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Dossier Gli inconsolabili orfani dell’America

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Gli inconsolabili orfani dell’America

Nel suo libro del 1969 “La morte e il morire”, la psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross formulò la celebre definizione per le cinque fasi dell’elaborazione del lutto: negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. Dopo un tumultuoso anno che ha visto il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea e l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, molti versano in uno stato di lutto. Un profondo senso di perdita accompagna la consapevolezza che l’America potrebbe non rivestire più il ruolo di cuscino per la stabilità globale, apertura economica e progresso sociale.

Il lutto non segue una singola formula, ovviamente, ma dovendosi confrontare con questa nuova era di incertezza, politici, uomini d’affari e cittadini di tutto il mondo stanno attraversando alcune delle fasi – o forse tutte – dell’elaborazione del lutto. Questi sentimenti stanno indubbiamente diventando più acuti ogni giorno che passa dall’incendiaria presidenza di Trump. Ogni nuovo tweet improvvisato, ordine esecutivo e discorso inverosimile non lasciano più alcun dubbio: l’ordine internazionale o l’economia globale non supereranno indenni l’era Trump.

Peggio ancora, non c’è garanzia che un calcolo emotivo fornisca le soluzioni pratiche di cui necessita il mondo per combattere la tossica politica populista. Nelle ultime settimane, gli articoli di Project Syndicate hanno condiviso analisi che completano ciascuna delle fasi emozionali di Kübler-Ross. Considerarle nel loro insieme potrebbe svelare un percorso attraverso l’angoscia – e il caos trumpiano che l’alimenta.

Negazione
Sebbene i mercati finanziari siano stati (finora) frastornati dalla presidenza Trump, nonché una sua facile preda, un punto sottolineato dal leggendario investitore Seth Klarman, i commentatori di Project Syndicate non negano ciò che significherà Trump per la pace, la stabilità e la prosperità del mondo. Alcuni mettono in guardia contro il pensiero apocalittico, mentre altri continuano a sperare che si possano ancora compiere alcuni passi avanti su certe tematiche, malgrado gli ovvi pericoli posti da Trump.

Michael Mandelbaum della Johns Hopkins University School of Advanced International Studies, ad esempio, sostiene che è semplicemente troppo presto formulare un verdetto su ciò che la presidenza di Trump significherà per la democrazia americana. «I timori veementemente gridati di un incipiente (o reale) fascismo sono fuori luogo», scrive Mandelbaum. «Le istituzioni di base del governo americano sono sopravvissute a sfide ben più forti di qualsiasi eventuale sfida posta da Trump». In particolare, Mandelbaum è rassicurato dall’impegno continuo degli americani rispetto alle principali caratteristiche della democrazia rappresentativa quali «elezioni libere, eque e regolari e la tutela della libertà politica, religiosa ed economica», ed è convinto che Trump non sarà in grado di compromettere seriamente queste istituzioni.

Ngaire Woods, preside della Blavatnik School of Government di Oxford, è ottimista circa l’eventuale impatto internazionale di Trump quanto lo è Mandelbaum dei risultati di Trump a livello nazionale. Riconoscendo che gli Usa, con Trump, «hanno iniziato a esprimere un credo unilateralista, gettando nello sconforto molti paesi del mondo», c’è tutto il tempo, sostiene, «affinché Trump adotti una mentalità diversa, come è accaduto con il presidente Ronald Reagan 25 anni fa». Dopo la crisi di debito dell’America Latina, «Reagan iniziò a riconoscere quanto gli Usa avessero disperatamente bisogno di istituzioni internazionali, e adottò una posizione più moderata». Come Reagan, Woods crede che «la macchina degli accordi di Trump si scontrerà presto con alcune dure restrizioni», che potrebbero «illuminarlo».

