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Dossier Da dove vengono (e dove ci porteranno) i nuovi populismi

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Da dove vengono (e dove ci porteranno) i nuovi populismi

Nell’ultimo anno, il populismo ha gettato nello scompiglio le democrazie occidentali. Forze populiste diverse, sotto forma di partiti, leader e idee, hanno contribuito alla vittoria dei sostenitori della Brexit nel referendum britannico sulla permanenza nell’Ue e all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Oggi, venti populisti soffiano sinistramente sulle elezioni generali dei Paesi Bassi, che si terranno a marzo, e sulle elezioni presidenziali francesi, che avranno luogo nei mesi di aprile e maggio.

Malgrado la sua apparente ubiquità, però, il populismo è un concetto difficile da definire. I populisti sono spesso intolleranti nei confronti degli outsider e dei diversi, ma nel caso di Geert Wilders, il leader olandese di estrema destra, ci troviamo di fronte a un convinto sostenitore dei diritti dei gay. Spostandoci negli Stati Uniti, la campagna presidenziale di Trump era stata inizialmente descritta come un movimento di opposizione alle élite, ma ora già sembra che la sua amministrazione sia diventata una succursale di Goldman Sachs.

Se l’odierna rinascita populista trae origine dalla destra nazionalista, alcuni dei principali esponenti populisti degli ultimi decenni, come il defunto presidente del Venezuela Hugo Chávez, erano invece schierati a sinistra. Quello che li accomuna è una visione del mondo a somma zero, che necessita di capri espiatori su cui far ricadere la colpa di qualunque problema. Inoltre, dichiarando di incarnare la volontà unanime di un fantomatico “popolo”, i leader populisti considerano la democrazia come un mezzo per raggiungere il potere, anziché come un obiettivo auspicabile in quanto tale.

Ma i populisti hanno in comune ben più di un’ossessione per i confini culturali e le frontiere politiche; essi condividono anche una ricetta per la governance economica che i commentatori di Project Syndicate seguono con interesse da molto prima che il marchio populista iniziasse a campeggiare sulle prime pagine dei giornali. Guidati dalle loro analisi, possiamo cominciare a comprendere le origini della rinascita populista odierna, e cosa riserva ai Paesi occidentali l’ascesa al potere dei suoi avatar.

Diagnosticare il problema
Date le sue molteplici sfaccettature, è davvero possibile individuare una causa di fondo del populismo? Per Robert Skidelsky della Warwick University non è un caso che i due principali sconvolgimenti politici del 2016 – il successo dei sostenitori della Brexit al referendum dello scorso giugno e la vittoria elettorale di Trump – siano avvenuti nei «due Paesi che avevano abbracciato l’economia neoliberista con maggiore entusiasmo». Il modello economico degli Usa e del Regno Unito nelle ultime decadi, osserva Skidelsky, ha consentito «compensi scandalosi per una minoranza, elevati livelli di disoccupazione e sottoccupazione, e una riduzione del ruolo statale nelle prestazioni sociali». E questa crescente disuguaglianza, scrive, «strappa il velo democratico che nasconde agli occhi della maggioranza dei cittadini i veri meccanismi del potere».

D’altro canto, Anatole Kaletsky, capo economista di Gavekal Dragonomics, evidenzia un’altra dinamica in atto e offre «diverse ragioni per dubitare del legame tra politica populista e malessere economico». Per cominciare, egli sottolinea che «la maggior parte degli elettori populisti non è né povera né disoccupata, e non si tratta di vittime della globalizzazione, dell’immigrazione o del libero scambio». Dopo aver analizzato i sondaggi sulla Brexit e le risposte degli elettori, Kaletsky conclude che «sono gli atteggiamenti culturali ed etnici, e non delle motivazioni economiche dirette, il vero tratto distintivo del voto antiglobalizzazione».

“La maggior parte degli elettori populisti non è né povera né disoccupata, e non si tratta di vittime della globalizzazione, dell’immigrazione o del libero scambio”

Anatole Kaletsky, capo economista di Gavekal Dragonomics 

A prima vista, tali argomentazioni possono sembrare incompatibili, ma il contrasto è in realtà solo tra le cause ultime e quelle dirette. Per Skidelsky, «è quando le gratificazioni del progresso economico arrivano principalmente a chi è già ricco che il divario tra i valori culturali della minoranza e della maggioranza diventa pericolosamente destabilizzante». Allo stesso modo, per Kaletsky, «la principale attinenza dell’economia in questo caso è che la crisi finanziaria del 2008 ha creato le condizioni per una reazione politica da parte degli elettori più anziani e conservatori, che hanno perso le battaglie culturali sulla razza, il genere e l’identità sociale».

