È ancora una parte piccola dell’intero universo della finanza mondiale, forse meno del 3 per cento, ma sta crescendo rapidamente. È la finanza islamica, che secondo stime prudenziali ammonta a oltre 2mila miliardi di dollari, e presto arriverà a 3mila. La si conosce ancora poco, e forse talvolta è vista con qualche sospetto, anche se - chi vi lavora - assicura che nulla ha che spartire con i finanziamenti che affluiscono nelle casse dell’Isis.
Si basa su alcune interpretazioni del Corano, e il suo pilastro centrale è che dagli strumenti utilizzati non si possono ottenere interessi, ma partecipare agli utili (o le perdite) del progetto finanziato, e che bisogna effettuare investimenti socialmente responsabili o leciti (halal) e non rischiosi o puramente speculativi. Insomma, niente armi, alcol, droga, armi, sfruttamento delle persone, ma neppure hedge fund, derivati o cose simili.
Il suo strumento più noto sono i sukuk: sono certificati di investimento conformi alla Sharia, la legge islamica tradizionale, che proibisce il prestito a interesse. Sono un pò come l’equivalente delle obbligazioni, ma a differenza di queste devono corrispondere ad un certo progetto, di solito un progetto immobiliare o infrastrutturale. Quindi, mentre un’obbligazione convenzionale è una promessa di ripagare un debito, i sukuk sono costituiti della proprietà di una quota-parte di un investimento, asset o debito.
Se ne parla ormai in Italia diffusamente, come accaduto ieri nella sala del Mappamondo alla Camera dei Deputati, in un convegno che ha visto come moderatore il Questore, Stefano Dambruoso: «In questi ultimi anni, il settore della finanza islamica ha enormemente accresciuto le sue dimensioni fino a costituire un importante segmento dei mercati finanziari globali, per cui oggi essa rappresenta una considerevole opportunità per tanti operatori del settore». Ma il tema del rapporto con la finanza islamica parte da lontano, dal dialogo tra fedi e culture, dai comuni valori della pace e dell’armonia delle religioni, in particolare del ceppo abramitico.
«L’Italia ha un ruolo fondamentale per creare l’incontro con il mondo islamico, abbiamo un lungo rapporto di amicizia, e una comune visione aperta» dice Shaukat Aziz, ex Primo ministro del Pakistan, con alle spalle anche un lungo percorso di banchiere a Wall Street, e che ha rivelato di essere stato due volte in Vaticano. E dal Vaticano arriva Roberto Carulli, capo ufficio dell’Apsa (Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica), il dicastero della Santa Sede che ha in carico a proprietà e la gestione dell’immenso patrimonio immobiliare. «Con la finanza islamica ci accomunano i principi di fratellanza e di giustizia distributiva» e i divieti di investire in attività contrarie ai principi etici (con l’aggiunta di aziende attive nella contraccezione e nella ricerca sulle cellule staminali). Per Pierfrancesco Gaggi (Abi) la finanza islamica può rappresentare un ottimo polmone finanziario nel campo strategico degli Npl, e per Riccardo Monti (Italferr) un’ottima opportunità per le infrastrutture italiane.
Sul fronte della finanza vaticana, invece, da registrare una dichiarazione del direttore della sala stampa della Santa Sede, Greg Burke, il quale ha informato che il Papa ha voluto rafforzare il ruolo della Commissione Cardinalizia dello Ior (e non abolirla) come organo distinto e separato dal Consiglio di Sovrintendenza: da quest’anno, le riunioni si svolgeranno separatamente, per sottolineare la distinzione dei ruoli.
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