La stabilità sociopolitica e il dinamismo economico della Cina riusciranno a reggere? Si tratta di una domanda che ora circola molto più frequentemente tra gli osservatori della Cina che in qualsiasi altro momento degli ultimi trent’anni. Il prossimo autunno il 19esimo Congresso del Partito comunista cinese deciderà (o forse no) il successore del presidente Xi Jinping nel 2022, sostituendo al contempo (forse) cinque membri del Comitato permanente del Politburo composto da sette membri. Si spera che il risultato non inneschi un nuovo periodo di turbolenza simile a quello provocato negli Usa dall’elezione di Donald Trump.
La potenziale incertezza politica in Cina giunge in un periodo in cui la salute economica del Paese è meno rassicurante e in cui la presidenza di Trump potrebbe porre una sfida diretta al suo modello di crescita. Dal 1979 al 2010 il Pil della Cina è aumentato a un tasso medio annuo del 10%, generalmente superando il target del governo (l’unica eccezione il periodo 1989-1990, a seguito delle proteste di Piazza Tiananmen). Poi però la crescita ha registrato una flessione fino a toccare il 7,9% nel 2012 e il 7,8% nel 2013, portando il governo a dichiarare il “new normal”. A fronte di un ulteriore rallentamento della crescita, che ha sfiorato il 7,3% nel 2014 e della debolezza evidenziata l’anno seguente, il governo ha annunciato che il tasso di crescita target per il successivo Piano quinquennale (2016-2020) sarebbe stato 6,5-7%. E infatti, il tasso di crescita ha continuato la sua discesa, fino a toccare il 6,9% nel 2015 e il 6,7% lo scorso anno.
La costante decelerazione della crescita economica dal 2010 è diventata una pietra al collo dei policymaker cinesi. Diagnosticare in modo adeguato la causa e formulare la giusta risposta politica non sarà semplice. Ma in caso di successo ci saranno pesanti ripercussioni per l’economia mondiale, soprattutto ora che Trump sta confermando i peggiori timori circa l’impatto della sua amministrazione sulla stabilità e sulla prosperità globale.
Le prospettive sulla traiettoria economica della Cina sono le più disparate, da un profondo pessimismo a un forte ottimismo. Anche gli osservatori di Project Syndicate riflettono questa diversità di idee. Hanno esaminato attentamente la vita politica della Cina, le sue tendenze e politiche economiche, così da poter fornire analisi preziose su ciò che potrebbe – e ciò che dovrebbe – succedere dopo.
Keep calm and carry on
L’ex capo economista della Banca mondiale Justin Yifu Lin è tranquillo sulla capacità dell’economia cinese di rilanciare una crescita sostenuta. «La Cina soffre per i postumi della crisi finanziaria del 2008 e per il calo della domanda dell’export», scrive. Il recente rallentamento è dovuto più a «fattori esterni e ciclici, che non a qualche limite naturale». Lin ritiene che le politiche tese a incentivare la domanda domestica – comprese «le migliorie infrastrutturali, le iniziative di urbanizzazione, la gestione ambientale e i settori high-tech» – si riveleranno sufficienti a soddisfare i target di crescita ufficiale del governo.
Come ha sostenuto Lin in un precedente articolo, la Cina può ancora contare su un ampio margine di crescita, perché il suo reddito pro capite nel 2008 era ancora «ben oltre un quinto di quello degli Stati Uniti». Quando il reddito pro capite del Giappone era tanto distante da quello degli Usa, nel 1951, il Giappone stesso è poi «cresciuto a un tasso medio annuo del 9,2% nei successivi vent’anni». Lin attribuisce questa crescita al “vantaggio dei ritardatari”, ossia dei Paesi in via di sviluppo, attraverso il quale possono migliorare la produttività semplicemente adottando le tecnologie e le best practice dei Paesi avanzati, a costi ridotti e con pochi rischi.
In modo analogo, Jim O’Neill, ex capo economista di Goldman Sachs, è «meno preoccupato degli altri sui rischi citati di frequente rispetto all’economia cinese», perché «la spesa dei consumatori cinesi è rimasta forte nonostante il rallentamento della produzione industriale e degli investimenti». Stephen Roach dell’Università di Yale si allinea a questa visione, e afferma che «la Cina ha la strategia, gli strumenti e l’impegno necessari per raggiungere una drastica trasformazione strutturale e passare a una società consumistica basata sui servizi».