Allo stesso modo, il filosofo di Harvard Michael Sandel mette in guardia dal concentrarsi solo sul «bigottismo della protesta populista» o su una lettura della stessa «in chiave puramente economica». La questione fondamentale, sostiene, è che «gli sconvolgimenti del 2016 sono derivati dall’incapacità della classe politica di affrontare, o anche solo riconoscere adeguatamente, delle rivendicazioni reali». E poiché riguardano «la stima sociale, non solo i salari e i posti di lavoro», tali rivendicazioni sono difficili da distinguere «dagli aspetti intolleranti della protesta populista», vale a dire i sentimenti anti-immigrati.

“Perdere un ’buon lavoro’ è come perdere la principale fonte di senso della vita”

Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia 

Anche l’economista premio Nobel Edmund Phelps collega la rabbia degli elettori populisti alla perdita della propria dignità nel più ampio contesto dell’economia politica. Poiché la percentuale di occupazione americana nel settore manifatturiero è andata costantemente diminuendo, gli operai, osserva Phelps, «hanno perso l’opportunità di svolgere un lavoro significativo e di provare un senso di controllo e padronanza». In altre parole, «perdere un ’buon lavoro’» è stato come perdere «la principale fonte di senso della vita». E, come la storica dell’Università di Oxford Margaret MacMillan avverte, mentre molti dei lavori perduti nel settore manifatturiero sono stati rimpiazzati con nuovi posti di lavoro in nuovi settori, non esistono argomenti economici, per quanto articolati, «in grado di controbilanciare l’infelicità di persone che si sentono emarginate, sottovalutate e disprezzate».

Un male democratico
Jan-Werner Mueller della Princeton University, autore di un apprezzato libro sul populismo uscito l’anno scorso, ha identificato questi «sentimenti di esproprio e privazione dei diritti» come un «terreno fertile» dove i politici populisti possono far crescere i semi del rancore. Inoltre, in un precedente articolo che anticipa di molto l’attuale ciclo delle notizie, Mueller spiegava che «il populismo non può essere compreso a livello delle singole politiche; piuttosto, è un modo particolare di immaginare la politica». Soprattutto, osserva, l’immaginazione populista è intrinsecamente divisiva: «Contrappone gli innocenti e chi si ammazza di lavoro tutto il tempo tanto a un’élite corrotta (che in realtà non lavora, se non per promuovere i propri interessi), quanto a coloro che occupano i gradini più bassi della società (che pure non lavorano e vivono sulle spalle degli altri)».

Nelle sue forme più virulente, il populismo può essere assimilato a una malattia autoimmune, in virtù della quale la democrazia genera forze che poi le si ritorcono contro. Andrés Velasco, un ex ministro delle Finanze del Cile, lamenta che la natura della democrazia rappresentativa può creare l’impressione che i politici siano «distanti e inaffidabili». La «retorica della democrazia moderna», scrive, «pone l’accento sulla vicinanza agli elettori e ai loro problemi». Ma i rappresentanti eletti non possono trascorrere tutto il proprio tempo a interagire con gli elettori dovendo governare. Quando tale dissonanza tra retorica e realtà diventa «troppo evidente», nota Velasco, «la credibilità dei leader politici ne risente».

Questa perdita di fiducia porta i cittadini scontenti ad accogliere con favore qualunque percezione di autenticità. Quindi, «se anche le politiche populiste riducono il benessere economico generale», fa notare Velasco, «gli elettori le scelgono perché rappresentano il prezzo da pagare per distinguere tra i diversi tipi di politici». Di fatto, tale disponibilità a subire ulteriori sofferenze economiche pur di vendicarsi dei tradimenti dell’élite e rifarsi su dei capri espiatori può definirsi un aspetto centrale della rinascita populista odierna.

I leader populisti in Ungheria e Polonia, che oggi stanno promuovendo il filone della “democrazia illiberale”, sembrano aver basato il futuro dei rispettivi governi su questo presupposto. Come sottolinea Maciej Kisilowski della Central European University, non importa neppure che «gli elevati costi economici della democrazia illiberale siano già evidenti». Gli elettori di questi paesi «potrebbero arrivare a considerare la stagnazione economica come un prezzo accettabile da pagare per ciò che maggiormente desiderano: un mondo più familiare in cui lo Stato garantisca un senso di appartenenza e dignità a un gruppo chiuso dominante, a spese di ’altri’».

