Nel giro di una notte Erdogan ha completato qualche settimana fa il suo contro-golpe mettendo sotto diretto controllo le maggiori società pubbliche della Turchia, dalle linee aeree alle telecomunicazioni, alle banche. Tutto questo avveniva mentre incarceravano altri giornalisti: dal fallito colpo di Stato del 15 luglio in 120 sono finiti dietro le sbarre. L’ultimo caso, accompagnato dalle dimissioni del direttore di Hurriyet - altro collega inviso a Erdogan - è quello di Deniz Yucel, il corrispondente di Die Welt in carcere: la tensione tra Ankara e Berlino sta salendo mentre ieri le autorità tedesche convocavano l’ambasciatore turco. La Germania con Erdogan paga una sorta di ipocrisia bilaterale: gli europei hanno lasciato correre la repressione del leader turco in cambio dell’accordo per frenare i migranti.
La scalata di Erdogan agli “asset” della Turchia è così avvenuta nel silenzio, coperta dal clamore di arresti eccellenti, dalle cronache delle battaglie dell’esercito in Siria e dalla campagna elettorale per un referendum costituzionale che il 16 aprile dovrebbe consegnare al presidente pieni poteri. Se verrà approvato, sarà quasi impossibile per il Parlamento ribaltare i decreti presidenziali. Erdogan potrà manovrare i bilanci, nominare i giudici e distribuire a suo piacimento cariche di governo. Questo già avviene da tempo ma sarà scritto nero su bianco: forse neppure Ataturk, il fondatore della repubblica sulle rovine dell’Impero Ottomano, aveva avuto poteri cosi estesi e incontrastati.
Erdogan tra il 5 e 6 febbraio scorso ha messo le mani sul “tesoro” della Turchia. Con una mossa a sorpresa ha trasferito le quote di controllo della compagnia aerea Turkish Airlines, della Halkbank, della società petrolifera Tpao e della Turkish Telekom nel Fondo sovrano Swf (Sovereign wealth fund). Il Fondo era stato istituito nell’agosto scorso con una modesta dotazione di 13 milioni di dollari e adesso controlla partecipazioni per miliardi.
È diventato una sorta di “banca” di Erdogan. Il presidente ha indicato i cinque membri del consiglio d’amministrazione, ovviamente tutti dei fedelissimi, e a capo dell’istituzione ha proiettato Yigit Bulut, un personaggio eccentrico salito alla ribalta durante la rivolta di piazza Taksim quando affermò convinto che stavano tentando di uccidere Erdogan con la telecinesi. Messo per qualche tempo in seconda fila, Bulut è tornato alla ribalta con le purghe seguite al 15 luglio e la caccia ai gulenisti. Non solo sono stati fatti fuori migliaia di funzionari, militari, insegnanti e giornalisti ma le autorità hanno sequestrato beni e aziende di presunti golpisti o simpatizzanti per un valore di 10 miliardi di dollari.
L’obiettivo di Erdogan è controllare l’economia che subisce contraccolpi pesanti dovuti al terrorismo, alla fuga dei capitali stranieri e nazionali, alla perdita di valore della moneta. In un anno la lira turca è sprofondata del 17% sui mercati. Il boom si sta afflosciando e sono in pericolo i grandi progetti con cui Erdogan ha coltivato la sua immagine di modernizzatore. Lavori pubblici anche spettacolari, come il terzo ponte sul Bosforo, costruito dall’Astaldi, o l’alta velocita ferroviaria, sono il fiore all’occhiello del partito islamico Akp e del presidente: oggi in Turchia sono aperti cantieri per un valore di 40 miliardi di dollari ma molti rischiano di chiudere se non saranno finanziati.
Il Fondo sovrano di Erdogan serve a questo: costituire un polo finanziario che genera ricchezza e credito per le grandi opere ma anche un alto livello di occupazione per gli strati popolari che votano l’Akp, il partito islamico vincitore di tutte le elezioni dal 2002 a oggi. La mossa di Erdogan ha ragioni politiche profonde. Anche da presidente si è sempre sentito all’opposizione, ostacolato da un establishment secolarista che ha sempre percepito come ostile. C’è voluto un decennio perché riuscisse a togliere il divieto del velo nella pubblica amministrazione e ora pure nelle forze armate. Adesso ha in mano tutte le leve, anche quelle finanziarie, per spazzare l’opposizione. Impugna la carota e il bastone in un sistema che è sempre più lontano dall’Europa e fa oscillare la Turchia come un pendolo tra la Nato e Putin.
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