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Un patto verso l’industria 4.0

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progetti per la ripresa

Un patto verso l’industria 4.0

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Dopo l’accordo raggiunto il 26 novembre scorso da Federmeccanica con le tre centrali sindacali sul contratto dei metalmeccanici, che ha segnato una svolta nelle relazioni industriali, l’incontro del 7 dicembre tra Confindustria e i sindacati confederali ha lanciato la prospettiva di dar vita a un “Patto per la fabbrica”.

Il “Patto” è lanciato dalla Confindustria, al fine di assecondare, sulla base di un impegno comune, la transizione verso la “produzione 4.0”, per stare al passo con la quarta rivoluzione industriale imposta dall’avvento del digitale.

Si è andato così delineando un “Progetto Paese”, con al centro la “questione industriale”. E ciò al fine di promuovere una crescita dell’economia e dell’occupazione, essenziale per contrastare le diseguaglianze sociali e il rischio di un ulteriore processo di impoverimento, che, tra il 2005 e il 2015, ha investito le famiglie operaie (fra le quali la povertà assoluta si è triplicata) e una parte dei lavoratori in proprio.

Le cause del declino subìto dall’industria italiana vanno addebitate non soltanto alle micidiali conseguenze della Grande crisi esplosa nel 2008. Esse risalgono anche a una politica economica, priva della necessaria coerenza e incisività, con cui in Italia si è affrontata nei primi anni del nuovo secolo la duplice pressione competitiva proveniente tanto dai Paesi emergenti (avvantaggiati da pratiche di dumping) per taluni articoli tipici del made in Italy quanto da alcuni nostri concorrenti europei, assai più attrezzati in fatto di capitali e tecnologie. Per giunta, avevamo finito intanto per gettare al vento alcuni risultati acquisiti in settori d’avanguardia (dall’elettronica alla chimica, dalla metalmeccanica all’information technology, all’energia nucleare); mentre la capacità di attrarre investimenti diretti dall’estero seguitava a incontrare ostacoli d’ogni sorta, sia per un’eccessiva pressione fiscale sulle imprese, sia per le rigidità del mercato del lavoro, sia ancora per certe fitte ragnatele burocratiche e un’insufficiente qualità dei servizi.

In quegli anni, per creare nuove fonti finanziarie che agevolassero la capitalizzazione delle Pmi, Confindustria aveva patrocinato, d’intesa con l’Associazione bancaria italiana, la creazione di alcuni fondi d’investimento convenienti quanto a tassi e condizioni operative. A loro volta, per dare più slancio al made in Italy, varie Associazioni territoriali e di categoria avevano incoraggiato le imprese a sviluppare iniziative “a grappolo” e a “reti lunghe”; e a stabilire, in collaborazione con Confindustria, una serie di missioni commerciali in numerosi Paesi esteri. Senonché, quel che mancava da parte del governo era una politica industriale consona ai mutamenti di ordine strutturale succedutisi nel frattempo. L’ultimo provvedimento di rilievo era consistito, a metà degli anni Ottanta, in una legge a sostegno del settore aerospaziale e di quello dell’elettronica. Naturalmente, non si trattava di riesumare l’interventismo pubblico (del resto messo al bando dalle direttive europee), bensì di attuare, in base a un’analisi delle prospettive dei diversi settori d’attività, quali fossero le misure più appropriate per creare un contesto idoneo alla maturazione di nuovi fattori di sviluppo, tramite una programmazione degli obiettivi da raggiungere. Ma il piano “Industria 2015”, varato nel 2006 dal governo Prodi, era rimasto poi sulla carta nel mezzo delle difficoltà incontrate alle Camere dalla risicata maggioranza parlamentare dell’Ulivo.

Di conseguenza, mentre non si era tracciato un nuovo Piano energetico nazionale, lo stesso era accaduto per quanto riguardava l’elaborazione di un disegno di politica economica per il Mezzogiorno, che avesse per focus la realizzazione di progetti a medio-lungo termine finanziabili in parte con i fondi regionali europei. Né si era tenuta in debito conto l’esigenza di introdurre particolari incentivi per lo sviluppo delle telecomunicazioni, della “banda larga”, della chimica verde, della logistica, dei trasporti e delle infrastrutture immateriali. Oltretutto, non si era provveduto a stabilire adeguate normative per regolare l’esercizio di alcune produzioni con una sicura tutela della salute e dell’ambiente.

Da parte sua, la Ue aveva eliminato o ridotto i dazi d’ingresso nei riguardi dei colossi asiatici e di altri Paesi dell’Estremo Oriente, senza reali garanzie di reciprocità. Né s’era preoccupata di tutelare sufficientemente i diritti di proprietà intellettuale su alcuni brevetti europei.

Dato questo stato di cose, è evidente perciò come l’industria italiana abbia finito col perdere, durante la prolungata recessione in corso negli ultimi sette anni, circa un quarto della sua capacità produttiva, malgrado la “resilienza” opposta da tante imprese, riuscite in un modo o in un altro a puntare i piedi.

Adesso occorre pertanto risalire decisamente la china, per mantenere il nostro secondo posto in Europa nelle esportazioni, e farlo sia in sintonia con sostanziali innovazioni tecnologiche e organizzative sia in base a una salda cooperazione fra i due principali attori del mondo della fabbrica, imprenditori e sindacati. Inoltre, per accrescere gli investimenti e irrobustire il sistema produttivo, sarà necessario un concreto apporto da parte delle banche e una sagace politica economica del governo. In conclusione, è questa la sfida cruciale che ci attende nel 2017 se vogliamo scongiurare il pericolo di una strisciante deindustrializzazione del nostro Paese.

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