppesare i rapporti fra Casa Bianca e Fed. Un neo-Presidente che ha fatto troppe promesse intenibili, anche in campi diversi da quello dell’economia, avrà bisogno di capri espiatori...

© Riproduzione riservata