Roach è dell’idea che la Cina possa schivare gli «scoraggianti venti avversi ciclici» che le si palesano, e l’economista e premio Nobel Michael Spence e Fred Hu di Primavera Capital Group sembrano concordare. Se da un lato riconoscono che «il motore commerciale cinese ha perso gran parte del proprio vapore», dall’altro attribuiscono questo fattore alla «debole domanda estera» e giungono alla conclusione che «la transizione della Cina verso un’economia più innovativa e trainata dai consumi è di fatto in corso». Secondo Spence e Hu, l’economia cinese «sta sperimentando una decelerazione accidentata, e non un tracollo»: il tasso di crescita si è temporaneamente distaccato dalla norma a lungo termine. Puntando a smussare le asperità, invece di rientrare nella norma, il loro consiglio per il governo cinese è quello di «incrementare la trasparenza del processo decisionale, anche comunicando le proprie decisioni politiche in modo più efficace».
Ostacoli all’estero e in patria
Con Trump ora alla Casa Bianca, però, la Cina deve mettere in conto dei cambiamenti economici che non può controllare pienamente. Come osserva schiettamente Minxin Pei del Claremont McKenna College: «La de-globalizzazione ora sembra essere un dato di fatto». E ciò «preoccupa profondamente la Cina, il più grande esportatore del mondo per volumi e senza dubbio il maggiore beneficiario della globalizzazione». Kaushik Basu della Cornell University fa un’osservazione simile e prevede che «Trump sia sul punto di compiere un errore politico». Il suo marchio «neo-protezionistico» sui dazi, insieme alla deregolamentazione finanziaria, non colpirà solo gli Stati Uniti, secondo Basu, ma anche ogni Paese che incorre in «ampi surplus commerciali nei confronti degli Stati Uniti», ossia la Cina.
Ma la Cina deve far fronte anche a una serie di sfide domestiche. Keyu Jin, professore della London school of economics, mette in discussione l’idea che il rallentamento della Cina sul fronte della crescita sia un sintomo temporaneo del suo modello economico in evoluzione. «Il problema della Cina non è che è ’in transizione’», afferma Jin. «È che il settore statale sta soffocando il settore privato». Le aziende statali cinesi, fa notare, ricevono trattamenti preferenziali sotto forma di implicite garanzie dello Stato e di terreni e crediti a basso costo, situazione che crea una concorrenza sleale per il settore privato. «Se la Cina intende evitare il declino economico», conclude, dovrà perseguire riforme societarie incisive, anche e soprattutto del «suo sistema di governance – e della filosofia su cui si fonda».
Zhang Jun, direttore del China center for economic studies della Fudan University crede che il settore statale ponga una grande minaccia per l’economia cinese, e chiede «una ristrutturazione su vasta scala delle grandi aziende statali». Sottolinea le positive ripercussioni derivanti dalla chiusura delle aziende “zombi” appoggiate dallo Stato e dalla limitazione del ruolo di aziende pubbliche solo ad alcuni settori economici rilevanti – un processo che l’ex premier Zhu Rongji aveva avviato senza portare a compimento vent’anni fa. «Questo approccio», sostiene Zhang, consentirebbe alla fine alle aziende private di accedere ai «settori dei servizi di gamma alta e a intensa densità di capitale dominati dalle aziende statali»; allo stesso tempo, «creerebbe un’opportunità per far progredire la privatizzazione, che potrebbe rilanciare l’innovazione e la competitività».
“A prescindere dal significativo potenziale economico dei consumatori cinesi, lo sviluppo economico basato su una domanda domestica diversificata è più complicato di uno sviluppo guidato dall’export”
Zhang Jun, direttore del China center for economic studies
Ma Zhang non si fa illusioni sull’imminenza, né tantomeno sulla riuscita, delle riforme importanti, dal momento che la Cina continua a riorientare la propria economia verso i consumi domestici. «A prescindere dal significativo potenziale economico dei consumatori cinesi», fa notare in un precedente articolo, «lo sviluppo economico basato su una domanda domestica diversificata è più complicato di uno sviluppo guidato dall’export». E avverte che «le nuove imprese che emergono dalla transizione verso un nuovo modello di crescita stanno pretendendo dall’attuale sistema di governance economica della Cina molto più di quanto il sistema possa sostenere». Le riforme strutturali potrebbero certamente affrontare questo problema, ma spingeranno anche i «leader cinesi a prendere delle dure decisioni politiche che non faranno contenti tutti».
