L’ex governatore dello Stato di New York Mario Cuomo una volta disse argutamente che i politici trionfanti tendono a «fare campagna elettorale in poesia e a governare in prosa». La retorica della campagna di Donald J. Trump è stata tutt’altro che poetica, e la transizione verso la presidenza suggerisce che governerà gli Stati Uniti non in prosa ma in Twitter.
A parte Twitter, le nomine della squadra di Trump ci consentono altresì di discernere come sarà la sua presidenza. Sinora ha selezionato un mix senza precedenti di generali in pensione e politici arrivisti superricchi: il generale James Mattis come segretario alla Difesa; il generale John Kelly come segretario della Sicurezza interna; Steven Mnuchin, ex banchiere di Goldman Sachs, come segretario del Tesoro; Wilbur Ross, un investitore miliardario, come segretario del Commercio; Betsy DeVos, un’ereditiera miliardaria, come segretario per l’Istruzione e Rex Tillerson, Ceo di ExxonMobil, come segretario di Stato.
Si tratta di una serie di personaggi che non supererà indenne il processo di conferma al Senato. I democratici stanno già affilando i coltelli, e la risicata maggioranza repubblicana include potenti critici di Trump, come Lindsey Graham del South Carolina e John McCain dell’Arizona – ex prigioniero di guerra che Trump ha denigrato durante la campagna.
Nel frattempo, il generale Michael Flynn, scelto da Trump come consigliere per la sicurezza nazionale, non necessita di alcun via libera del Senato, ma ciò nonostante continuerà ad attirare le critiche di molti, non da meno per la sua dichiarata antipatia all’Islam in generale, e all’«Islam radicale» in particolare. Flynn una volta ha definito l’Islam un «cancro», e ha scritto un tweet in cui dice che «la paura nei confronti dei musulmani è RAZIONALE». Durante i comizi per la campagna di Trump, Flynn ha denunciato Hillary Clinton per aver utilizzato un server di posta privato, e ha incitato a urlare «lock her up», ossia «rinchiudetela in prigione». Eppure, mentre prestava servizio in Afghanistan, è stato sanzionato per aver condiviso informazioni sulle operazioni della Cia con cittadini non americani non autorizzati.
La campagna di Trump e la transizione hanno reso tanto più importante un’analisi informata dell’imminente amministrazione, e i commentatori di Project Syndicate si esprimono su ciò che un presidente americano dichiaratamente “imprevedibile” significherà per gli americani e per il mondo. Sostanzialmente i loro dubbi e timori si sono intensificati nelle ultime settimane.
La roulette russa
La maggiore controversia sinora nei giorni che precedono l’Inauguration Day, ossia il giorno dell’insediamento formale alla Casa Bianca, riguarda i legami del team Trump con la Russia e con il suo presidente Vladimir Putin. In veste di Ceo di ExxonMobil, Tillerson ha negoziato vasti investimenti di quella società in Russia, e ha ricevuto nel 2013 l’alta onorificenza russa nota come “Ordine dell’amicizia”; e l’anno scorso, Flynn ha tenuto un discorso a pagamento e cenato con Putin in un evento ospitato da RT, la Tv controllata dal Cremlino che è risultata essere una delle principali fonti di notizie false durante la recente tornata di elezioni americane. Inoltre, Trump ha respinto le conclusioni cui sono giunte le agenzie di intelligence – ora in maniera più categorica che mai – secondo cui la Russia avrebbe condotto delle cyber-operazioni per influenzare il risultato delle elezioni a favore di Trump. «Sono le stesse persone che dicevano che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa», così ha risposto il transition team di Trump.
Nina Khrushcheva, pronipote di Nikita Khrushchev, il leader sovietico che nel 1954 donò la Crimea all’Ucraina, non misura le parole sull’apparente russofilia di Trump. Ricorda il classico film dell’era della Guerra Fredda The Manchurian Candidate, su un complotto sovietico messo in atto per prendere il controllo del sistema politico americano. «Considerata la simpatia che Trump e molti nel suo team sembrano nutrire per il presidente russo Vladimir Putin – osserva – la vita potrebbe essere sul punto di imitare, se non di superare, l’arte».
Per Khrushcheva, il fatto che Trump rifiuti le accuse della Cia sugli attacchi di hacker russi è particolarmente sconcertante: «L’idea che un presidente eletto americano faccia prevalere la parola del Cremlino su quella delle autorità della Cia e persino dei membri più anziani del suo partito è alquanto bizzarra e pericolosa». E «la contemporanea nomina di Tillerson – sostiene – porta questo love affair con un importante avversario a un livello senza precedenti nella storia americana».
