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Ezio Vanoni e il senso etico del tributo

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FISCO& SOCIETÀ

Ezio Vanoni e il senso etico del tributo

  • – di Franco Gallo

Siamo tutti cresciuti sotto l'insegnamento dei principi fondamentali del cristianesimo, che sono la solidarietà, la sussidiarietà e la garanzia del bene comune. Non possiamo, quindi, non apprezzare istintivamente l'attualità di un pensiero, come quello di Ezio Vanoni, fortemente ispirato a tali principi. Non è necessario essere cristiani professanti o aver letto Socrate per rendersi conto che una vita non sottoposta a verifica in termini di valore non vale granché e che, se vogliamo che questa verifica avvenga, è necessario muoverci nella direzione indicata negli anni Cinquanta del secolo scorso da Vanoni, negli scritti e nell'azione di governo.

Dobbiamo, cioè, non solo accordarci sul significato di «giusto» e di «bene» e di «equità distributiva», ma convincerci che nelle democrazie parlamentari spetta al potere pubblico, allo Stato, alla politica fissare i confini della libertà economica e dosare ragionevolmente gli strumenti da utilizzare perché una società sia più giusta nella libertà e ciascuno abbia diritto a un'esistenza dignitosa. Per Vanoni il tributo è, insieme alla spesa, il più importante di questi strumenti.

Si tenga presente che ai tempi di Vanoni il prelievo fiscale era ancora considerato una sorta di premium libertatis o, al più, l'altra faccia negativa del costo dei diritti. Egli è stato uno dei primi a capire che il tributo deve essere, invece, uno strumento per correggere le distorsioni e le imperfezioni del mercato a favore delle libertà individuali e collettive e a tutela dei diritti sociali. Come diceva spesso, si tratta non di vedere quanta parte dei servizi pubblici è consumata da ogni individuo per prelevarne il prezzo corrispondente, ma «di determinare quanta parte dello sforzo comune deve essere sopportato da ogni singolo, secondo i concetti politici, etici, giuridici, economici dominanti in un determinato Stato, in un determinato momento».

Ha portato avanti, sin dalla fine degli anni Quaranta, questo discorso sottolineando – sono le sue parole – l'inadeguatezza del «mercato concorrenziale tanto ad affrontare i problemi dell'accumulazione e dello sviluppo equilibrato, quanto a produrre una redistribuzione della ricchezza eticamente accettabile». E da questo doppio grado di inadeguatezza egli faceva derivare quella che, a suo avviso, doveva considerarsi, nell'Italia uscita dalla seconda guerra mondiale, una delle indicazioni fondamentali, d'ordine anche morale, in tema di politica economica e fiscale, e cioè avere «un ordinamento tributario che corregge gli esiti del mercato pur nel rispetto della concorrenza e delle libertà economiche, che attribuisce al tributo una funzione di giustizia sociale in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza e che disciplina il dovere di concorrere alle spese pubbliche come dovere di solidarietà.».
È lapidario in questo senso il suo saggio su La finanza e la giustizia sociale (contenuto nella pubblicazione del 1976 curata da A. Tramontana, Scritti di finanza pubblica e di politica economica): «La finanza, attraverso il tributo, può intervenire in una politica tendente al fine di attuare una maggiore giustizia sociale, indirizzando la propria azione redistributiva nel senso di ridurre le disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza, di dare stabilità al risparmio, di favorire il determinarsi delle migliori condizioni per l'occupazione e per l'incremento dei salari».

È su questi valori che, da ministro, ha costruito la legge sulla perequazione tributaria del '51 ed è a questi valori che, dopo la sua morte, si sono ispirati il Testo Unico delle Imposte Dirette del 1958 e la riforma fiscale del 1971, concepita da persone di alto livello culturale e morale come Bruno Visentini, Cesare Cosciani, Gino De Gennaro, Antonio Berliri e da professori come Sergio Steve, Antonio Pedone, Francesco Forte e altri ancora. Se, poi, gli obiettivi che con detta riforma questi uomini si erano prefissi non sono stati raggiunti o sono stati raggiunti solo parzialmente è un altro discorso, che si è a lungo dibattuto in questi ultimi anni e che non è il caso di riprendere in questa sede.

Cattolici e laici
Vale, invece, la pena di sottolineare che le considerazioni svolte all'epoca dal cattolico Vanoni sono collimanti sul piano etico sia con quanto sostenuto, nei primi anni del 2000, dal cardinale Carlo Maria Martini e dagli esperti cattolici raccolti intorno a lui, sia col migliore pensiero laico degli ultimi cinquant'anni.
Martini arriva infatti a definire, in perfetta armonia con Vanoni, la contribuzione fiscale come «un gesto fondamentale per la creazione delle condizioni di un benessere condiviso». Nella relazione della commissione Giustizia e Pace, da lui istituita nella diocesi di Milano, il tributo è considerato, in particolare, un «concorso attivo al processo di formazione e redistribuzione delle risorse, grazie alle quali promuovere i beni e i servizi della convivenza civile. In quanto parte della società - e, conseguentemente, in nome della propria responsabilità per il bene comune - ogni soggetto contribuente è, quindi, chiamato a dare l'apporto da lui dovuto insieme con gli altri contribuenti, facendosi carico delle ragioni dei bisogni dell'intera collettività e dei mezzi con cui soddisfarli». E questo - si badi bene - ribadisce il cardinale Martini, «non soltanto in omaggio alla continua ripetizione di imperativi morali pur validi in sé, ma anche sulla base sperimentabile di una convivenza legata all'ottenimento di vantaggi maggiori e più duraturi di quelli che potrebbero derivare da comportamenti chiusi nel breve raggio dell'interesse individualistico».

Il pensiero laico, da parte sua, converge sul punto con quello di Vanoni e Martini. Filosofi, economisti e giuristi - non tutti necessariamente di matrice egualitarista - come John Rawls, Paul Krugman, Amartya Sen e Ronald Dworkin concordano, seppur per vie diverse, sulla centralità della giustizia sociale e distributiva, giungendo alla conclusione che il tributo limita la libertà, i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell'individuo, e in ciò sta indubbiamente un sacrificio individuale; per aumentare però la libertà stessa e il godimento dei diritti, e in ciò sta la funzione promotrice del tributo medesimo nell'ottica dell'equo riparto e dell'etica della responsabilità.

L'etica del tributo
Se questi valori sono ancora da condividere, mi pare evidente che la migliore definizione etica del tributo nell'era contemporanea non può che essere ancora quella elaborata da Vanoni, e cioè che giustizia o ingiustizia nella tassazione deve significare giustizia o ingiustizia in quel sistema “convenzionale” di diritti economici quale risulta dal regime legale di tassazione. Il che, con riferimento alla situazione attuale, equivale a dire che i diritti economici devono essere riconosciuti, tutelati e garantiti come imprescindibili e naturali strumenti dell'autonomia privata e del mercato, ma, nel contempo, devono essere bilanciati, conformati e intrecciati con le regole, le leggi e le “tecniche” disegnate dallo Stato per assicurare altri diritti, altri valori e altre forme di ricchezza immateriali, come il benessere e la giustizia sociale, la sicurezza delle aspettative e la promozione dello sviluppo.
Se i nostri padri non avessero seguito questa strada, se non avessero promosso l'equità di quello che gli economisti chiamano lo “scambio fiscale”, avremmo avuto sicuramente una società senza coesione sociale, con minore considerazione dei rapporti interpersonali e con scarsa formazione di capitale umano.

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