Qualsiasi discussione circa l’economia cinese non può prescindere dalle scelte politiche cui deve far fronte. Per Nina Khrushcheva della New School, il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato un’era in cui «la leadership collettiva ha ceduto il passo a un governo autocratico, e le regole di condotta non scritte sono state spazzate via». Presi insieme, la ricentralizzazione del potere di Xi, il perseguimento dei potenziali rivali, il giro di vite sui media nazionali e le azioni per rafforzare il “Great Firewall” per bloccare i siti web stranieri rappresentano un grande ostacolo al progresso sociopolitico della Cina – e forse anche allo stesso progresso economico.
Ma Jin dissente su questa interpretazione e insiste che «Xi Jinping non è Mao Tse-tung». Se Xi intende «rafforzare la Cina – sia a livello di governo che di economia», scrive, «deve rimettere in linea la burocrazia ormai fuori controllo». Secondo Jin, questo step è necessario per invertire «il lassismo degli ultimi trent’anni», durante i quali «le autorità locali hanno creato cricche politiche che lavorano insieme per tutelare i propri guadagni illeciti e interessi economici».
Confondere le acque
Queste diverse prospettive rivelano la difficoltà di diagnosticare il rallentamento economico cinese post-2010. Si può affermare con certezza che la tiepida performance degli ultimi anni riflette sia la dinamica ciclica che un calo del generale potenziale di crescita dell’economia, ma resta da capire quanto sia determinante ciascun fattore. Come osserva Yu Yongding, ex membro del Comitato di politica monetaria della People’s Bank of China, questi fattori non si possono considerare separatamente da altri aspetti: contemporaneamente bisogna affrontare le debolezze sul fronte dell’offerta a lungo termine e della domanda a breve termine. Quindi la soluzione non è semplice come scegliere «tra stimolo Keynesiano o riforme basate sulla supply-side economics», sostiene Yu; la «sfida» per le autorità è quella di «trovare un equilibrio tra i due».
Secondo l’analisi di Yu i policymaker cinesi si stanno concentrando troppo sulle variabili a lungo termine, e non abbastanza sugli ostacoli di crescita più immediati. Da novembre 2015 i canali ufficiali pongono un eccessivo accento sulla «riforma strutturali sul fronte dell’offerta», e ciò implica che Xi considera il recente rallentamento come il risultato principale di una flessione del potenziale tasso di crescita. Yu chiede «un altro pacchetto di stimoli in grado di aumentare la domanda aggregata attraverso investimenti nelle infrastrutture» nell’immediato futuro, che dovrebbe essere finanziato «principalmente dai titoli di Stato, invece che dal credito bancario», così da «evitare quel genere di bolle finanziarie che si sono gonfiate negli ultimissimi anni». Ovviamente, lo stimolo proposto da Yu potrebbe evitare una crisi finanziaria, ma il debito aggiuntivo potrebbe contribuire a innescare una crisi fiscale.
Ma il punto degli investimenti nelle infrastrutture, continua Yu, non è «solo evitare che l’economia peggiori ulteriormente, ma anche di consentire alla Cina di generare quella sostenuta crescita a lungo termine che le serve per raggiungere lo status di Paese avanzato». Con il Pil pro capite appena al 30% dei livelli Usa, la Cina sembra ancora avere parecchio margine di crescita. Allora perché qualcuno dovrebbe essere pessimista rispetto alla sostenibilità di una crescita elevata?
Tanto per iniziare, i benefici del “vantaggio dei ritardatari” enfatizzato da Lin non possono essere dati per scontati. Un esempio? Il Pil pro capite delle cinque maggiori economie latino-americane, prese insieme, a parità di potere di acquisto, si aggirava attorno al 30% del livello Usa nel 1955, e quel rapporto resta lo stesso oggi. Mentre lo standard di vita assoluto di questi Paesi è migliorato, la portata del loro gap di sviluppo rispetto agli Usa resta invariato da oltre 60 anni.
L’incapacità di stare al passo è generalmente nota come la “trappola del reddito medio”.
E come osserva Ernesto Talvi della Brookings Institution, non è una coincidenza che gli ultimi quarant’anni della storia dell’America Latina siano stati segnati da cicli di sconvolgimenti politici. In modo analogo, i rallentamenti della crescita in Malesia e Thailandia nell’arco dei due decenni passati hanno provocato proteste su vasta scala ed episodi di violenza politica.
Inoltre, la trappola del medio reddito è la norma. Le uniche grandi economiche asiatiche che sono riuscite a ridurre i gap sul fronte dello sviluppo rispetto agli Usa sono il Giappone, Taiwan e la Corea del Sud, e i problemi della Cina sono troppo ampi e complessi per presupporre che riesca a condividere l’eccezionalità economica dei vicini.
