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Il no alla globalizzazione minaccia il made in Italy

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Il no alla globalizzazione minaccia il made in Italy

Le elaborazioni compiute per Il Sole 24 Ore dalla società di consulenza Prometeia mostrano gli impatti potenziali che le scelte di politica commerciale e di politica industriale dell’amministrazione Trump potranno sortire su un Paese come l’Italia – piccolo ma non irrilevante, marginale ma non del tutto privo di una residuale allure strategica – nelle mappe del capitalismo globale.

Lo scenario di un impatto pre Wto, calcolato sull’ipotesi di un sistema di dazi che restauri appunto la realtà delle cose antecedente alla globalizzazione degli anni 90, fa il paio con gli effetti di un mutamento degli equilibri monetari, che potrebbero verificarsi nel momento in cui la Federal Reserve iniziasse – in maniera libera o in maniera forzata - ad assecondare una agenda economica all’insegna della rottura degli ultimi venticinque anni di policy americane, dal Washington Consensus alla Barack Economy.

Al di là delle singole stime, che come tutte le proiezioni rappresentano scenari futuribili e soprattutto suggeriscono ipotesi evolutive, il lavoro compiuto da Prometeia appare interessante perché mostra quanto stiano cambiando nel profondo – per effetto appunto di una politica monetaria che già prima dell’esito delle elezioni americane ha portato il dollaro verso la parità con l’euro e di una nuova politica commerciale che tende a disconoscere i trattati del free trade – i meccanismi dell’economia internazionale.

L’Italia è finora sopravvissuta grazie a una industria che con la globalizzazione si è misurata e che, in essa e grazie ad essa, ha avuto successo. Negli ultimi 25 anni i conti pubblici non sono stati messi sotto controllo, la pubblica amministrazione non è stata riformata, la giustizia civile ha mantenuto tempi allucinanti, tre regioni del Sud sono rimaste in mano alla criminalità organizzata che si è espansa al Nord e che ha nella ’ndrangheta una delle mafie più forti e aggressive al mondo, l’evasione e l’elusione fiscale restano fra i consumatori e gli imprenditori stili di vita e abitudini patologiche.

In tutto questo, il Paese non è crollato anche e soprattutto perché il suo sistema industriale ha sviluppato un buon rapporto con la globalizzazione. Il primo problema è che tutto questo è capitato dentro al paradigma della bipolarizzazione 20-80: il 20% delle imprese italiane ottiene l’80% del valore aggiunto e sviluppa l’80% dell’export. Dunque, già prima della diffusione dei nuovi populismi e dell’ascesa di Donald Trump, questa bipolarizzazione poneva più di una questione. Il secondo problema è che, con le pulsioni antiglobalizzazione che hanno preso piede non solo nella Vecchia Europa, ma che sono addirittura entrate alla Casa Bianca, si navigherà d’ora in poi in terra incognita. Sui mercati internazionali e nelle piattaforme della manifattura globale.

Per questa ragione, l’Italia non potrà più dare per scontato l’effetto combinato export-domanda internazionale-posizione mediana nelle global value chain che – per quanto nel degrado e nella decadenza della vita pubblica e sociale degli ultimi venticinque anni – l’hanno comunque tenuta in piedi. E se, a un certo punto, l’altro elemento strutturale che ha permesso al Paese di non implodere – ossia il fiume di liquidità della Bce – dovesse inaridirsi, a quel punto sarebbero davvero problemi per tutti.

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