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L’abbaglio degli analisti prima e dopo Donald Trump

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L'Analisi|l’analisi

L’abbaglio degli analisti prima e dopo Donald Trump

Neanche tre mesi fa i grandi money manager americani intervistati da Barron’s dipingevano uno scenario poco esaltante per Wall Street e l’economia americana. La borsa, dicevano, sarebbe salita sì e no del 9% nei successivi 15 mesi, cosicché l’indice S&P, che al tempo del sondaggio viaggiava a 2.133 punti, sarebbe salito a fine 2017 a 2.344. Decisamente bullish (ottimista, rialzista) su Wall Street s’erano dichiarati il 12 % dei 118 intervistati, una percentuale tre volte inferiore ai pessimisti. Vero che gran parte degli esperti aveva pronosticato un miglior comportamento delle azioni rispetto ai titoli di Stato, ma la gran parte di loro s’immaginava un rendimento del titolo decennale poco sopra il 2% a fine 2017, ovvero 60 centesimi meno di quanto se lo sarebbero invece ritrovato solo 2 mesi e mezzo più tardi.

Insomma, non hanno indovinato pressoché nulla. Facile dirlo con il senno di poi, si dirà, poiché nel frattempo è cambiato il mondo con l’avvento del fenomeno Trump. Orbene, il 15 ottobre, quando Barron’s pubblicò in copertina il suo tradizionale sondaggio, di Donald Trump si conoscevano perfettamente le idee: le quali, se si eccettua il taglio delle tasse che istintivamente piace a tutti, erano semmai considerate pericolose per l’economia. Molto meglio la tranquilla continuità promessa da Hillary Clinton, pensavano i money manager, mentre a quasi nessuno dei 118 intervistati veniva in mente che a diventare presidente degli Stati Uniti sarebbe stato proprio Trump, che i sondaggi davano al 40%, contro il 60% della Clinton.

Dall’inchiesta di Barrons, Wall Street è intanto cresciuta del 7% e per toccare i 2.344 punti immaginati per fine 2017, manca solo un 3%, che non tarderà a venire. Nel frattempo, il rendimento del Treasury è volato dall’1,7% al 2,6%, un livello che i grandi investitori non s’immaginavano nemmeno per il 2021, il dollaro, creduto più o meno stabile, è salito ai massimi da 14 anni, e le borse dei Paesi emergenti, che sarebbero state quelle più interessanti dopo Wall Street, sono finite in ribasso del 6%. Invece le più vituperate borse europee, quelle su cui scommetteva una esigua parte degli investitori (14%), sono cresciute tanto quanto Wall Street, e quelle d’eurozona (per intenderci dell’area che, nell’immaginazione collettiva degli operatori americani, è destinata al fallimento monetario e alla bancarotta di tutte le sue banche), sono cresciute ancor di più.

Oggi, a sentire i grandi broker internazionali, il 2017 sarà un buon anno per le borse: sicuramente per Wall Street che potrebbe salire del 5-10% e forse anche per i mercati europei, se non altro perché sarebbero rischiarati da luce indiretta. Basta dare uno sguardo ai corposi report, quelli che le maggiori banche e le grandi case d’investimento producono a dicembre, per avere un’idea di quanto entusiasmanti siano le prospettive. Cos’è cambiato rispetto a due mesi e mezzo fa? L’avvento di Trump e della “sua” economia: quella che spaventava i mercati fino all’election day dell’8 novembre e che li ha invece eccitati a partire dal giorno dopo. Perché con il tocco taumaturgico di Trump, l’economia tornerebbe a volare come nei ruggenti anni ’90, gli utili societari lieviterebbero (e forse lo faranno davvero ma solo in virtù del molto minor carico fiscale) e l’America tornerà grande, anche a dispetto delle disgrazie d'eurozona e dei probabili venti di crisi sulla Cina e buona parte dei Paesi emergenti. Ed ecco che l’obiettivo immaginato per l’indice S&P500 per fine 2017 viene di giorno in giorno spostato sempre più in alto ed ora s’aggira tra 2450 e 2500 punti, ossia un bel 10% in
più di adesso.

Che il dollaro ai massimi da 14 anni sia un freno all’economia americana, perché renderebbe meno competitive le esportazioni e perché i risultati delle multinazionali tradotti da valute indebolite finirebbero per pesare sul conto economico delle maggiori imprese, sembra non contare nulla. Come non pare preoccupare la forte salita dei rendimenti (e il probabile maggior rialzo dei tassi Fed), quando per anni s’è sostenuto che le azioni erano più interessanti dei bond, proprio perché questi ultimi non rendevano più nulla. Infine, non turba minimamente la prospettiva di dazi doganali che frenerebbero il commercio internazionale. La rivoluzione di Trump per la massa degli operatori di Wall Street avrebbe cambiato il “paradigma” dell’economia e conseguentemente dei mercati. Insomma le vecchie regole non valgono più nulla: come si diceva alla fine degli anni 90, con la new economy di Internet, o come si credeva tra il 2006 e il 2008, quando il nuovo paradigma lo si appiccicava alle alchimie della finanza e alle “innovazioni” nell’attività bancaria.

Se si vuol credere alle previsioni dei cosiddetti esperti, si prendano pure per buone le “raccomandazioni” delle grandi case d’investimento, con l’avvertenza che queste riflettono però più il sentiment del momento che un razionale (e poco prevedibile) sviluppo delle cose. Ed ora quel sentimento è alle stelle e sconfina in una diffusa euforia. L’ultimo avvertimento è diffidare dal generale consenso: perché quando tutti pensano o dicono di pensare allo stesso modo, significa che il mercato ha già scontato gran parte le presunte buone notizie ed è assai probabile che la tendenza sia alla fine.

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