Sebbene le prime settimane della presidenza Trump siano state dominate da un senso di crisi imminente, l’economia non sembra riflettere tale stato. Jim O’Neill, ex segretario al Commercio del Regno Unito ed ex presidente di Goldman Sachs Asset Management, segnala sei indicatori relativi a Stati Uniti, Cina, Germania e Corea del Sud per spiegare come l’economia globale stia ora evidenziando «una crescita più veloce in un certo numero di anni». Se così fosse, la domanda ovvia è perché. «Alcuni potrebbero dire che il trend è il risultato delle decisioni politiche prese da Stati Uniti e Regno Unito, ma forse rimarcherebbero il fatto che si sta verificando malgrado quelle decisioni», asserisce O’Neill. «Sfortunatamente, non ci sono indicatori in grado di fornire una risposta a questa domanda – solo il tempo potrà dirlo».

Altri osservatori di Project Syndicate vedono dei potenziali, seppur casuali, risvolti positivi per l’economia nelle proposte politiche di Trump. Gli sgravi fiscali e le misure di stimolo fiscale tanto sbandierati da Trump inciteranno la crescita e porteranno inflazione e un rafforzamento del dollaro. E come ci ricorda Carmen Reinhart dell’Università di Harvard, «una dose costante di inflazione anche moderata contribuirà a erodere le montagne di debito pubblico e privato accumulate dalle economie avanzate negli ultimi 15 anni».

In modo analogo, Daniel Gros, che dirige il Center for European Policy Studies, accoglie il potenziale per l’incremento della domanda negli Usa e nell’apprezzamento del dollaro, non da ultimo perché tutto ciò «incentiverà la crescita e l’occupazione in una zona euro in cui il malcontento economico sta generando trambusto politico». Inoltre, osserva Gros, «gli utili saranno più pronunciati nei Paesi che più ne hanno bisogno». E il co-presidente di Gavekal Dragonomics Anatole Kaletsky è dell’avviso che l’Europa, nel senso stretto del termine, abbia motivo di essere ottimista. «Un rebound economico e un periodo di forte performance finanziaria» nell’Unione europea, scrive, potrebbero essere la «più grande sorpresa del 2017».

Rabbia
Ma un mondo trumpiano è decisamente a somma zero, e le politiche del nuovo presidente stanno seminando tanta paura e indignazione all’estero quanto negli Usa. Il voltafaccia della reazione della Cina all’elezione di Trump è forse l’esempio più eclatante. All’inizio la Cina ha accolto molto positivamente la vittoria di Trump, fa notare Minxin Pei del Claremont McKenna College. «L’avvento dell’era Trump – insieme al voto sulla Brexit nel Regno Unito e all’ascesa del populismo di destra in altri Paesi europei – sembra annunciare il precipitoso declino dell’attrattiva ideologica della democrazia liberale». Mentre però «la deglobalizzazione sembra ora essere un dato di fatto» con Trump, probabilmente ciò si tradurrà in «un calo della crescita potenziale della Cina», questione che preoccupa sempre molto la leadership cinese ossessionata dalla potenziale instabilità domestica.

“L’avvento dell’era Trump – insieme al voto sulla Brexit nel Regno Unito e all’ascesa del populismo di destra in altri Paesi europei – sembra annunciare il precipitoso declino dell’attrattiva ideologica della democrazia liberale”

Minxin Pei, Claremont McKenna College 

«Ma ciò che realmente preoccupa la Cina sono gli scenari pessimistici», sostiene Pei. «L’interdipendenza economica tra Cina e Usa attutisce la loro rivalità geopolitica e ideologica», fa notare. «Se Trump dovesse perseguire nella sua minaccia di fare a pezzi gli accordi commerciali e unilateralmente imporre dazi punitivi», però, «il regime commerciale esistente andrà in fumo, con la Cina in testa tra le maggiori vittime». Di fatto, Trump ha «convinto la leadership cinese che non aspetta altro che un conflitto».

Allo stesso tempo, Andrew Sheng e Xiao Geng dell’Università di Hong Kong sostengono che il «rafforzamento del dollaro» che sembra essere dato per certo dalla presidenza di Trump, almeno per il momento, «non è una cosa buona per l’Asia». Sheng e Xiao sono convinti che un apprezzamento del dollaro non farà che inasprire i problemi delle economie emergenti che stanno già «soffrendo per la flessione dei prezzi delle commodity, che sono repressi a causa di una contrazione della domanda».