Senile e d’intralcio
Il dubbio scaturisce sostanzialmente dalle difficoltà demografiche della Cina, che complicano la possibilità di ripristinare i tassi di crescita del passato. Nell’ottobre del 2011, Cai Fang, il direttore dell’Istituto di economia del lavoro e della popolazione presso l’Accademia cinese di scienze sociali, faceva notare che la Cina, diversamente da Giappone e Corea del Sud, divenne un Paese senile ben prima di divenire influente. Teme che questo fattore da solo possa far cadere la Cina in una trappola del reddito medio.
Una società in rapido invecchiamento registrerà un calo dei risparmi sempre più marcato (e quindi meno investimenti) e accumulerà capitale umano a un ritmo più lento. Nel frattempo, anche la popolazione del Paese diminuirà, con una conseguente flessione della produzione e minori opportunità per ottenere i benefici delle economie di scala.
L’esperienza di altri Paesi che registrano un invecchiamento della popolazione non promette nulla di buono per la Cina. Nella seconda metà degli anni Novanta, quando il rapporto di dipendenza del Giappone – la proporzione della popolazione che ha meno di 15 anni e più di 60 anni – accelerava il suo ritmo al rialzo, il tasso di crescita del Pil registrava un brusco calo. E il tasso di crescita della Corea del Sud registrò un significativo calo dopo il 2010, quando il suo rapporto di dipendenza iniziò ad aumentare rapidamente. Il rapporto di dipendenza della Cina è in crescita a un ritmo piuttosto rapido dal 2010, seppur non tanto rapido quanto quello evidenziato dal Giappone dopo il 1995 o dalla Corea del Sud negli ultimi anni.
Nel 2013 Cai è ricorso all’analisi della crescita adeguata in base ai livelli demografici per prevedere un tasso di crescita annuo del 6,2% tra il 2016 e il 2020. Tale previsione avrebbe potuto essere vera nel 2016 se il governo non avesse sostenuto la crescita con le politiche monetarie e di stimolo fiscale per mantenere in vita le aziende statali zombi, ampliare l’inventario delle abitazioni non occupate in alcune regioni e incentivato la domanda di beni prodotti da aziende con un eccesso di capacità.
Il lavoro di Cai solleva una questione importante su come calcolare al meglio la futura crescita economica. Mentre Lin si affida a un’analisi comparativa dei rapporti Pil pro capite Usa-Giappone e Usa-Corea per predire che la Cina manterrà un tasso di crescita annuo pari «all’incirca all’8%» per il periodo 2008-2028, Cai, focalizzandosi sul rapporto di dipendenza in Giappone e Corea del Sud, si aspetta una flessione del tasso di crescita annuo della Cina. Quindi, quale variabile definisce meglio le future previsioni di crescita?
Un solido confronto tra Paesi non può basarsi solamente sulla teoria economia da manuale. Richiede anche una profonda conoscenza delle specifiche condizioni istituzionali in ciascun Paese che viene messo a confronto, perché la misura in cui una data variabile incide sui risultati economici futuri differisce da Paese a Paese. Senza un approccio olistico che tenga conto di tali discrepanze, non possiamo sapere se lo stesso risultato osservato in Paesi diversi sia stato prodotto dagli stessi fattori.
“Un’altra sfida fondamentale è il lento tasso di urbanizzazione della Cina, che è ancora piuttosto indietro, anche dopo 25 anni di crescita trainata dall’export”
Zhang Jun, direttore del China center for economic studies
La Malesia, ad esempio, è invischiata in una trappola di medio reddito a causa del suo sistema globale di preferenza etnica – che ha innescato una sfrenata corsa agli affitti, una fuga dei capitali, una vasta fuga di cervelli e un sistema di istruzione di bassa qualità – e della sua struttura amministrativa eccessivamente centralizzata che sopprime le iniziative per lo sviluppo locale. La Thailandia, nel frattempo, è stata spinta in una trappola di medio reddito per i conflitti politici che scaturiscono dal rifiuto delle tradizionali élite di dare spazio alle nuove forze sociali.
