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Le incognite sulla strada della crescita

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SCENARI 2017

Le incognite sulla strada della crescita

Ce la farà la nave Italia? Magari a spingerla sarà Donald Trump, che sfugge all'esercizio della catalogazione preventiva, e il suo “amico” Vladimir Putin: Stati Uniti ruggenti contro la sleale concorrenza cinese, meno tasse, più infrastrutture, meno regole finanziarie, dollaro forte, giù il muro delle sanzioni a Mosca. Magari no, perché la rivoluzione del nuovo Presidente Usa s'incaglia su una sua stessa promessa, dovesse essere messa davvero in atto, il che per fortuna non è affatto certo.
Alzare barriere e tariffe doganali che a loro volta, aprendo una stagione di ripicche incrociate, colpirebbero al cuore il commercio internazionale. Cioè il motore dello sviluppo globale che quando ha girato per il meglio ha sempre dato grandi soddisfazioni all’Italia, Paese manifatturiero per eccellenza e patria di un popolo di imprenditori-esportatori straordinari.

Se ne va il 2016, tra l’emergenza banche e risparmio, il Governo Gentiloni appena insediato e con l’orizzonte di reggere finché avrà la fiducia in Parlamento, il “No” vincente al referendum costituzionale che ha costretto Matteo Renzi a lasciare Palazzo Chigi, un sentiero strettissimo nei rapporti con l’Europa (regole del debito non rispettate), la necessità assoluta di alzare una crescita ancora troppo bassa e fragile. E arriva il 2017, dove l’unica certezza sulla quale si può contare è la politica monetaria accomodante della Bce a guida Mario Draghi. Il resto è una distesa di punti interrogativi. Fatta la nuova legge elettorale (quale? Prevarrà la nostalgia del vecchio proporzionale? Con un colpo di saggezza si ripartirà dal “Mattarellum”, che dimostrò sul campo di funzionare?) si voterà a giugno? Si voterà in autunno? Non si voterà nel 2017 e si andrà alla scadenza naturale della legislatura nel febbraio 2018? E di che segno sarà la legge di Bilancio 2018? Prima ancora di iniziare a etichettarla (espansiva, rigorista, post o pre-elettorale) converrà ricordare – quale che sia il governo in quel momento in carica – che dovranno essere messi in pista 19 miliardi solo per disinnescare gli aumenti dell’Iva e delle accise rinviati al 2018.

In calendario, ci sarebbe in effetti una data che potrebbe far pensare a una festa vera senza troppi problemi. Il 25 marzo ricorrono i 60 anni della firma dei Trattati di Roma, simbolo storico del processo di integrazione europea. Ma a marzo ci sarà anche l’esame sulla politica economica italiana, che si annuncia assai complesso su deficit e debito. E poi, sullo sfondo, la salute politica dell’Europa è malferma, acciaccata dai suoi ritardi, dalla distanza che la separa dai cittadini e dai loro problemi reali (a partire da sicurezza e immigrazione), da un pragmatismo compromissorio (né rigorista fino in fondo, né sviluppista sul serio) che la fa bollire, a fuoco vivace, nella pentola dei risorgenti nazionalismi e populismi. Questi, invece di essere condannati “a prescindere” andrebbero interpretati alla luce della domanda dei cittadini-elettori-contribuenti e non imponendo un’offerta politica, piaccia o no, che si rivela puntualmente inadeguata portando così nuove munizioni all’arsenale di chi non crede, o ha smesso di credere, nell’Europa.