“L’idea che un presidente eletto americano faccia prevalere la parola del Cremlino su quella delle autorità della Cia e persino dei membri più anziani del suo partito è alquanto bizzarra e pericolosa”
Nina Khrushcheva
Molti altri commentatori di Project Syndicate sono ugualmente pessimisti sulle modalità con cui Trump intende orientare la politica americana nei confronti della Russia. Slawomir Sierakowski, fondatore del movimento polacco Krytyka Polityczna e direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, prevede che, nel momento in cui Trump abbraccerà Putin, l’influenza occidentale e il soft
power svaniranno, e i Paesi dell’Est Europa «non avranno altra alternativa» se non quella di «approfondire i legami economici e diplomatici con la Russia».
Allo stesso modo, considerate le critiche di Trump alle «guerre senza senso dell’America nel Medio Oriente», e la sua promessa di mettere l’America first, Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, prevede «la fine di ciò che è stato sinora denominato ’Occidente’». Nel momento in cui gli Usa penseranno a se stessi, «resteranno il Paese più potente del mondo di un ampio margine», riconosce Fischer. «Ma non garantirà più la sicurezza dei Paesi occidentali né difenderà un ordine internazionale basato sul libero scambio e sulla globalizzazione».
Prevedere l’imprevedibile
Ovviamente, come fa notare l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, l’unica cosa che sappiamo per certo è che, «la strategia di politica estera di Trump punta a restare imprevedibile». In tal senso, Trump sembra avere qualcosa in comune con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Dalla sua vittoria a sorpresa l’8 novembre, Trump ha fatto marcia indietro o ha completamente cambiato posizione rispetto a molte delle posizioni da lui assunte in campagna elettorale.
Il muro sul confine messicano che ha pesantemente caratterizzato la sua campagna ora sarà «una recinzione»; non sarà più nominato alcun procuratore speciale contro Hillary Clinton; il cambiamento climatico, un tempo una «beffa» inventata dai cinesi, potrebbe avere un certo «collegamento» con il comportamento umano dopo tutto; torturare i presunti terroristi potrebbe non essere d’aiuto, e così via.
Le idee di Trump su queste e su altre questioni restano avvolte nell’incertezza. Un’eccezione sembra essere però la sua politica economica: i mercati restano fiduciosi sul fatto che Trump manterrà la propria promessa di ricostruire fatiscenti infrastrutture e tagliare le imposte sulle società. E nominando Ross e Mnuchin nella sua squadra, Trump ha dato ai magnati d’America qualcosa di cui parlare – almeno nel breve periodo.
Ma c’è forse qualcun altro che ha ragione di essere speranzoso? Fischer pensa di no. «Le uniche domande restanti ora riguardano con quanta rapidità cambierà la politica americana – osserva – e quanto saranno radicali quei cambiamenti». In base alla campagna di Trump, quei cambiamenti potrebbero includere l’imposizione di dazi contro la Cina, il fare a pezzi il Nafta, l’esimersi dagli impegni americani sul fronte della difesa collettiva con la Nato e il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran e dall’accordo di Parigi sul clima. E le nomine di Trump – soprattutto quella del procuratore generale dell’Oklahoma Scott Pruitt, un negazionista del cambiamento climatico, a capo dell’Epa, l’Agenzia per la Tutela dell’Ambiente – suggerisce che potrebbe mantenere almeno alcune delle allarmanti promesse dai lui fatte durante la campagna.
Se da un lato è allettante pensare che il pragmatismo e l’inerzia manterranno intatto l’ordine globale pre-Trump, dall’altro non dovremmo soccombere a questa velleità. Non fa ben sperare che la prima telefonata di Trump dopo l’elezione sia stata con un leader straniero che non fosse un tradizionale alleato,
ma con Abdel Fattah al-Sisi, il dittatore militare dell’Egitto post-Primavera araba. In più, colloquiando con quasi una decina di altri leader mondiali prima di rivolgersi al premier britannico Theresa May, Trump sembra aver già accantonato la “special relationship” transatlantica tanto cara ai premier britannici.
