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Dossier Il mondo che ha creato Donald Trump

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    Dossier | N. 8 articoliWorld books

    Il mondo che ha creato Donald Trump

    Da quasi una generazione l’Occidente vive una sorta di progresso all’inverso. Se pensiamo all'instabilità generata dalla guerra in Iraq che dopo il Medio Oriente ha investito l'Europa, agli effetti negativi della crisi finanziaria del 2008 sulla fiducia degli elettori nel capitalismo liberale e alla rinascita dei populismi nazionalisti quasi ovunque, è comprensibile che quanti riflettono sul destino dell'Occidente nel 2017 vogliano cercare qualche elemento positivo o un po' di consolazione.
    Ebbene, non li troveranno in questi quattro nuovi libri. Al contrario, forse un giorno uno storico dirà che queste proposte, tra le molte altre del panorama editoriale, riflettevano uno sguardo morbosamente introspettivo sull'Occidente, rafforzato dalle crescenti sfide politiche ed economiche del loro periodo.

    Il declino della fiducia mina la democrazia

    Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, fa ampio uso di termini che iniziano con il prefisso negativo “de” per descrivere l'attuale crisi dell’Occidente: “demoralizzato, decadente, deflazione, demograficamente a rischio, diviso, disintegrazione, disfunzionale, declino”. A un primo sguardo, il libro di Emmott appare come un viaggio, apparentemente senza direzione, in alcuni Paesi scelti a caso: un momento siamo in Italia o in Svezia, e poco dopo ci ritroviamo in Giappone, passando per la California. E mentre Emmott non spiega mai veramente perché il Giappone sia considerato “Occidente”, la Cina, invece, è inserita tra i “barbari alle porte”, insieme all’Isis, lo Stato islamico, e alla Russia. Di certo, però, l’unilateralismo cinese non è paragonabile all'”esenzionalismo” che ha caratterizzato l’approccio degli Stati Uniti verso organismi o accordi internazionali, quali la Corte penale internazionale e il Trattato sul diritto del mare.

    Nel libro si parla molto, ad esempio, dell’impatto sociale dell’invecchiamento della popolazione o di come potremo convivere con i robot, anche quelli che terranno compagnia alla nonna quando, raggiunti i novant'anni, avrà smesso di lavorare. Affascinanti sono le molteplici digressioni dell'autore, come quando dice che, in base ai requisiti richiesti per il rilascio delle licenze professionali in molti Stati americani, i “cosmetologi” dovrebbero trascorrere a scuola più tempo degli avvocati.
    Ma concentrarsi su dettagli di questo tipo vorrebbe dire non cogliere il messaggio profondo che Emmott cerca di trasmettere. Pur non rinunciando a una difesa classica della “società aperta” alla maniera di Karl Popper o George Soros, egli riconosce che dalla crisi del 2008 molte cose sono andate storte, e a ragione critica ferocemente il ruolo svolto dai banchieri e dai loro prodotti finanziari preconfezionati.

    ““Il declino della fiducia sociale e un senso di ingiustizia preoccupantemente diffuso – che comprende la perdita di un’efficace voce politica o anche di accesso alla legge – stanno minando le fondamenta della democrazia””

    Bill Emmott 

    In particolare, Emmott analizza il declino della fiducia sociale (pur senza collegarlo all’immigrazione da Paesi in cui la fiducia sociale è inesistente) e un senso di ingiustizia preoccupantemente diffuso – che comprende la perdita di un’efficace voce politica o anche di accesso alla legge – che stanno minando le fondamenta della democrazia. Emmott mostra come i privilegi si perpetuano da una generazione all’altra grazie ai vantaggi nel campo dell’istruzione e agli “accoppiamenti non casuali”, per non parlare del restringimento dell’accesso a carriere – ad esempio, quella di attore, cronista d’assalto e musicista pop – che a memoria d’uomo erano sempre state aperte a persone di estrazione popolare dotate di talento. In quale altro modo ci si può spiegare la “dispepsia sociale” che sta spingendo milioni di comuni elettori verso ciarlatani, fanatici e imbonitori?