Il 15 marzo si voterà in Olanda, poi in Francia (ecco un test decisivo anche per la tenuta dell’euro), in autunno in Germania. L’euro debole potrebbe dare una mano, però le incognite sono enormi. Sì, la politica fiscale potrebbe essere di segno espansivo ma, come nota l’analista Alessandro Fugnoli in un recente report del gruppo Kairos, «la differenza con l’America è che là i programmi infrastrutturali e i tagli di tasse verranno esibiti con orgoglio e creeranno ottimismo, mentre in Europa gli sforamenti di bilancio continueranno ad essere oggetto di recriminazioni e colpevolizzazioni che deprimeranno il morale». A questo, aggiungiamo la gabbia delle regole, in Europa e nel mondo, di bruciante attualità per l’Italia con l’avanzare dell’Unione bancaria. Come dice il direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, la strada intrapresa non è verso la semplificazione ma verso la loro complicazione nel tentativo di imbrigliare i mercati dopo la crisi del 2007-2008. A livello nazionale, in sede di recepimento, si prova a introdurre norme secondarie meno complesse e più trasparenti, ma lo sforzo è improbo e i risultati inevitabilmente parziali.

Sul tema, di nuovo potrebbe indicare un cambio di stagione Donald Trump, che vuole radere al suolo la legge Dodd-Frank nata in epoca obamiana per regolare di più i mercati. Ma attenzione. Come ha notato il presidente dell’Adam Smith Society, Alessandro De Nicola, se la deregolamentazione americana sarà intelligente, evitando il caos, l’industria finanziaria Usa e il governo tramite i Treasury bonds attireranno una gran parte dei capitali disponibili al mondo. Mentre, dopo Brexit, la piazza di Londra è in uscita dall’Unione Europea.
Stretta da mille incognite, l’Italia fa i conti con la sua bassa crescita che s’abbina alla lievitazione delle diseguaglianze sociali. Una condizione difficilissima che, secondo il sociologo Carlo Trigilia, sull’ultimo numero de “il Mulino”, riflette un quadro politico «in mezzo al guado tra democrazia consensuale che in passato non si è mai consolidata (salvo alcuni momenti di emergenza che sono stati i migliori della storia nazionale) e il tentativo recente di imporre un assetto maggioritario». E nella transizione sempre incompiuta, una crescita che nel migliore dei casi non va molto oltre l’1% segnala una difficoltà endemica, una “diversità” sulla quale non si discute mai abbastanza.

Il confronto con la Spagna, Paese che come l’Italia ha registrato con la recessione una caduta del Pil del 10%, può essere una bussola utile per orientarsi. Perché Madrid e Roma vivono ora storie differenti, come nota Paolo Ciocca in un “Focus” del Servizio studi Bnl: la Spagna ha quasi recuperato quanto perso, il ritardo dell’Italia è prossimo all’8%. I motivi? Madrid «ha prima di tutto tratto beneficio da una politica fiscale espansiva. Dallo scoppio della crisi, il saldo primario di bilancio italiano è stato quasi sempre positivo, mentre la Spagna ha registrato un persistente disavanzo. In otto anni, in Italia, la politica fiscale restrittiva ha prelevato dall’economia oltre 160 miliardi di euro per destinarli al riordino dei conti. Al contrario, il governo spagnolo ha immesso nell’economia più di 450 miliardi per stimolare la crescita».

Strade diverse. Ma non solo a motivo di come è stata orientata la finanza pubblica. La migliore performance spagnola negli ultimi 15 anni, sottolinea Ciocca, trae origine nella robusta dinamica della produttività che, misurata per ora lavorata in termini reali, è cresciuta del 15% tra il 2000 ed il 2015, mentre in Italia è rimasta invariata. «Tutto questo è il risultato di diversi fattori come, ad esempio, una politica di investimenti più orientata al lungo periodo. La Spagna, però, tra beneficio anche da un capitale umano che appare più adeguato alle sfide del nuovo scenario, con circa un terzo della popolazione con un’età compresa tra i 15 e 64 anni in possesso di una laurea mentre in Italia ci si ferma al 15%». Gap ampio anche tra i più giovani: nella fascia di età 25-34 anni, 25% di laureati in Italia, 40% in Spagna. Non che la Spagna abbia superato tutti i problemi (tasso disoccupazione in discesa più rapida ma sensibilmente ancora più alto di quello italiano), ma certo entra nel 2017 con qualche certezza in più rispetto all’Italia. Di questi tempi non è poco.

@guidogentili1

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