Commenti

Infrastrutture chiave di volta per la crescita dell’Europa

  • Abbonati
  • Accedi
L'Editoriale|Global view

Infrastrutture chiave di volta per la crescita dell’Europa

Nel 2016 si è parlato spesso di fine della crisi ma anche del rischio di una stagnazione secolare, di grandi progressi scientifici e tecnologici ma anche della crescente divaricazione tra Nord e Sud, del benessere in molti Paesi sviluppati ma anche dei movimenti migratori di grandi dimensioni verso gli stessi.

Si tratta di problemi politici, sociali ed economici di grande portata che delineano molte contraddizioni dalle quali emergono anche preoccupanti fenomeni di neo-protezionismo e populismo, anche in Europa. Un continente culturalmente e socialmente civile dove la crisi ha lasciato però profonde crepe economiche che mettono a rischio la sua tenuta istituzionale. Nello scenario mondiale si sta diffondendo la consapevolezza che la globalizzazione non ha certo risolto tutti i problemi e che la radicale divaricazione tra finanza ed economia reale rappresenta una pesante incognita sulla stabilità della crescita. Le risposte in positivo, che rifiutano il dualismo tra finanza libertaria e chiusure nazional-politiche, sono molte e tra queste spiccano le istanze di un maggior coordinamento socio-economico internazionale. Non ci riferiamo solo alla Agenda 2030 approvata dalla Assemblea generale dell’Onu nel 2015 e nella quale si fissano grandi obiettivi dei prossimi 15 anni per uno sviluppo sostenibile. Non meno importanti sono stati i recenti G20 (ma anche l’Ocse, l’Fmi, la Banca Mondiale, ecc.) tenutisi in Turchia e in Cina, che hanno evidenziato un tema che per noi è centrale: quello del governo e degli investimenti in infrastrutture per diffondere lavoro e benessere, crescita e sostenibilità.

Dal G20 potrebbe derivare un “coordinamento dell’economia mondiale” perché i Paesi partecipanti coprono l’80% del Pil mondiale e perché gli accordi tra 20 Stati potrebbero avere più concretezza di quelli tra 190 Stati. I “realisti” valuteranno utopici questi programmi sottovalutando così la portata dei movimenti migratori e il potenziale esplosivo della miseria.

Al contrario di Christine Lagarde, che sintetizzando l’intonazione del G20 in Cina, ha affermato: «La crescita è stata troppo bassa e troppo a lungo è andata a vantaggio di troppo pochi».

Infrastrutture su scala mondiale

Una necessità per lo sviluppo mondiale emerge dalle carenze infrastrutturali di rete evidenziate da varie ricerche tra cui quelle (notevoli anche per la loro continuità) del McKinsey Global Institute. Lo stesso istituto valuta, ad oggi, in 2.500 miliardi di dollari gli investimenti annui su scala mondiale (su un totale di circa 20mila miliardi) in trasporti, energia, acqua e telecomunicazioni e stima in almeno 3.300 miliardi di dollari quelli annui necessari fino al 2030 per tenere il passo del trend di lungo periodo della crescita del Pil mondiale. Le dimensioni degli investimenti crescono di molto se si tiene conto delle necessità di sviluppo sostenibile contenute in Agenda 2030 dell’Onu e se si includono sia gli ammodernamenti per la resilienza e l’ecocompatibilità delle infrastrutture esistenti sia le infrastrutture sociali e immateriali (scuole e ospedali, ricerca e istruzione, ecc.) sia un recupero del divario infrastrutturale dei Paesi del Sud del mondo. Le infrastrutture dovrebbero anche aumentare la loro produttività di servizio utilizzando le innovazioni tecnoscientifiche e generando così anche notevoli risparmi ed economie esterne.

Questi progetti richiedono ovviamente grandi finanziamenti pubblici e privati con sempre più accentuati partenariati e con adeguate garanzie per gli investitori privati. Un ruolo molto importante spetta qui alle banche multilaterali di sviluppo. Colossi come la Bei (un pilastro dell’economia reale della Ue attivo dal 1958), la Ibrd (Gruppo Banca Mondiale), la Adb (Asian Development Bank), la Aiib (Asian Infrastructure Investment Bank, recentemente varata dalla Cina), la Bers (Banca Europea per lo sviluppo) sono già in consultazione e cooperazione e recentemente, con altre, hanno sottoscritto una dichiarazione di comuni obiettivi.

Quanto ai capitali privati dei soli investitori istituzionali (assicurazione, fondi pensione, fondi sovrani, ecc.) si stima che raggiungano 120mila miliardi di dollari alla ricerca di rendimenti di medio-lungo termine a basso rischio.