    Esiste anche un enorme divario tra i lavoratori a tempo indeterminato, che godono di tutele legali e della sicurezza del proprio lavoro, e i precari con contratti temporanei o a zero ore, i cui diritti si limitano all'eventuale chiamata da parte di aziende scaltre per una giornata di lavoro. Il timore di finire in questa trappola probabilmente colpisce coloro che si sono conquistati una semi-rispettabilità, ma ora sentono la propria vita in balia del caso come in un virtuale gioco dell'oca.
    Allo stesso tempo i soldi con la “s” maiuscola hanno oggi più peso che mai – sia attraverso l’accesso diretto ai politici, sia avvalendosi di lobbisti ben introdotti – e i sistemi politici vengono corrotti da interessi particolari tanto potenti quanto gli onnipotenti sindacati britannici degli anni Settanta. Il maggior punto di forza di Donald Trump, come lui stesso non si è mai stancato di ripetere, è stato il non avere bisogno del denaro altrui, mentre Hillary Clinton è apparsa fin troppo disposta ad accettare aiuti provenienti da fonti discutibili, dall’oligarca russo al riccone di uno Stato arabo del Golfo o di Wall Street. Allo stesso modo, il populista olandese Geert Wilders rifiuta ostentatamente i fondi pubblici a cui i partiti politici hanno diritto nei Paesi Bassi – anche se la sua presunta dipendenza da donatori statunitensi anti-islamisti è quasi altrettanto preoccupante dei prestiti agevolati che la leader del Front National francese Le Pen chiede alle banche russe legate al Cremlino.

    L’Unione sempre più sgretolata dell'Europa

    L’ascesa di Le Pen è soltanto una delle ragioni per cui il giovane giornalista neoconservatore americano James Kirchick è catastrofico riguardo al destino dell'Europa. Egli parla di una “Europa avulsa dai valori dell'Illuminismo che ha apportato al mondo, ignara delle proprie conquiste civili e poco disposta a proteggerle, prigioniera di demagoghi sciovinisti, poco incline a difendere se stessa, e impaurita di fronte alla Russia”.

    Un ritorno a uno “stato di natura tradizionale, dove le nazioni perseguono interessi personali venali a scapito dell’unità, non significherebbe soltanto la fine dell'Europa, come la conosciamo oggi”, scrive Kirchick. “Un simile crollo inaugurerebbe niente di meno che una nuova era oscura”.

    ““L’Europa è avulsa dai valori dell’Illuminismo che ha apportato al mondo, ignara delle proprie conquiste civili e poco disposta a proteggerle, prigioniera di demagoghi sciovinisti, poco incline a difendere se stessa, e impaurita di fronte alla Russia””

    James Kirchick 

    A giudicare dai toni di Kirchick, siamo già alle soglie di quest’era oscura, e ciò richiama alla mente il vescovo e poeta dell'impero romano Sidonio Apollinare (430 circa-486) che osserva i Burgundi mentre si cospargono la chioma di burro rancido. Ma Kirchick è più interessato a mappare la superficie del presente, anziché prestare ascolto agli echi della storia remota.
    Il suo libro scorre fluido tra le principali linee di faglia dell’Europa odierna, da Nord a Sud, da Ovest a Est. Kirchick registra con preoccupazione il crescente entusiasmo dei conservatori per quel risoluto uccisore di draghi islamisti che è il presidente russo Vladimir Putin, senza notare che questo sentimento si è insinuato anche nei circoli repubblicani statunitensi, e non a causa della guerra dell'informazione russa.

