La ridda delle sigleper definire le strutture di ospitalità degli immigrati è così vorticosa che racconta, da sola, la storia tormentata dell’accoglienza in Italia. Termini vecchi e nuovi, da chiarire una volta per tutte: perchè c’è una grande differenza, per esempio, tra un Cie e un Cpa.
Le strutture invocate dall’Europa. I più giovani a nascere, sollecitati a gran voce da Bruxelles fino a inviarci i loro consiglieri per controllare che tutto fosse ok, sono gli hotspot. In italiano, meno sintetico ma più chiaro, si tratta di aree attrezzate di sbarco, le prime dove i migranti, dopo essere stati soccorsi e giunti in porto, sono accolti. Lì i fanno i controlli con le forze di polizia, le organizzazioni non governative danno istruzioni e orientamenti sui diritti e le possibilità discelta. Gli hotspot furono reclamati dall’Ue per garantire l’identificazione e i rilievi fotografici e delle impronte digitali degli stranieri sbarcati. In queste strutture i migranti non possono stare più di 48 ore, il termine può allungarsi ma solo di qualche giorno, al massimo, perchè il ricambio di arrivi e partenze è alto. Sono presenti a Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto. Non è escluso che ne possa sorgere qualche altro. Certo è che l’Italia ha risposto all’iniziale procedura di infrazione di Bruxelles sulla mancata identificazione degli stranieri con le percentuali di rilievi e fotosegnalamenti: sfiorano il 100% degli arrivi. Tanto che la procedura di infrazione è stata ritirata.
La prima accoglienza. Sbrigate le procedure negli hotspot, i migranti possono finire nelle strutture vecchie e nuove allestite dal sistema del ministero dell’Interno. Un processo governato dal dipartimento di Ps, guidato da Franco Gabrielli,per l’impiego delle forze dell’ordine - trasferimenti, verifiche, controlli - e da quello Libertà civili e immigrazione, diretto da Mario Morcone, che coordina il sistema di accoglienza. Oggi la stragrande maggioranza delle destinazioni per i migranti in arrivo riguarda le cosiddette strutture temporanee: chiamate anche Cas (centri di assistenza temporanea), quasi sempre di piccole dimensioni, ma ormai numerosissime, circa 6mila700. Le strutture temporanee sono di privati così come la gestione, affidata dai Comuni ai soggetti specializzati. Nel sistema di prima accoglienza però c’è ancora un nucleo di centri appartenti allo Stato dove tuttavia la gestione è sempre in affidamento all’esterno. Sigle comunque ormai vecchie perchè si tratta di immobili grandi, spesso troppo - come quello di Cona - dove il rischio di inefficienze è più alto. Si tratta dei Cara (centri accoglienza per i richiedenti asilo), Cpa (centri di prima accoglienza), Cpsa (centri di primo soccorso e accoglienza). L’intenzione - il processo è già in atto - è di dismetterli al più presto per utilizzare modelli più snelli.
L’architettura di riferimento: lo Sprar. Il sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati è in capo ai Comuni con progetti finanziamti dallo Stato e, soprattutto, contiene il pezzo mancante negli altri centri: l’integrazione. Nello Sprar c’è lo studio della lingua italiana e processi per portare i migranti a essere più autonomi.
I centri per i clandestini. I migranti senza requisiti per fare la domanda di protezione internazionale, in sostanza i clandestini, dovrebbero essere destinati nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, una volta chiamati Cpt (centri di permanenza temporanea). Luoghi di detenzione, in attesa di essere rimpatriati.
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