Ovviamente, le politiche di Trump incideranno anche negativamente sulla brutta situazione in cui versano molti americani della working class che hanno votato per lui. Come fa notare Nouriel Roubini della New York University, «l’apprezzamento del dollaro Usa dall’elezione potrebbe distruggere nel tempo quasi 400mila posti di lavoro nella manifattura».

Ma il nazionalismo “America First” di Trump probabilmente lo lascerà indifferente di fronte a tali argomentazioni. Come osserva Dani Rodrik di Harvard, gli istinti economici isolazionisti di Trump sono l’opposto di ciò che serve a un presidente americano. «Nella maggior parte delle aree economiche – imposte, politiche commerciali, stabilità finanziaria, gestione monetaria e fiscale – ciò che ha un senso da una prospettiva globale ha senso anche da una prospettiva domestica», osserva Rodrik. «L’economia insegna che i Paesi devono mantenere aperte le frontiere economiche, una solida regolamentazione prudenziale e politiche per la piena occupazione non perché facciano bene ad altri Paesi, ma perché servono ad allargare la torta economica domestica».

Invece che espandere la torta, però, il flirt di Trump con il protezionismo getterà scompiglio sugli Stati Uniti e sulle economie globali. Come dimostra J. Bradford DeLong dell’Università di Berkeley, i “fatti alternativi” di Trump sugli accordi commerciali che presumibilmente distruggono posti di lavoro come il Nafta, il North American Free Trade Agreement, sono smentiti dalla realtà. Secondo DeLong, il Nafta è «responsabile solo di una frazione davvero esigua di posti di lavoro persi nella manifattura americana negli ultimi 30 anni». DeLong, perplesso circa le soluzioni proposte da Trump per la difficile situazione dei lavoratori americani, suggerisce che, «è come se la strategia economica di Trump […] fosse stata concepita per ridurre ulteriormente l’occupazione nella manifatturiera in America».

“L’economia insegna che i Paesi devono mantenere aperte le frontiere economiche, una solida regolamentazione prudenziale e politiche per la piena occupazione non perché facciano bene ad altri Paesi, ma perché servono ad allargare la torta economica domestica”

Dani Rodrik, Harvard University 

Ovviamente, l’amministrazione Trump occulterà tale fatto. Come osserva Simon Johnson della Mit Sloan School of Management, il portavoce di Trump, Sean Spicer, si rifiuta persino di «dire quale sia il tasso di disoccupazione». E Trump stesso dichiara che il “vero” tasso di disoccupazione sia 42% – un dato gonfiato in modo ridicolo che include tutti gli americani fuori dalla forza lavoro, compresi studenti e pensionati. «Se Trump continuerà a non prendere decisioni basate sui fatti», avverte Johnson, lo zoccolo duro dei suoi sostenitori potrebbe iniziare a «subirne le conseguenze». Quando l’inflazione alle stelle eroderà i loro standard di vita, «Trump non darà la colpa alle sue politiche incoerenti e controproducenti finalizzate a rafforzare il dollaro», queste le previsioni di DeLong. «Darà la colpa a Cina e Messico».

Ma se la propaganda di Trump fallirà, i lavoratori americani potrebbero unirsi all’opposizione, che, secondo Jeffrey D. Sachs della Columbia University, sarà guidata dai millennial americani. Sachs si aspetta che la frustrazione dei giovani americani cresca negli anni a venire, dal momento che Trump desidera che «le imposte sulle imprese e le tasse sugli immobili vadano sempre a vantaggio dei ricchi anziani (ampiamente rappresentati nel gabinetto di Trump), a scapito di un incremento dei deficit di bilancio che graveranno sempre più sui giovani».