    I migliori capitoli del libro, in cui l’autore fonde storia, politica e reportage contemporanei senza soluzione di continuità, sono quelli dedicati alla Grecia e all'Ungheria. Il capitolo sulla Grecia esonera senza mezzi termini l’Unione europea da qualunque colpa per il tanto pubblicizzato status di vittima inerme delle “onnipotenti” istituzioni della Troika (la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale) attribuito al Paese. Invece, Kirchick (a ragione) incolpa una lunga tradizione di polarizzazione politica estremizzata e di clientelismo in Grecia, che Syriza (e i suoi colleghi di Anel) ha alimentato mentre faceva i suoi giochetti con la Troika.
    Quanto all’Ungheria, Kirchick è particolarmente illuminante a proposito del sinistro revisionismo storico sul regime dell'ammiraglio Milos Horthy nell'era nazista. Il partito di governo Fidesz, guidato dal primo ministro Viktor Orbán, è riuscito ad adottare otto dei dieci punti del programma del partito neofascista Jobbik, pur continuando a far parte del blocco del Partito popolare europeo, che include i partiti conservatori e centristi nel Parlamento europeo.

    I capitoli meno riusciti sono quelli su Francia, Germania, Regno Unito e Ucraina. Quello dedicato alla Francia è impregnato di un trito allarmismo alla Bat Y'eor sul rischio di una “Eurabia” islamista, che innescherebbe un esodo della più vasta popolazione ebrea d’Europa. Come avviene con altri scrittori ideologici, l’aspetto ben più intrigante dei meccanismi costituzionali ed elettorali viene trascurato, e non si parla affatto di come il sistema elettorale ostacoli il Front National, specialmente le elezioni dell'Assemblea Nazionale, e del fatto che, se anche Le Pen dovesse diventare presidente a maggio, probabilmente si andrebbe incontro a un paralizzante periodo di “coabitazione”.
    La scelta di dedicare gran parte del capitolo sulla Germania alla difesa dell’Agenzia per la sicurezza nazionale statunitense e alla Cia dalle accuse di spionaggio dei politici tedeschi appare sproporzionata, finché non si capisce che Kirchick ha lavorato per Radio Free Europe. È come se comprendere l’economia più grande e di successo dell’Europa dipendesse dal rifiuto del vivido, e piuttosto prevedibile, entusiasmo di Der Spiegel per la questione. L’autore, inoltre, finisce nella trappola di trattare i leader tedeschi come dei bambocci inerti, anziché come gente di potere lucida e calcolatrice che fa gli interessi del proprio paese insieme a quelli dell’Europa.
    Il capitolo sulla Gran Bretagna è in realtà un esteso attacco all'attuale leader del Labour Party Jeremy Corbyn – chiaramente l’uomo che sarebbe diventato Hugo Chávez – e all’antisemitismo che si annida tra le fila laburiste. A Kirchick, che sembra attingere a un bacino ristretto di contatti e materiali di riferimento, avrebbe giovato leggere qualche critico più severo della società britannica, come ad esempio George Walden. I sostenitori della Brexit non gradiranno questa visione americana di un Paese avviato sull’orlo del precipizio – o, piuttosto, verso la Cina, secondo la versione di Kirchick – soprattutto perché molti americani sembrano considerare la Brexit come un segno precursore di Trump.
    Una “età dell’oro” con la Cina – appoggiata sia dall'ex Cancelliere dello Scacchiere George Osborne sia dal primo ministro Theresa May – sembra preoccupare l’autore, che scrive, pur offrendo poche prove a sostegno della sua tesi, “Londra si sta allontanando, senza una direzione precisa, dalla sua visione un tempo fortemente atlanticista e occidentalista verso una zona grigia strategica finora inesplorata e difficile da prevedere”.

