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Il rischio di frenare il progresso tecnologico

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Il rischio di frenare il progresso tecnologico

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Il dibattito sul futuro del lavoro diventa ogni giorno più urgente. Questioni, non banali, si moltiplicano. I robot sono destinati a sostituire i lavoratori o ad aumentarne la produttività? In che arco temporale si manifesterà il fenomeno? Che cosa resterebbe dei consumi se i robot diminuissero drasticamente il numero dei lavoratori?

E che cosa sarebbe dei servizi sociali se diminuisssero significativamente i redditi tassabili per finanziarli? 

Ben venga, dunque, l’occasione offerta da una boutade di Bill Gates, secondo il quale si dovrà trovare il modo di estrarre dall’economia robottizzata l’equivalente dell’ammontare delle tasse sul reddito oggi pagate dai lavoratori. In questo modo, dice il co-fondatore della Microsoft divenuto filantropo, quei lavoratori usciti dalle fabbriche si potrebbero dedicare a offrire servizi per gli anziani, a insegnare nelle scuole, ad aiutare i bambini che hanno bisogni speciali. Gates non specifica come avverrebbe questa tassazione. Ma, probabilmente, si riferisce alle tasse sui profitti delle aziende che aumentano la produttività grazie all’introduzione dei robot, come suggerito da Satya Nadella, amministratore delegato della Microsoft. «I produttori di robot non ci vedrebbero nessun problema» commenta sogghignando Gates intervistato da Quartz. Anche perché questo allenterebbe le tensioni intorno all’introduzione delle tecnologie e consentirebbe di avere una strategia politica per gestire il cambiamento.

In effetti, la sostituzione di salari con ammortamenti è una possibilità che piace ai responsabili amministrativi di molte aziende, ma non è necessariamente gradita agli imprenditori che conoscono il valore aggiunto offerto dai collaboratori che svolgono mansioni creative e non banalmente ripetitive. All’Ocse, in ogni caso, calcolano che l’impatto diretto dei robot potrebbe mettere a rischio il 10% dei posti di lavoro, ma spingerebbe alla modifica delle mansioni di almeno il 30% dei lavoratori. Si tratta di risultati preliminari del gruppo di Stefano Scarpetta, Paolo Falco e altri. Risultati che, sebbene anticipino una prossima profonda trasformazione del lavoro, offrono un’immagine meno drammatica di quella proposta dal paper di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, di Oxford, che nel 2013 avevano ventilato la possibilità che addirittura un 47% dei posti di lavoro rischiassero di sparire per via dell’automazione.

Ma si tratta di problemi che non si risolvono proiettando nel futuro le conseguenze lineari dell’introduzione delle tecnologie come le conosciamo oggi. In realtà, occorre tener conto dei tempi che possono servire al pieno dipanarsi della trasformazione tecnologica e dell’aggiustamento che nel frattempo sapranno sviluppare le società. Se anche fosse vero che non mancano molti anni all’introduzione di tecnologie che consentirebbero di realizzare il trasporto merci su strada con camion senza guidatore, il tempo necessario a finanziare la sostituzione delle macchine, a creare le leggi necessarie a gestire i sistemi di responsabilità, a riorganizzare la logistica per funzionare con questo nuovo sistema non sarebbero certo brevi e l’impatto non potrebbe essere immediato. In effetti, il terremoto annunciato del mercato del lavoro avrebbe effetti molti diversi se si verificasse nel corso di un lustro o di un ventennio.

L’esperienza storica lo dimostra in pieno. In Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, una quota maggioritaria dei lavoratori era occupata in agricoltura. Vent’anni dopo quella quota sarebbe scesa attorno al 10%. Se le previsioni economiche di allora avessero annunciato che il 40% i quei contadini rischiava di perdere il posto di lavoro a causa dell’industrializzazione le preoccupazioni sarebbero state simili a quelle che serpeggiano oggi. Ma allora i lavoratori sapevano che cosa fare: andavano in città e cercavano fortuna in attività che stavano crescendo sotto i loro occhi. Oggi invece l’economia della conoscenza è meno visibile. E la fortuna non si va a cercare in un luogo fisico ma nelle più astratte dimensioni della cultura, dell’istruzione, della ricerca, della creatività, dell’impresa esportatrice. E il progetto sociale è meno chiaro: il conseguente rancore, in un certo senso, si può capire. Un compito della classe dirigente è tracciare una prospettiva capace di conciliare il progresso tecnologico e quello sociale. Se non ne è capace, rischia a sua volta di essere sostituita.

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