Mentre Sachs confida in un nuovo movimento politico in grado di rendere la presidenza di Trump una breve parentesi storica, «e non un punto di svolta», Ian Buruma del Bard College è meno ottimista. «Le manifestazioni anti-Trump avvenute nelle grandi città senza dubbio daranno noia al neo presidente che ha un’alta stima di sé», scrive. «Ma senza una reale organizzazione politica, una mera protesta farà la fine di Occupy Wall Street del 2011; perderà forza fino a trasformarsi in azioni inefficaci».

Negoziazione
Oltre a erigere barricate, le persone e i Paesi sono preoccupati per Trump possa invitare il sedicente capo dei negoziatori al tavolo delle trattative, oppure concludere accordi propri senza di lui. Come sostiene Mohamed El-Erian, capo consigliere economico di Allianz, «se Trump riuscirà a garantire la crescita elevata e la stabilità finanziaria che ha promesso, avrà bisogno di un po’ d’aiuto dall’estero». In particolare, Germania, Cina e Giappone dovranno unirsi agli Usa in una strategia coordinata pro-crescita, oppure gli investitori che detengono bond giapponesi e tedeschi a basso rendimento si rifugeranno nei bond Usa con rendimenti in rialzo. Questo, a sua volta, non farà che rafforzare ulteriormente il dollaro e svendere qualsiasi profitto derivante dalle politiche economiche di Trump.

Un’altra opzione per potenziare il trumpismo (almeno per gli americani) è semplicemente quella di tagliare completamente fuori l’amministrazione, attraverso quello che Laura Tyson dell’Università di Berkeley e Lenny Mendonca del Presidio Institute definiscono «federalismo progressista». Questa strategia implica «il perseguimento di obiettivi politici progressisti avvalendosi di una sostanziale autorità delegata ai governi subnazionali nel sistema federale Usa».

Anche se Trump non è disposto ad affrontare significativi problemi sociali ed economici, Tyson e Mendonca ci ricordano che ci possono tuttora pensare i governi locali e statali. Inoltre, uno stato grande e potente a livello economico come la California può opporsi all’amministrazione Trump, o strappare concessioni da questa, «rifiutandosi di mettere in pratica politiche federali che disapprova».

“Gli alleati asiatici dell’America dovrebbero prendere la situazione in mano e iniziare a creare una propria rete”

Anne-Marie Slaughter Ceo di New America e Mira Rapp-Hooper del Center for a New American Security 

A livello internazionale, gli alleati Usa si stanno anche certamente preparando a rinegoziare alcuni elementi della loro relazione con l’America, e tra di loro. Considerata la recente e burrascosa telefonata tra Trump e il primo ministro australiano Malcolm Turnbull, l’ex ministro degli Esteri australiano Gareth Evans era stato lungimirante quando scrisse, subito dopo l’elezione, che il governo del suo Paese non avrebbe più potuto «dare per scontata la coerente e brillante leadership americana». Per adattarsi a questa nuova era dell’incertezza, Evans consiglia all’Australia di «stringere legami più stretti sul fronte del commercio e della sicurezza con il Giappone, la Corea del Sud, l’India e soprattutto l’Indonesia, il nostro grande quasi-vicino».

Ricordando questo punto, il Ceo di New America Anne-Marie Slaughter e Mira Rapp-Hooper del Center for a New American Security sono dell’idea che, invece di «gettarsi nella disperazione, gli alleati asiatici dell’America dovrebbero prendere la situazione in mano e iniziare a creare una propria rete». Slaughter e Rapp-Hooper propongono un sistema multilaterale – una forma di contrattazione collettiva diplomatica – dove i piccoli alleati Usa che non potrebbero mai fronteggiare singolarmente gli Usa si uniscono per richiedere la trasparenza e il rispetto dei propri interessi nazionali.

Un’integrazione multilaterale più profonda sarà parimenti importante per gli alleati Usa in Europa. Mentre gli Usa venivano un tempo riconosciuti come “nazione indispensabile”, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer pensa che la Francia e la Germania dovranno ora condividere quel titolo. Dato che Trump ha messo in dubbio l’ombrello di sicurezza transatlantica degli Usa, Fischer prevede che l’Ue sarà costretta a occuparsi dei propri affari militari ed economici. Un accordo di questo genere implicherebbe un nuovo «compromesso su entrambi i versanti del Reno», laddove la Germania si occuperà delle questioni finanziarie e la Francia di quelle in materia di sicurezza.