    ““Londra si sta allontanando, senza una direzione precisa, dalla sua visione un tempo fortemente atlanticista e occidentalista verso una zona grigia strategica finora inesplorata e difficile da prevedere” ”

    James Kirchick 

    Il libro di Kirchick ovviamente è apparso troppo tardi per considerare come Trump rischia di sconvolgere il mondo, o come le sue diffuse provocazioni potrebbero spingere molti in Europa verso una Cina che, nonostante il suo autoritarismo, sostiene il libero mercato e le istituzioni internazionali. Ma l’autore non offre neanche nuove chiavi di lettura dell’Europa prima di Trump. Il capitolo sull’Ucraina aggiunge poco a quanto generalmente scritto sull’argomento e non approfondisce, ad esempio, la bocciatura da parte del popolo olandese del referendum sull'accordo di associazione tra Ue e Ucraina, che certamente riflette la diffusa sensazione, nei principali Paesi del Benelux, di essere esclusi dall’indefinita espansione a Est dell’Unione. Di fatto, sebbene Kirchick affili molte asce, la sua percezione di ciò che affligge l’Europa è offuscata dall’assenza di un’analisi sistematica dei processi politici europei.

    Orfani della guerra fredda

    Dopo le pagine di Kirchick, che resta un po’ in superficie, si prova una sorta di sollievo leggendo il libro di , una monografia ben articolata, vivace e approfondita sulla politica estera americana dopo la fine della Guerra Fredda. Mandelbaum, autore di classici come The Frugal Superpower, è l’esperto degli esperti in affari esteri,Michael Mandelbaum con uno sguardo attento ai processi politici.

    Questo libro è difficile da etichettare politicamente, il che rappresenta un suo grande vantaggio. Mandelbaum analizza le occasioni mancate che accompagnarono la fine della Guerra Fredda negli anni 1989-1991. Tra le più rimarchevoli, vi fu l’opportunità di creare una nuova architettura della sicurezza europea con la Russia, anche se qualcuno potrebbe obiettare che la Nato era destinata ad allargarsi comunque, data l’influenza degli elettori e dei leader politici polacco-americani.
    Una volta sospeso il confronto tra superpotenze, le forze armate Usa dovevano essere reindirizzate verso nuovi obiettivi. Mandelbaum prende in esame gli interventi esteri degli anni Novanta in Somalia, Haiti, Bosnia e Kosovo, così come la decennale interdizione aerea del Nord e Sud dell’Iraq da parte delle amministrazioni successive. Fu deciso che la Nato era un martello troppo grande per abbattersi su trafficanti di droga e simili. I militari dovevano, dunque, essere riconfigurati come operatori sociali armati. In tal caso, poiché il paradigma tattico di default divenne la controguerriglia, si sarebbero convertiti anche in sedicenti antropologi armati.
    Alla fine, sotto il presidente George W. Bush, questa vena messianica pervase completamente la politica estera americana. Il presupposto era che tutti volevano essere come gli americani, un’idea sostenibile fintantoché dei Paesi piccoli avessero avuto bisogno di una grande potenza che li proteggesse. Ma in un’epoca in cui tanto le élite quanto gli elettori tendono a distrarsi facilmente, costruire nazioni o Stati (non è la stessa cosa) andava oltre le capacità degli americani – uno dei pochi temi che Mandelbaum non approfondisce. Sarebbe stato utile, inoltre, analizzare come Paesi stranieri grandi e piccoli, utilizzando eserciti di lobbisti a Washington, cercano di attirare l’attenzione degli americani e di modellare la loro percezione del mondo.
    All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, degli sciocchi arroganti (soprattutto neoconservatori, ma anche molti liberali) si gettarono a capofitto sull’Afghanistan e poi sull’Iraq per rimodellare società di cui sapevano ben poco. E gli Stati Uniti si stavano solo riscaldando per altre guerre di trasformazione in una mezza dozzina di Paesi. Il resoconto di Mandelbaum è ancora più critico per via della sua scrupolosa imparzialità nei confronti degli attori coinvolti, anche se, a proposito della regola del “chi rompe paga” coniata da Colin Powell, l’autore osserva in tono pungente che “la prospettiva di impossessarsi dell’Iraq non sembrò turbare minimamente il presidente George W. Bush”.