Sawomir Sierakowski dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, fornisce ulteriori argomenti a sostegno di questo punto. Quando, un anno fa, il partito Diritto e Giustizia (PiS) di Jaroslaw Kaczyński è tornato al potere in Polonia, molti hanno pensato che avrebbe avuto un’esistenza breve. Contrariamente alle aspettative, però, ha avuto successo e questo perché Kaczyński ha saputo sfruttare politicamente le «due questioni più vicine e care agli elettori: i trasferimenti sociali e l’immigrazione», spiega Sierakowski. «Finché sarà in grado di controllare questi due baluardi dell’elettorato, sarà al sicuro». Ovviamente, vista la politicizzazione dei tribunali, della pubblica amministrazione e della stampa da parte del governo del PiS, non si può dire lo stesso delle istituzioni democratiche della Polonia.

L’effetto placebo del populismo
Ma per quanto tempo i governi populisti saranno in grado di garantire dei trasferimenti sociali generosi in assenza di una forte crescita economica? La risposta dipenderà da quanto a lungo i loro sostenitori resteranno convinti di poter avere la botte piena e la moglie ubriaca – che è esattamente ciò che l’ex leader della Brexit e attuale ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha promesso agli elettori che hanno votato per l’uscita dall’Ue. Di fatto, come ha osservato Jeffrey Sachs della Columbia University, subito dopo il voto sulla Brexit, «questi elettori della classe operaia hanno pensato che tutte o gran parte delle perdite di reddito sarebbero state comunque sostenute dai ricchi, e soprattutto dai disprezzati banchieri della City londinese».

Data l’inattesa resilienza dimostrata l’anno scorso dall’economia britannica, i populisti si sentiranno scagionati. Tuttavia, anche se la maggior parte degli economisti ha calcolato male «l’impatto immediato che il voto del Regno Unito avrebbe avuto sull’economia del Paese», scrive Paola Subacchi di Chatham House, «una previsione pessimista a lungo termine è probabilmente quella più corretta», data la volontà dei leader britannici di operare una rottura completa con il mercato unico e l’unione doganale dell’Unione europea.

Questi effetti ritardati possono creare un alibi per giustificare politiche insostenibili, e questo, secondo Velasco, riflette alla perfezione «il funzionamento del populismo economico». Ad esempio, l’approccio che Trump sembra voler adottare – sgravi fiscali, misure di stimolo della crescita e protezionismo, senza preoccuparsi troppo dell’inflazione o del debito pubblico – è insostenibile e prima o poi destinato al fallimento. Ma il punto è che «quel ’prima o poi’ può significare un tempo molto lungo», e garantire ai governi populisti una tenuta maggiore di quanto molti pensino. «Le politiche populiste si chiamano così perché sono popolari», osserva ancora Velasco, «e il motivo per cui sono popolari è che funzionano, almeno per qualche tempo».

Nel frattempo, i leader populisti possono perseguire politiche sostenute non solo dalla propria base elettorale, ma anche da molti dei loro avversari. Nel vortice dei suoi primi giorni in carica, Trump ha mantenuto la promessa di abbandonare il Tpp, un accordo di libero scambio tra dodici Paesi. Questa, secondo Ashoka Mody dell’Università di Princeton, è stata in realtà un’iniziativa gradita, dato che «gli accordi commerciali internazionali, sostenuti da interessi forti, sono diventati sempre più invadenti». Allo stesso modo, prima dell’elezione di Trump, l’economista di Harvard Dani Rodrik aveva invocato un riequilibrio «tra autonomia nazionale e globalizzazione». Secondo Rodrik, va da sé che «le esigenze della democrazia liberale» debbano venire prima di «quelle del commercio e degli investimenti internazionali».

