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Il «ricatto» tedesco sui fondi

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L'Analisi|Il futuro dell’unione europea

Il «ricatto» tedesco sui fondi

Usare le risorse che oggi l’Europa spende per la politica di coesione e la politica agricola per finanziare le riforme strutturali negli Stati membri. Per il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, quest’idea è diventata un chiodo fisso. La brandisce tutte le volte che si parla del bilancio dell’Unione e della governance economica, con i toni ruvidi che lo contraddistinguono.

L’idea è di «rendere più coerenti le politiche all’interno dell’Unione». Per farlo, secondo il ministro tedesco, bisognerebbe collegare le risorse del bilancio dell’Unione europea alle raccomandazioni di politica economica specifiche per ciascun Paese, proposte ogni anno dalla Commissione e adottate dal Consiglio, nelle quali vengono indicate le principali “sfide” economiche per ogni Stato membro. Ricette, o “compiti a casa”. Tali riforme, sostiene Schäuble, «potrebbero contribuire a una crescita economica sostenibile e alla riduzione del debito pubblico nello Stato membro in questione ma anche in tutta la Ue».

Perciò, i progetti nazionali che beneficiano dei finanziamenti dei fondi europei «dovrebbero sistematicamente essere disegnati in modo da implementare le raccomandazioni». Questa dovrebbe essere considerata dalla Commissione «una precondizione per concedere i finanziamenti». Se questa è la proposta, inevitabile dedurre che la principale destinataria sia l’Italia, seconda beneficiaria dei fondi europei e prima per massa di debito pubblico.

Berlino insiste su questa strada, nonostante da qualche mese la Commissione stia lavorando al Libro bianco per il rafforzamento della zona euro, che Jean-Claude Juncker vorrebbe fosse pronto a marzo, per i 60 anni dei trattati di Roma. Anzi, al ministero delle Finanze sembrano del tutto disinteressati alla questione che, invece, nelle intenzioni dei tecnici potrebbe portare – tra l’altro – al superamento o almeno a una nuova configurazione dello strumento delle raccomandazioni, finora del tutto inefficaci visto che in buona parte restano lettera morta. All’Italia, per esempio, a luglio scorso si chiedeva di contenere il deficit entro i limiti della flessibilità per investimenti e riforme strutturali, di attuare la riforma della pubblica amministrazione, di ridurre i crediti deteriorati, di attuare le politiche attive per il lavoro, di adottare la legge sulla concorrenza. Tutti sanno a che punto siamo.

La proposta tedesca non è stata ancora presentata formalmente ma è presumibile che ciò accada presto, dal momento che è uno dei tre punti che la Germania intende portare al tavolo di discussione sul bilancio 2021-2027, per il quale il 2017 sarà l’anno sarà decisivo. Per ora, ogni volta che rispunta l’ipotesi, la reazione a Bruxelles è di fastidio: «Il legame tra riforme strutturali e politiche regionali e di coesione è già al centro delle riflessioni della Commissione». Tra Fesr, Fse, Feasr che sono i fondi principali, è in ballo poco meno della metà del bilancio Ue, più di 450 miliardi di euro nel periodo 2014-2020.

Ciò che Schäuble non dice – irritando Bruxelles – è che questo legame esiste già, con almeno tre strumenti previsti nell’ultimo regolamento: gli obiettivi specifici per Paese (che con l’articolo 4 sono “integrati” nei programmi nazionali e regionali), la condizionalità ex-ante (introdotta con fatica dall’articolo 19) e la condizionalità ex-post (articolo 23).

Quest’ultimo strumento è quello più diretto perché dà alla Commissione il potere di chiedere agli Stati di modificare il “contratto di partenariato” e i programmi «per sostenere l’attuazione delle raccomandazioni del Consiglio» proprio per migliorare l’efficacia dei fondi Ue, con esplicito riferimento alla correzione degli squilibri macroeconomici sulla base del Patto di stabilità. La logica punitiva della misura (“se non fai una certa cosa ti tolgo i fondi”) secondo Bruxelles si è dimostrata poco efficace. I casi di Spagna e Portogallo ne sono la prova: la Commissione non ci ha neppure provato e l’ipotesi di sospensione dai pagamenti a novembre scorso è stata archiviata senza discutere.

Lo strumento considerato più efficace per spingere le riforme negli Stati membri, proprio come chiede Schäuble, dovrebbe essere la cosiddetta condizionalità ex-ante che funziona da incentivo: se fai questo ti concedo i finanziamenti. Gli Stati membri, cioè, devono creare le condizioni affinché i fondi europei loro assegnati siano efficaci, cioè producano sviluppo, occupazione e in definitiva cambiamenti strutturali. L’Italia, per esempio, ha dovuto associare a ogni programma regionale e nazionale un Piano di rafforzamento amministrativo (Pra) con cui ogni amministrazione ha dovuto indicare le misure che avrebbe adottato per rendere più fluide ed efficaci le procedure di accesso ai finanziamenti europei. Ma gli interventi, per i quali c’è tempo fino al 31 dicembre prossimo, possono riguardare anche altri ambiti: investimenti in R&S, ambiente, regole sugli appalti pubblici, trasporti.

Nella relazione annuale 2017 ciascun Paese dovrà dare conto alla Commissione di quanto è stato fatto e, nel caso in cui verificasse che gli impegni non sono stati rispettati, quest’ultima può sospendere i pagamenti. Gli strumenti, dunque, esistono già e sarebbe davvero strano (forse anche grave) se Schäuble e i suoi collaboratori non ne fossero consapevoli.

L’insistenza su questo tasto fa nascere il sospetto che più che una minaccia rivolta a Paesi beneficiari come l’Italia, sia un argomento a uso e consumo interno, un osso da spolpare per chi è attratto dall’antieuropeismo di AfD, Alternative für Deutschland, il partito di destra euroscettico che in meno di tre anni ha conquistato ampie fasce di elettorato ed è considerato una minaccia in vista del voto nel 2017. Un argomento che, al pari della innocua minaccia del veto sul bilancio Ue agitata a Bruxelles dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi in piena campagna referendaria per avere mani più libere sul deficit e poi svanita nel nulla, sposta l’attenzione dai problemi veri, aumenta le distanze tra i cittadini europei e in fin dei conti finisce per rafforzare proprio quelle pulsioni “populiste” che vorrebbe combattere, alimentando stereotipi, rivalità e luoghi comuni. Non è questa la via per liberare l’Unione dalle sabbie mobili in cui l’abbiamo cacciata.

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