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Carceri e web «scuole» di jihadismo

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Carceri e web «scuole» di jihadismo

La cattiva notizia è che sono le carceri e il web i luoghi dove stanno crescendo i percorsi di radicalizzazione, in aumento tra i giovanissimi e le donne. La buona notizia è che in Italia «le dimensioni numeriche della radicalizzazione sono minori che in altri Paesi, ma questo non ci deve indurre a sottovalutare». Parola del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che ieri a Palazzo Chigi ha incontrato con il ministro dell’Interno Marco Minniti la commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista coordinata da Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull’estremismo presso il Center for Cyber and Homeland Security della George Washington University.

La task force di esperti in quattro mesi ha consegnato una relazione organica che fornisce da un lato una griglia interpretativa del fenomeno jihadista nel nostro Paese e dall’altro linee guida concrete per una strategia di prevenzione della radicalizzazione e di de-radicalizzazione. Indispensabile, oggi, per combattere il terrorismo. Gli esperti lo mettono nero su bianco: non basta la sola repressione, pur efficace, a colpi di arresti ed espulsioni (ieri è toccato a un tunisino 26enne residente a Ravenna, che porta a 134 il totale degli espulsi per terrorismo da gennaio 2015).

Dall’Italia provengono «110 foreign fighters, un numero inferiore rispetto a Germania, Francia o Belgio», sottolinea Vidino. Le dinamiche assomigliano a quelle che si riscontravano altrove 5-10 anni fa, ma guai a cullarsi sugli allori. Perché i segnali di un aumento del rischio ci sono tutti. «Bisogna lavorare alla deradicalizzazione incanalando queste persone in un percorso di integrazione», ha sottolineato Minniti. «Una grande democrazia non lascia mai nulla di intentato sul tema del recupero. I foreign fighters che non vogliono deradicalizzarsi spettano invece alle forze di sicurezza». Il ministro ha ribadito: «In questo momento sarebbe la cosa più sbagliata fare un’equazione tra immigrazione e terrorismo». E ha contestato la definizione dell’Italia come “porta girevole del terrorismo”: «Il nostro è un sistema che funziona, ma che può essere migliorato».

Le prigioni giocano un ruolo cruciale nella diffusione dell’ideologia jihadista, come insegna il caso di Anis Amri, l’autore della strage di Berlino, la cui radicalizzazione sembra essere avvenuta nelle carceri siciliane. Su oltre 58mila detenuti, 373 sono tenuti sotto controllo e altri 272 sorvegliati anche dopo la scarcerazione. «Il monitoraggio c’è», spiega Vidino. «Quello che serve è prevenzione e deradicalizzazione. Le prigioni sono uno degli elementi di un discorso più ampio di interazione tra lo Stato e le comunità islamiche». Che finora in carcere è proceduto a rilento: il protocollo siglato a fine 2015 dal ministero della Giustizia con l’Ucoii per l’accesso degli imam dietro le sbarre si è arenato spesso davanti alla difficoltà di selezionare adeguatamente le guide spirituali da inviare tra i detenuti. L’altra grande area grigia è la rete. «Negli ultimi anni si è assistito alla crescita di una embrionale comunità jihadista italiana sul web, in particolare su alcuni social network», avverte la commissione. L’attività si sta espandendo su sistemi di messaggistica come Telegram. E preoccupa, fa notare Vidino, anche per l’attrattività che esercita su minori (pure 12-13enni) e donne. «Io lo chiamo il malware del terrore», ha affermato Minniti, contro il quale ritiene necessario «costruire una rete protettiva frutto di una cooperazione internazionale tra governi e grandi provider».

Dalla Lega è partito l’attacco al premier. «Quel genio di Gentiloni - ha detto il leader della Lega Matteo Salvini - si è accorto che il terrorismo e l’estremismo islamico fanno proseliti fra i detenuti stranieri. Bisogna mandare i condannati immigrati a scontare la pena nei loro Paesi! E per chi resta, come in Austria, lavoro obbligatorio». La ricetta suggerita dagli esperti è però più complessa, e prevede azioni a tutti i livelli (dalla comunità musulmana in generale ai singoli radicalizzati) per contrastare il richiamo del messaggio jihadista. Con il coinvolgimento di tutti gli attori, da quelli tradizionali dell’antiterrorismo (forze dell’ordine, intelligence, magistratura) ai servizi sociosanitari, la scuola, la polizia locale.

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