Depressione
Anche se i governi subnazionali d’America e gli alleati stranieri potranno operare nelle agitate acque domestiche e internazionali dell’era Trump, il mondo sarà ancora alla deriva. E come avverte l’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio, «prima di tentare di tracciare una nuova rotta in avanti, dobbiamo farci largo tra acque più quiete». Sfortunatamente non è dato sapere quando accadrà. Tanto per iniziare, Richard Baldwin del Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra fa notare che i consiglieri economici di Trump hanno formulato una diagnosi errata per il problema che affligge i lavoratori americani focalizzandosi sul commercio, e non sull’automazione. Dato che i consiglieri di Trump si sentono disperatamente e moralmente in obbligo nei confronti del pensiero del ventesimo secolo, Baldwin lamenta il fatto che insisteranno con «l’imposizione di dazi, che arresterà le catene internazionali di fornitura, causando possibili guerre commerciali e spingendo l’industria Usa a spostarsi all’estero».

Certamente l’elezione di Trump ha scatenato un rally da record sulla borsa. Ma Roubini crede che «gli spiriti animali del mondo imprenditoriale potrebbero presto dar vita a una paura primaria». Gli investitori, a suo avviso, si renderanno ben presto conto, a prescindere dai potenziali utili a breve termine, che «le politiche incoerenti, vaghe e distruttive del presidente avranno un impatto negativo sulla crescita economica domestica e globale nel lungo periodo».

Il principale motivo di preoccupazione è l’interferenza di Trump nel settore delle imprese, dove ha già costretto aziende come Carrier e Ford a rivedere i propri piani di produzione all’estero. Come avverte Ashoka Mody dell’Università di Princeton, le azioni di Trump minacciano di «distruggere le norme e le istituzioni che governano i mercati», oltre ai «principi di trasparenza e giustizia». Nel valutare le inclinazioni politiche corporativiste e protezionistiche di Trump, Mody giunge alla conclusione che Trump «eroderà le istituzioni internazionali e le regole alla base dell’economia Usa e dell’economia mondiale, provocando ingenti danni a lungo termine».

Eppure, oltre alle previsioni economiche, nuvole ancor più nefaste si addensano sull’orizzonte politico. Dopo aver assistito alle prime settimane in carica di Trump, l’ex ministro delle Finanze polacco Jacek Rostowski è convinto che la nuova amministrazione «intenda ritornare all’agenda progressista-egualitaria» – e «non solo negli Stati Uniti, ma anche a livello globale». Rostowski sospetta che il capo stratega nazionalista di Trump, Stephen Bannon, «abbia il controllo politico e sia più interessato a creare un ’movimento’ populista permanente che a far rieleggere Trump». Se fosse davvero così, l’attuale amministrazione americana si sarà fatta terra bruciata, in casa e all’estero, prima che Trump ritorni una volta per tutte nel suo attico di Manhattan.

Accettazione
Accettando che questo scenario pessimistico sia una chiara possibilità, le persone preoccupate in ogni dove potrebbero almeno indurre i propri leader a iniziare a creare un piano per affrontarlo. Kaletsky intravede un risvolto positivo nel fatto che «l’elezione di Trump possa costringere gli americani a riconoscere i difetti della propria democrazia» e a «riorganizzare le energie per riformare il Collegio Elettorale», che ha al momento, per la seconda volta in questo secolo, eletto un presidente repubblicano che ha perso al voto popolare.