Per la Cina, l’invecchiamento della popolazione è solo uno dei potenziali ostacoli agli elevati e sostenuti tassi di crescita. Come osserva Zhang, «un’altra sfida fondamentale è il lento tasso di urbanizzazione della Cina, che è ancora piuttosto indietro, anche dopo 25 anni di crescita trainata dall’export». Le prospere aree metropolitane sono necessarie per un’economia dei servizi, perché uniscono settori di servizi interdipendenti quali «Ict, finanza, assicurazioni, trasporti e real estate». Zhang lamenta che il «perdurante sistema di divisione tra regioni urbane e rurali, insieme alla scarsa pianificazione urbanistica, ha portato a comunità metropolitane frammentate e isolate senza reti diversificate». Una maggiore interconnessione, secondo Zhang, «avrebbe invece aiutato a incentivare la produttività».
A vele spiegate
Andrew Sheng e Xiao Geng dell’Università di Hong Kong consigliano ai politici cinesi di affrontare questa frammentazione quando perseguono riforme a livello macro sul fronte dell’offerta. Esistono «considerevoli differenze su come i mercati lavorano in regioni e settori diversi», fanno notare Sheng e Xiao, e le riforme cambieranno radicalmente l’«interazione tra lo stato e questi mercati». Avvertono che ciò potrebbe «creare una notevole ambiguità, causando tensioni e confusione tra autorità, esperti, imprenditori e cittadini».
Sheng e Xiao riconducono i problemi economici della Cina alla «rapida espansione di mercati imperfetti gestiti da un’imperfetta burocrazia». E pur non specificando su chi ricada maggiormente la colpa – i mercati o la macchina burocratica – credono che l’unico modo per appianare tale imperfezioni sia di andare oltre la riforma strutturale e perseguire una «riforma istituzionale». Nello specifico, si rivolgono alle autorità locali e centrali per «delineare i diritti di proprietà in materia di terreni, capitali e risorse naturali, e istituire standard industriali e best practice». Non spiegano come questa riforma istituzionale debba essere portata avanti, ma delineare i diritti di proprietà generalmente si traduce in una privatizzazione dei beni controllati dallo Stato. E istituire standard industriali e best practice in generale significa captarli dall’estero e adattarli attentamente alle condizioni locali.
Chiaramente, domare le aziende statali cinesi è una condizione necessaria per restaurare una crescita solida, e qui si trovano d’accordo i commentatori di Project Syndicate. Ciò non riflette un’ideologia condivisa, ma piuttosto una realtà secondo cui le aziende statali costituiscono un peso crescente sull’economia. Le aziende statali più grandi non devono necessariamente essere privatizzate, ma le imprese private devono essere messe nelle condizioni di potere competere liberamente con loro (a eccezione di alcuni settori come gli armamenti), e occorre mantenere vincoli di bilancio vigorosi e relazioni commerciali aperte.
La Cina dovrebbe altresì esplorare politiche atte ad espandere l’innovazione domestica. Come fa notare Erik Berglöf della London School of Economics and Political Science, gli studi mostrano «un nesso positivo tra innovazione e mobilità sociale, e persino tra innovazione e disuguaglianza dei redditi». Berglöf offre ai politici cinesi un barlume di speranza, facendo notare come «non è storicamente inevitabile che i Paesi restino intrappolati a certi livelli di reddito». Ma affinché la Cina eviti questo destino, avverte, non può interamente affidarsi alle tecnologie adottate dai paesi avanzati.
Infine, come raccomanda Cai, la Cina dovrà coltivare il proprio capitale umano. Come Zhang, anche Cai intravede l’urgente necessità di migliorare il processo di migrazione da rurale a urbana, anche allentando il «sistema di residenza obbligatoria (hukou), che vieta l’accesso ai diritti del sistema pubblico per gli immigrati senza residenza nei centri urbani», nonché restrizioni sull’espansione delle città più grandi. Queste riforme del mercato del lavoro miglioreranno significativamente il sistema sanitario e l’istruzione dei bambini rurali, ridurranno l’uguaglianza dei redditi e promuoveranno la mobilità sociale.
Con un approccio equilibrato al cambiamento politico e con riforme economiche che prendano in considerazione le sfide cicliche a breve termine e strutturali a lungo termine (con particolare enfasi su queste ultime), la Cina può ancora raggiungere l’armonia sociopolitica e la posizione stessa per diventare un Paese sviluppato e ad alto reddito. In un’era di crescente incertezza globale, riconducibile in gran parte agli Stati Uniti, la Cina non potrà che beneficarne – soprattutto in termini geopolitici – se riuscirà ad emergere come fonte di dinamismo economico sostenuto.
Traduzione di Simona Polverino
Wing Thye Woo è professore presso la University of California, Davis, la Sunway University in Kuala Lumpur, la Fudan University di Shanghai e presso l’Accademia di scienze sociali di Pechino.
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