Il fatto ancora più allarmante è che Trump non abbia considerato – o abbia letteralmente ignorato – la pietra miliare della decennale politica “One China” quando decise di parlare con il presidente indipendentista di Taiwan, Tsai Ing-wen. Di fronte alle profonde critiche e a un furioso governo cinese, Trump ha risposto con un tweet, «Interessante come gli Usa vendano a Taiwan miliardi di dollari di attrezzature militari e io non possa accettare una telefonata di congratulazioni». Come osserva Bildt, la faccenda poco chiara di Taiwan e la raffica di tweet provocatori di risposta da parte di Trump, indicano che la futura amministrazione «potrebbe assoggettare anche gli aspetti più radicati della politica estera americana a una rinegoziazione e a nuovi accordi».
Abbaia o morde?
Bildt, come molti commentatori di Project Syndicate, teme ciò che accadrà se Trump si disferà dell’accordo nucleare con l’Iran e si sottrarrà agli impegni presi dall’America con l’accordo di Parigi sul clima. «Questi sono solo due dei significativi risultati diplomatici ottenuti dalla comunità internazionale negli ultimi anni», scrive. «Le conseguenze di una ritirata Usa da tali impegni sono un’incognita per chiunque. In ogni caso, a soffrirne sarà certamente la stabilità globale».
Christopher Hill, ex ambasciatore americano in Iraq, concorda sul fatto che abrogare l’accordo con l’Iran non farà che complicare le cose. «L’Iran non offre grandi soluzioni – rinonosce – ma, se gli Usa abbandonassero l’accordo nucleare, il Paese potrebbe facilmente esacerbare i disordini della regione». E come osserva Bildt, che scrive dall’Arabia Saudita, «ora che l’imprevedibilità è all’ordine del giorno, e ha preso piede una prospettiva collettiva del tipo ’me first’», c’è la chiara «possibilità che i disordini diventino globali».
“L’Iran non offre grandi soluzioni ma, se gli Usa abbandonassero l’accordo nucleare, il Paese potrebbe facilmente esacerbare i disordini della regione”
Christopher Hill, ex ambasciatore Usa in Iran
Hill ha sicuramente ragione sull’accordo dell’Iran, e l’amministrazione Trump imparerà presto che qualsiasi tentativo di sabotarlo incontrerà la resistenza delle altre parti dell’accordo – Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania. Sembra che se ne sia già reso conto qualche potenziale membro del governo. Mattis – malgrado il soprannome di “Mad Dog” e la profonda animosità nei confronti dell’Iran – ha già riconosciuto che sarebbe un errore tirarsi indietro dall’accordo sul nucleare. Tillerson sembra condividere questa posizione, ed è indubbiamente consapevole che l’Iran sta ora concludendo degli accordi che metteranno le sue riserve di petrolio a disposizione dei competitor americani quali la francese Total, la norvegese Dno e l’anglo-olandese Shell.
La retorica di Trump contraria al libero scambio e alla NATO suggerisce un orientamento degli Usa verso l’isolazionismo. Ma come sostiene il politologo di Harvard Joseph Nye, «la tecnologia sta promuovendo una globalizzazione sul piano ecologico, politico e sociale che assume le forme del cambiamento climatico, del terrorismo transnazionale e dell’immigrazione, che piaccia a Trump oppure no». Pertanto, conclude Nye, «l’ordine mondiale riguarda molto più della sola economia, e gli Stati Uniti continuano a essere fondamentali per il suo mantenimento».
Nye chiarisce un punto importante: negli Usa le forze politiche intestine – come la potente lobby pro-Israele – impediranno all’America di abbandonare l’impegno globale. In modo analogo, Nye osserva che la migliore opzione dell’America per gestire «l’ascesa globale della Cina» non cambierà solo perché cambia l’inquilino della Casa Bianca. La nuova amministrazione non avrà delle buone ragioni per abbandonare l’attuale strategia bipartisan di «integrare ma controllare» – «in base alla quale gli Usa invitarono la Cina a far parte dell’ordine mondiale liberale, mentre riconfermavano il proprio trattato di sicurezza con il Giappone».
Per quanto riguarda la Russia, Nye crede che Trump potrebbe finire con l’essere pragmatico, ma solo se riuscirà a «contrastare la sfida aperta di Putin al divieto di esercitare la forza per sottrarre territori ai Paesi vicini, sancito dall’ordine liberale dopo il 1945». Nye fa notare che, poiché la Russia è dotata di «un arsenale nucleare sufficiente a distruggere gli Stati Uniti», non può semplicemente essere ignorata; e pensa che Trump «fa bene a evitare il completo isolamento di un Paese con cui condividiamo interessi in ambiti quali sicurezza nucleare, non proliferazione, lotta al terrorismo, l’Artico e questioni regionali come l’Iran e l’Afghanistan».
