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Se Trump è pro business ma non pro mercato

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Populismi/ 2

Se Trump è pro business ma non pro mercato

(Ap)
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Appena eletto era difficile prevedere cosa avrebbe fatto il neo Presidente Trump. Nella campagna elettorale aveva detto tutto e il contrario di tutto: da una tariffa del 50% sulle importazioni cinesi alla reintroduzione della separazione tra banche commerciali e d’investimento, da un uso aggressivo dell’antitrust all’abolizione in toto di Dodd-Frank, la regolamentazione finanziaria introdotta dopo la crisi. Dopo due mesi, è chiaro che la politica industriale di Trump sarà pro business, ma non pro market.

Sembra una sfumatura, ma è una differenza fondamentale. Una politica pro business favorisce le imprese esistenti a scapito di quelle future. Una politica pro market favorisce le condizioni affinché tutte le imprese possano prosperare, senza alcun favoritismo. Una politica pro business difende le imprese nazionali con tariffe e trattamenti di favore.

Una politica pro market apre il mercato interno alla competizione internazionale perché questa apertura beneficia non solo i consumatori, ma nel lungo termine le imprese stesse, che imparano ad essere competitive sul mercato, invece che a prosperare grazie a protezioni e aiuti statali. Una politica pro business chiude un occhio (spesso anche due) quando le imprese inquinano, evadono e defraudano i consumatori. Una politica pro market cerca di ridurre il peso fiscale e regolamentare, ma si assicura che le leggi siano applicate in modo uguale per tutti. Paradossalmente una politica pro business finisce per danneggiare non solo l’economia, ma alla lunga la maggior parte delle stesse imprese. Poco importa ai suoi sostenitori, perché quando i nodi vengono al pettine hanno già incassato miliardi. Angelo Mozilo, fondatore di Countrywide, la banca responsabile per una grossa fetta dei mutui tossici che portarono alla crisi del 2008, vive felice con i $600 milioni accumulati, nonostante i danni enormi della crisi finanziaria che ha contribuito a creare.

Durante la campagna presidenziale Trump aveva usato molti temi populisti. Il primo segnale che la sua politica non sarà né populista né popolare, ma rigorosamente pro business, è stata la scelta dei ministri. Trump aveva promesso di bonificare la palude di Washington dai lobbisti. In pochi avevano capito che lo avrebbe fatto rendendo inutili gli intermediari, perché avrebbe messo i più grandi lobbisti a capo dei ministeri: l’amministratore delegato di Exxon a capo della politica estera, un ex partner di Goldman Sachs al Tesoro, la figlia di un armatore ai Trasporti, un raider al Commercio, etc.

Il secondo segnale è stata la scelta dei presidenti delle più importanti agenzie governative. A capo dell’agenzia per l’ambiente (Epa) Trump ha messo un
avvocato che in Oklahoma aveva fatto causa all’Epa in nome dell’industria petrolifera. A capo della Security and Exchange Commission Trump ha scelto un avvocato esperto a difendere le società accusate di frode e corruzione internazionale. Se non bastasse, il nuovo presidente della Sec è sposato con una partner di Goldman Sachs, società che dovrebbe regolare.

Il terzo segnale è la minaccia di introdurre una “tassa di frontiera”, altro nome per una tariffa sulle importazioni. Questa tassa non solo risponderebbe ai desideri protezionistici di una parte dell’industria americana, ma fornirebbe anche risorse finanziarie per pagare la promesse riduzione delle imposte dirette. Sarebbe contraria alle regole della World Trade Organization (Wto). Ma Trump minaccia di fare uscire gli Stati Uniti dal Wto.

Il segnale peggiore, però, viene dal modo come Trump sta attaccando
e blandendo le imprese americane con i suoi tweet. United Technologies (UT) è stata lodata per aver deciso di cancellare la chiusura di un impianto di Indianapolis, che voleva trasferire in Messico. Apparentemente questa decisione è stata il frutto di benefici fiscali offerti dal Vice Presidente eletto Pence, ancora governatore dell’Indiana. In verità, sembra motivata dalla paura di rappresaglie sulle commesse statali, che rappresentano una grossa fetta dei ricavi di UT.

Paura giustificata visto che Boeing è stata attaccata da Trump per il costo (considerato eccessivo) del nuovo aereo presidenziale e Lockheed Martin per quello degli aerei F-35. Probabilmente Trump ha ragione su entrambi i fronti e questo non fa che aumentare la sua popolarità, ma un presidente dovrebbe affrontare questi problemi seguendo le regole e non con un’esecuzione sulla pubblica piazza mediatica.

In questa strategia, Trump usa sapientemente il bastone e la carota. Quando la casa automobilistica Ford è stata pubblicamente lodata per aver deciso di non costruire un nuovo impianto in Messico, il prezzo delle sue azioni è salito del 4.5 per cento. Ancora meglio hanno fatto le azioni di SoftBank (+6.2%) dopo esser stata lodata da Trump per aver investito $50 miliardi negli Stati Uniti.

Il motivo è semplice: Softbank possiede Sprint, un operatore mobile che vorrebbe fondersi con T-Mobile per aumentare il potere di mercato. L’autorizzazione a questa fusione sarà del nuovo capo della Federal Trade Commission, non ancora nominato da Trump. Ma i tweet di Trump alimentano le speranze di Softbank.

Ci aspetteremmo questi comportamenti da parte di un dittatore di una repubblica delle banane, non dal presidente eletto della più antica democrazia
al mondo.

La presidenza Trump si apre nel peggiore dei modi possibile per tutti coloro che, come me, credono ancora nel mercato.

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