L’Europa: forza e fragilità

Nel contesto internazionale la Ue è una media potenza ma non per gli aggregati economici che competono con quelli degli Usa e della Cina. La sua debolezza deriva sia dal sistema istituzionale per l’assenza di un forte governo confederale o federale sia dall’indebolimento subito durante la crisi. Sono tuttavia ancora l’economia e l’euro che tengono unita la Ue e la Uem ed è per questo che bisogna rilanciarla anche per contenere i populismi e i neo-protezionismi.

Per l’Ocse, la Uem nei prossimi due anni crescerà poco sopra l’1,5% medio (ovvero la metà del mondo e degli Usa) con la Ue più vicina al 2%. Urge pertanto un forte stimolo fiscale sia cambiando la composizione della spesa da spostare sugli investimenti sia riducendo la tassazione sui fattori di produzione. La qualità della spesa va considerata (con quella delle riforme strutturali) nell’applicare le regole del Patto di stabilità e crescita per arrivare a una “golden rule” durevole che escluda dai deficit le spese per investimenti. I Paesi con ampi surplus di bilancio e commerciali devono investire di più, in tal modo aumentando la loro crescita e trascinando quella degli altri Paesi della Uem e della Ue.

In questo scenario spicca l’azione del presidente della Commissione Juncker che in poco più di due anni ha fatto molto (rispetto al passato) nelle direzioni indicate e anche recentemente con la proposta “Towards a positive fiscal stance for the euro area” ha insistito sull’urgenza di una politica pro-crescita euro-coordinata con un sostegno agli investimenti pubblici e un impulso aggregato pari allo 0,5% del Pil della Uem stessa, concretizzato dai Paesi (Germania in testa) che hanno surplus di bilancio (enormi).

Piano Juncker, investimenti, EuroFondi

Il crollo degli investimenti totali nella Ue e nella Uem durante la crisi è stato infatti drammatico perché da una quota sul Pil di circa il 23,5% nel 2007 si è scesi al 19,5% nel 2016 e nelle previsioni dell’Fmi solo nel 2021 si risalirà al 21%. Intanto, a livello mondiale, la quota è sempre stata tra il 25% e il 26%. Rispetto al trend storico nel 2016 mancano all’appello circa 300 miliardi annui di euro di investimenti.

Queste cifre spiegano lo scetticismo sul Piano Juncker per gli investimenti che è partito nel 2015 con una dotazione di 21 miliardi di euro e con un supposto moltiplicatore di 15, così da determinare in tre anni 315 miliardi di investimenti. Bisogna però riconoscere che questo piano, migliorabile e potenziabile, ha notevoli pregi organizzativi e qualitativi.

Dal punto di vista qualitativo e organizzativo il varo del “Fondo europeo per gli investimenti strategici” operante in partenariato con la Bei e con la Commissione europea, mobilita finanziamenti pubblici e privati. La garanzia della Commissione europea sui prestiti Bei le consente di finanziare progetti “addizionali” più rischiosi dei suoi standard. Importante è anche l’istituzione del “Polo di consulenza per gli investimenti” che opera dentro la Bei per l’assistenza alla preparazione e allo sviluppo dei progetti. Importante infine è il coinvolgimento delle Banche di sviluppo nazionali (in Italia Cdp) a sostegno dei progetti.

Dal punto di vista quantitativo nel primo anno sono stati approvati progetti che si stima mobilitino 115 miliardi di euro di investimenti, che sono in linea con le previsioni. Positiva è perciò la proposta della Commissione europea per un raddoppio del Piano Juncker portando la dotazione del Feis a 36 miliardi che dovrebbero generare entro il 2020 un totale poliennale di 500 miliardi di investimenti sia in infrastrutture pubbliche, che in imprese, che in tecnoscienza.

È ancora poco rispetto alle necessità di reti infrastrutturali europee alla quali applicare anche i progressi della tecnoscienza, che a sua volta necessita di crescenti investimenti. Il bilancio comunitario annuale rimane debole intorno all’1% del Pil della Ue. Delors nel 1993 propose gli eurobond che dopo 25 anni non sono ancora varati e che adesso sono a portata per i Fondi (Esm e Feis) disponibili che faciliterebbero anche il rientro della Bce dal quantitative easing.

Una conclusione: il G20 tedesco

Gli anni a venire saranno difficili per il mondo e per l’Europa con il rischio che l’eccesso di globalizzazione finanziaria danneggi lo sviluppo reale. Anche in Europa incombono neo-protezionismi e neo-populismi per fronteggiare i quali molto conterà la Germania che nel luglio del 2017 ospiterà il G20. Anche in quella occasione la cancelliera Merkel, vicina al quarto mandato, dovrà spiegare se vuole davvero l’eurointegrazione. L’Europa è un continente civile, che potrebbe essere molto solido se rilanciasse la solidarietà creativa che abbia tra le sue priorità economiche anche le “infrastrutture materiali e immateriali” al servizio delle persone e delle comunità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© Riproduzione riservata