Controversie domestiche
Ma la vittoria di Trump non è stata un caso isolato, e Danny Quah e Kishore Mahbubani, entrambi della Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore, suggeriscono che il nesso tra la sua elezione e il referendum sulla Brexit tenutosi in giugno nel Regno Unito rifletta la diminuita capacità dell’America di perseguire una strategia globale. A loro avviso la disuguaglianza tra redditi, per quanto reale, è una spiegazione inadeguata per questi sconvolgimenti politici.
La vera questione è il cambiamento geopolitico: «Il potere dell’asse transatlantico che un tempo guidava il mondo sta svanendo, e la sensazione di perdere il controllo viene percepita allo stesso modo dalle élite politiche e dai cittadini di questi Paesi».
Pur non potendo giustificare in toto l’ascesa del populismo in altre aree, questa spiegazione suona plausibile: lo slogan semplice ma efficace del fronte Brexit era “Take Back Control” (Riprendiamo il controllo), e quello di Trump era “Make America Great Again” (Rendiamo l’America di nuovo grande). Per molti sostenitori di queste campagne, secondo Quah e Mahbubani, la questione «non era la rabbia nell’essere esclusi dai benefici della globalizzazione, quanto un condiviso senso di preoccupazione da non riuscire più ad avere il controllo del proprio destino». Ovviamente, le realtà economiche e politiche alla fine deluderanno gli elettori che si sono identificati con questi slogan, e una delle maggiori domande per i prossimi quattro anni sarà se la rabbia popolare fomentata da Trump, o l’establishment del partito Repubblicano da lui umiliato durante la campagna, si volteranno contro di lui.
“Il potere dell’asse transatlantico che un tempo guidava il mondo sta svanendo, e la sensazione di perdere il controllo viene percepita allo stesso modo dalle élite politiche e dai cittadini di questi Paesi”
Danny Quah e Kishore Mahbubani, Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore
Elizabeth Drew, che ha documentato la scena politica americana per decenni, pensa si tratti di una reale possibilità, non da ultimo perché le nomine di Trump sinora sembrano essere totalmente in contrasto con la sua campagna populista, che prometteva di migliorare le condizioni della working class. Drew osserva che i trascorsi di DeVos sul fronte delle politiche per l’istruzione si limitano a «un disastroso sforzo di privatizzare le scuole del Michigan», e la scelta di Trump di mettere a capo del Dipartimento del Lavoro Andy Puzder «proprietario di un gruppo che gestisce catene di fast-food che si oppone all’aumento dei salari minimi a livelli vivibili o all’estensione della paga degli straordinari; di fatto, la sua società ha infranto le leggi sugli straordinari».
L’elettorato americano diverrà solo più diversificato negli anni a venire; eppure, osserva Drew, «la scelta di Trump per l’incarico di procuratore generale, il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, si cura poco dei diritti civili o dell’immigrazione». E come Pruitt, che vanta stretti legami con l’industria dei combustibili fossili e ha citato in giudizio l’agenzia che guiderà, anche l’ex
governatore del Texas Rick Perry, scelto da Trump come segretario del Dipartimento dell’Energia, promise di abolire proprio quel dipartimento quando corse per le primarie repubblicane (ma uscì presto di scena).
Date le scarse qualifiche del governo proposto da Trump, Drew crede che le sue nomine riceveranno «un pesante terzo grado» nel processo di via libera al Senato, con i democratici «che potrebbero potenzialmente sconfiggerne uno o due». Come però ci fa notare, i repubblicani saranno il fattore decisivo, dato che molti hanno già preso le distanze dalle «minacce di Trump di iniziare delle guerre commerciali». E il commercio non è l’unica questione a dividere i repubblicani. Graham, ad esempio, ha condizionato il suo supporto alla nomina di Tillerson al riconoscimento dell’ingerenza della Russia nelle elezioni. Trump può inveire contro i repubblicani nell’establishment, ma secondo Drew le vessazioni non funzioneranno. «Se si spinge troppo oltre – conclude – Trump potrebbe finire con l’essere un generale con poche truppe».