Per Andrés Velasco, ex ministro delle Finanze del Cile, c’è molto da imparare dalla storia del populismo economico dell’America Latina. Negli ultimi 75 anni, una lunga fila di leader nella regione, a partire da Juan Domingo Perón in Argentina, «si è buttata nel protezionismo commerciale, è incorsa in ampi deficit di bilancio, ha sovrastimolato le proprie economie, consentito un aumento dell’inflazione e alla fine ha registrato crisi valutarie». Come fa notare Velasco, i populisti possono sostenersi più a lungo di quanto ci si possa aspettare, grazie al fatto sconveniente che saranno assorbiti prima che il trumpismo possa essere effettivamente fronteggiato: «Le pessime politiche pagano, sia a livello economico che politico, molto tempo prima di diventare tossiche».

Attenendosi alla stessa logica dei suoi predecessori giustizialisti, Trump tenterà di mantenere la base dei sostenitori dalla sua parte conferendo loro un senso di status speciale, e una serie di sussidi, che andranno a scapito di altri. Alla fine, però, il debito non tarderà ad accumularsi, gli effetti delle sue politiche di stimolo si esauriranno e il suo spettacolo degli alternative facts soccomberà alla realtà. Gli americani della working e della middle-class che hanno votato per Trump avranno bisogno di qualcuno a cui rivolgersi quando il suo fascino si dissolverà.

“Le pessime politiche pagano, sia a livello economico che politico, molto tempo prima di diventare tossiche”

Andrés Velasco, ex ministro delle Finanze del Cile 

Sembra alquanto improbabile che i sostenitori di Trump, che si sono bevuti gli attacchi populisti sugli incentivi e sull’autorità degli “esperti”, possano stare a sentire degli accademici. Ma forse dovrebbero. «Forse politici, media e pubblico hanno ignorato la classe lavoratrice bianca», sostiene Helga Nowotny, ex presidente del Consiglio europeo della Ricerca, «ma gli scienziati sociali no». Nowotny vede un’immensa promessa nelle attuali indagini per scovare le cause della disuguaglianza, le radici del terrorismo e mille altre tematiche economiche e sociali che pesano fortemente su milioni di menti americane. Questa ricerca potrebbe produrre soluzioni reali lungo il percorso, purché nel frattempo sia appoggiata e difesa un’onesta analisi scientifica basata sui fatti.

Di parere simile è Parag Khanna della National University of Singapore che considera l’ascesa del populismo come «un sintomo del fallimento dei leader politici di affrontare le difficoltà economiche degli elettori», e propone un nuovo quadro di governance in grado di collegare i cittadini direttamente con le commissioni di esperti. Secondo Khanna, un sistema di questo genere di «tecnocrazia diretta» garantirebbe di consultare regolarmente i cittadini, di mettere in atto adeguatamente le politiche pubbliche e di utilizzare tutti i dati e il know-how a disposizione.

E Kemal Derviş, vice presidente del Brookings Institution, intravede un’alternativa potenziale al populismo di destra nella corsa indipendente di Emmanuel Macron per la presidenza francese di questa primavera. «La vittoria di Macron», suggerisce Derviş, «potrebbe lanciare una contro-tendenza al populismo che sta emergendo nel mondo, dando speranza a coloro che sono empatici con la sinistra o la destra, ma preoccupati del populismo e dell’iper-nazionalismo».

Infine, Sawomir Sierakowski, direttore dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, fa notare che c’è un gruppo che da tempo è sceso a patti e ha preparato un piano d’azione contro i pericoli posti da Trump e dai suoi amici populisti: le donne. «Di tutte le fonti di opposizione a Trump, solo le donne sono state in grado di organizzarsi in modo rapido ed efficiente», osserva Sierakowski. «La Marcia delle donne su Washington avvenuta lo scorso mese ha visto una partecipazione tre volte superiore all’affluenza registrata il giorno prima per l’inaugurazione di Trump». Sierakowski si aspetta che le donne – che in generale superano di gran lunga il numero dei populisti – fungano da unità di punta contro il populismo negli Stati Uniti, in Polonia e in altri Paesi che stanno passando ai partiti illiberali. Stanno «rispondendo al fuoco con il fuoco», osserva. «Riusciranno i populisti a resistere a questa pressione?»

Traduzione di Simona Polverino
Copyright: Project Syndicate, 2017

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