“Le esigenze della democrazia liberale devono venire prima di quelle del commercio e degli investimenti internazionali”

Dani Rodrik, Harvard University 

Similmente, la promessa di Trump di riformare le aliquote fiscali delle imprese trova riscontro anche al di fuori della sua base elettorale. Per Martin Feldstein dell’Università di Harvard, un tempo alla guida del Consiglio dei consulenti economici del presidente Ronald Reagan, le attuali proposte di legge volte a modernizzare l’obsoleto sistema fiscale americano potrebbero «avere un impatto molto favorevole sugli investimenti delle imprese, aumentando la produttività e la crescita economica complessiva». Nell’ipotesi che Trump, insieme all’ala repubblicana del Congresso, riesca a conseguire un giusto equilibrio tra le politiche, ciò significherà aver guadagnato tempo con la comunità imprenditoriale.

Lo storico di Princeton Harold James si collega a ciò osservando che «l’economia del populismo americano non è destinata a fallire per forza, o almeno non subito», e ciò è dovuto alla «resilienza unica» degli Stati Uniti nell’economia globale. «Poiché [gli Usa] sono da sempre un rifugio sicuro a livello globale in periodi di incertezza economica», sottolinea James, «hanno meno probabilità di essere danneggiati dall’imprevedibilità politica rispetto ad altri Paesi».

L’inizio del declino
Ma se anche Trump riuscisse a prolungare la sua luna di miele, James non scarta la possibilità che «il contagioso populismo attuale arrivi a creare le premesse per la sua stessa distruzione». Uno dei modi in cui ciò potrebbe accadere, sostiene Benjamin Cohen dell’Università della California, Santa Barbara, è se gli Stati Uniti perdono l’«immenso privilegio» di essere l’emittente della valuta di riserva internazionale principale. Se Trump «manterrà l’impegno protezionista di mettere l’America al primo posto», scrive Cohen, «ciò potrebbe gradualmente spingere gli investitori e le banche centrali a cercare riserve alternative per i loro miliardi».

Il populismo economico di Trump potrebbe anche dover affrontare una resa dei conti nel caso in cui desse adito a un nuovo ciclo di forte espansione e contrazione, che potrebbe concludersi con un periodo di stagflazione nel 2018, anno delle elezioni del Congresso americano. Poco prima delle elezioni, Feldstein aveva avvertito che «gli attivi sopravvalutati stanno favorendo un ambiente sempre più pericoloso». Dato che l’economia americana ha già raggiunto il traguardo della piena occupazione, con un tasso d’inflazione vicino al 2%, lo stimolo fiscale previsto da Trump potrebbe sottoporla a uno stress eccessivo e costringere la Federal Reserve ad aumentare il tasso sui federal funds.

Un simile scenario peggiorerebbe di certo la situazione dell’elettorato di Trump, perlopiù costituito dalla classe operaia bianca nell’ex cuore produttivo dell’America. Ma lo stesso farebbero le sue proposte in materia di commercio, che rischiano d’innescare guerre commerciali con la Cina, il Messico e altri partner. Trump ha detto agli operai rimasti senza lavoro che la colpa è degli accordi commerciali e della concorrenza delle importazioni. Tuttavia, come sottolinea l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, «dal momento che gli aumenti di produttività superano la crescita della domanda» in tutto il mondo, l’America «sarebbe andata incontro a una deindustrializzazione anche senza un commercio più libero».

Detto questo, la ricetta di Trump per un protezionismo commerciale, dice Stiglitz, «avrà come unico effetto quello di rendere tutti gli americani più poveri». Uno dei motivi, spiega l’ex capo economista della Banca mondiale Anne Krueger, è che anche le importazioni creano e mantengono posti di lavoro. L’ironia dei dazi d’importazione proposti da Trump è che essi rappresentano una minaccia per gli stessi esportatori americani. Molti posti di lavoro nel settore delle esportazioni, sottolinea Krueger, esistono perché le importazioni a basso costo consentono ai produttori americani di competere a livello nazionale e all’estero; inoltre, «esportare verso gli Stati Uniti fornisce agli stranieri più reddito con cui acquistare merci importante dagli Stati Uniti e da altri Paesi».

Anche Simon Johnson, docente del MIT, teme una situazione senza via d’uscita come quella appena descritta. Se Trump comincia a tassare le importazioni, dice, «ciò implicherà costi elevati per posto di lavoro creato, le merci importate diventeranno più costose e questo aumento dei prezzi si rifletterà sul costo di qualunque acquisto fatto dagli americani».