Con amici come questi…
Ma Trump non avrà bisogno di truppe al Congresso per sovvertire l’ordine internazionale, considerando l’ampia latitudine concessa dalla Costituzione americana al presidente per formulare e implementare la politica estera. E questo è fonte di crescente preoccupazione per molti non americani. Come osserva Fischer, l’approccio geopolitico dell’Occidente «si fondava su un impegno americano a intervenire in difesa dei propri alleati», e «non può esistere se gli Usa si esimono dal giocare questo ruolo cruciale, cui ora potrebbero rinunciare con Trump».
Fischer condivide le preoccupazioni che Mark Leonard, direttore del Consiglio europeo sulle relazioni estere, ha brevemente ma categoricamente manifestato subito dopo l’elezione: «Le garanzie americane non sono più affidabili». Oltre ad esprimere scetticismo sugli accordi internazionali e sull’alleanza Nato, Trump ha «incoraggiato il Giappone e la Corea del Sud a dotarsi di armi nucleari». E Leonard lamenta, «in Europa, nel Medio Oriente e in Asia, Trump ha messo in chiaro che l’America non svolgerà più il ruolo di gendarme; sarà invece una società di sicurezza privata a pagamento».
Ma non tutte le regioni subiranno le stesse conseguenze derivanti dalla presidenza Trump, e Sierakowski teme che «la più grande perdente» sarà «l’Ue, che soffre di conflitti interni e non è in grado di affrontare crisi economiche, demografiche e relative ai rifugiati». Sierakowski pensa che l’Ue ora debba trasformarsi in «qualcosa che rassomigli al Concerto europeo, che stabilizzò il continente tra il 1815 e la Prima Guerra Mondiale».
“Oltre a essere una potenza indispensabile, gli Usa sono una potenza interconnessa. Sono il fulcro dei collegamenti che tengono insieme il mondo, dal dollaro alla sicurezza dalla legge alla ricerca e all’innovazione”
Ana Palacio, ex ministro degli Esteri spagnolo
Un nuovo “Concerto europeo” potrebbe sembrare tanto improbabile quanto non necessario, considerata l’esistenza di altre istituzioni multilaterali, quali le Nazioni Unite, la Nato e l’Organizzazione mondiale del Commercio, per mantenere il mondo più o meno su un piano di equilibrio. «Oltre a essere una potenza indispensabile, gli Usa sono una potenza interconnessa», fa giustamente notare Ana Palacio, ex ministro degli Esteri spagnolo. «È il fulcro dei collegamenti che tengono insieme il mondo, dal dollaro alla sicurezza dalla legge alla ricerca e all’innovazione». Qualunque danno Trump infligga all’«ordine internazionale basato sulle regole», avverte, «impallidisce di fronte al danno causato da un’America realmente isolazionista e ritirata che non è in grado di mantenere tali legami”.
Si può certamente sperare, come sospetta Nye, che le forze della globalizzazione limitino la capacità di Trump di agire unilateralmente sulla scena mondiale. Ma non dobbiamo escludere nessuno scenario. La Clinton sarebbe entrata nello Studio Ovale come qualcosa di noto la cui abilità di gestire la macchina istituzionale dello status quo non è mai stata in dubbio; di fatto, la familiarità dell’elettorato con lei potrebbe essere la ragione più importante per cui sia stata rifiutata da molti. Trump, invece, è una novità: un magnate immobiliare con una strana acconciatura, nonché star dei reality show che si è rifiutato di fugare i dubbi circa i potenziali conflitti di interessi, comprese le sue relazioni con i governi esteri, rinunciando alla propria attività o rilasciando le documentazioni fiscali.
Bildt teme che i rischi geopolitici posti dal clientelismo siano esacerbati dall’inopportuna indifferenza di Trump alle norme che per decenni hanno consentito al mondo di garantire che «anche gli eventi inaspettati» potessero essere contenuti. La presidenza di Trump aumenterà quindi «la possibilità che la turbolenza diventi globale», asserisce Bildt. «Non si dovrebbe ingigantire il rischio che le cose possano sfuggire di mano – ammonisce – ma è innegabile che la prossima crisi possa essere di portata ben maggiore rispetto al passato, per il semplice fatto che sarebbe meno gestibile».
È troppo presto per farsi prendere dal panico. Ma la crescente ansia sulle future gesta di Trump non è irrazionale. Come osserva Bildt, «anche se non è tempo di chiudersi in un bunker, certamente non farebbe male averne uno nei paraggi».
(Traduzione di Simona Polverino)
John Andrews, ex corrispondente dall’estero dell’Economist, è autore di The World in Conflict: Understanding the World’s Troublespots.
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