Sbagliare l’intervento
Altri commentatori di Project Syndicate hanno individuato una falla più profonda nell’economia populista, al di là di qualunque proposta politica specifica, ovvero la sconsideratezza. Spesso i populisti calcano eccessivamente la mano facendosi beffe delle convenzioni legali, economiche o politiche, o esercitando una spudorata influenza sui mercati per cercare di procurare vantaggi ai loro sostenitori. Di fatto, secondo un noto studio sul populismo economico in America Latina di Sebastián Edwards dell’Ucla e del defunto Rüdiger Dornbusch del Mit, è prassi populista mostrare «zero considerazione per le restrizioni fiscali e alla liquidità in valuta estera» nel perseguimento di una crescita e una ridistribuzione più rapide.

Nouriel Roubini dell’Università di New York sospetta che Trump possa avere la tentazione di operare allo stesso modo sui mercati valutari. Poiché le sue misure di stimolo fanno aumentare il valore del dollaro, dice Roubini, «Trump potrebbe intervenire unilateralmente per indebolire la moneta americana, o imporre controlli sui movimenti di capitale per limitarne il rafforzamento». Ma se Trump è troppo incauto con i suoi «metodi di riduzione del danno», i mercati già cauti per natura rischiano di soccombere a un «panico conclamato».

“Trump potrebbe intervenire unilateralmente per indebolire la moneta americana, o imporre controlli sui movimenti di capitale per limitarne il rafforzamento”

Nouriel Roubini, New York University 

Dal canto suo, Mody coglie gravi rischi in un’interferenza da parte di Trump nelle pratiche societarie e nelle decisioni aziendali. Tormentando le aziende a colpi di tweet affinché mantengano i posti di lavoro negli Stati Uniti (o per punirle per aver scaricato la linea di abbigliamento della figlia Ivanka), Trump ha già iniziato a minare «le norme e le istituzioni che governano i mercati». E secondo Phelps, gli interventi di Trump su Twitter, uniti al suo programma di deregolamentazione, rischiano di rafforzare il corporativismo a scapito dell’innovazione e della concorrenza necessarie a sostenere un certo dinamismo economico e la crescita del reddito.

La ricerca di una cura
In un’epoca in cui i movimenti populisti fanno vacillare la classe politica, c’è la possibilità di formulare a breve un’agenda di politica economica anti-populista positiva? L’economista premio Nobel Michael Spence intravede un’opportunità nel rifiuto di un modello di crescita economica non abbastanza inclusivo da parte degli elettori scontenti. «Dopo aver fatto tabula rasa di supposizioni, pregiudizi e tabù precedenti», scrive, «può essere possibile creare qualcosa di meglio». Similmente, per Stiglitz, il lato positivo del trumpismo è che i suoi avversari stanno scoprendo «un nuovo senso di solidarietà legato a valori fondamentali quali tolleranza e uguaglianza, e rafforzato dalla percezione del bigottismo e della misoginia, sia celati che manifesti, che Trump e il suo team incarnano».

Un assunto implicito che attraversa molti articoli di Project Syndicate è che l’unica profilassi contro il populismo economico è una ridistribuzione più aggressiva. Come sostiene Rodrik, il populismo – così come il malgoverno in generale – emerge quando le élite mostrano scarsa disponibilità a «effettuare una serie di aggiustamenti volti a garantire che davvero tutti traggano benefici» dal modello economico vigente.

Dietro le recenti e ampie espressioni di rifiuto del “sistema” c’è la sensazione largamente condivisa da alcuni gruppi di elettori che la “classe politica” abbia subordinato gli interessi dei cittadini a obiettivi cosmopoliti quali globalizzazione, immigrazione e diversità culturale. La maggior parte dei commentatori concorda sul fatto che shock economici come la Grande Recessione o la crisi del debito sovrano della zona euro non servono né bastano a spiegare l’ascesa del populismo. In realtà, il populismo è più che altro una risposta a un malessere economico protratto nel tempo, all’impoverimento del tenore di vita, al calo della fiducia nelle istituzioni e a una percezione diffusa che i leader in carica abbiano costruito la propria fortuna a spese dei cittadini.

Tutti questi sono problemi economici e politici complessi per cui il populismo offre soluzioni inverosimilmente semplici. Gli oppositori della cura populista dovranno escogitare un’alternativa altrettanto potente, o restare a guardare inermi mentre l’incertezza economica e la disperazione uccidono il paziente.

Brigitte Granville è docente di economia internazionale e politica economica all’Università di Londra Queen Mary, e autrice del recente libro “Remembering Inflation” (Princeton University Press)

Copyright: Project Syndicate, 2017

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