    ““La prospettiva di impossessarsi dell’Iraq non sembrò turbare minimamente il presidente George W. Bush” ”

    Michael Mandelbaum 

    Mandelbaum ha certamente ragione riguardo alle conseguenze di lungo termine di queste guerre per scelta. Nel corso di un estenuante decennio di guerra, gli Usa furono prima troppo distratti, poi troppo esausti per sostenere un ordine internazionale benevolo. E ora quel “lungo termine” è arrivato, portando con sé la malevola rottura di tale ordine. Siamo giunti a un punto, si può affermare con certezza, in cui il presidente cinese Xi, parlando a Davos, suona più come un presidente americano del presidente americano stesso, il quale, nel suo discorso inaugurale, dipinge Milwaukee come una sorta di Mogadiscio.

    Quando Trump finirà il suo mandato, Mandelbaum avrà molto più materiale su cui riflettere, e così tutti noi, ma lui sarà la persona giusta per spiegare le forze ideologiche e pratiche che hanno alimentato la politica estera di Trump.

    Sfacelo o interregno?

    L’intervento lucido e tempestivo di Richard Haass suggerisce la portata dell’'oggetto della nostra riflessione. Haass, un consigliere principale di George H.W. Bush sul Medio Oriente, è stato anche uno stimato inviato in Irlanda del Nord sotto Bush Junior che, in un momento critico (mentre era bloccato nel Paese dopo l’11 settembre), ricordò al Sinn Fein, il movimento indipendentista irlandese, che la comprensione degli Stati Uniti per i terroristi era finita.
    Haass è stato anche un ottimo presidente del Council on Foreign Relations, il consiglio sulle relazioni estere. Il suo libro precedente Foreign Policy Begins at Home avrebbe potuto fungere da vademecum per la nuova amministrazione, se Trump avesse nominato Haass come Segretario di Stato (come alcuni avevano vanamente sperato).

    La prima metà del nuovo libro, che nasce come un trittico di conferenze tenute all’Università di Cambridge, affronta la storia degli ordini mondiali, che si sono, in genere, instaurati all'indomani di guerre catastrofiche: 1648, 1815, 1918 (forse saggiamente trascurato da Haass), e 1945. Un ordine internazionale, spiega Haass, è qualcosa a metà tra le istituzioni formali e le regole del gioco che i principali attori coinvolti accettano più o meno di buon grado. Come esempio, egli offre un resoconto chiaro e conciso dell’evoluzione post 1945 della non-proliferazione nucleare e dell’Organizzazione mondiale del commercio.

    ““Un ordine internazionale è qualcosa a metà tra le istituzioni formali e le regole del gioco che i principali attori coinvolti accettano più o meno di buon grado””

    Richard Haass 

    Visto in questi termini, il più recente principio della “responsabilità di proteggere”, o R2P, tanto amato dagli avvocati paladini dei diritti umani, va ritenuto un fallimento. Da una parte, la Cina, la Russia e molti altri Paesi hanno finito per leggere l’R2P come un diritto dell’Occidente a intervenire; dall’altra, esso potrebbe essere interpretato all'inverso, ad esempio da Putin, per giustificare l’atto di “proteggere” la minoranza russofona in Ucraina.
    Il “momento unipolare” dell’egemonia Usa dopo il 1989-1991 si rivelò evanescente e in definitiva illusorio. Il suo declino avvenne dopo che i neoconservatori statunitensi, nel tentativo di fissare la supremazia americana, riportarono il mondo a uno stato di anarchia pre-Westfaliana intervenendo violentemente negli affari interni di Stati sovrani – anche se il sostegno del presidente Barack Obama al cambio di regime anglo-francese spacciato per intervento umanitario in Libia è stato coerente.
    Questo è tutto un preambolo a ciò che Haass definisce un “mondo in preda alla confusione”, una scelta di parole minimamente consolante, se non altro perché l’autore evita termini più forti quali “anarchia” e “caos”. Fra l’altro, “confusione” è abbastanza potente dal momento che riflette una diffusa preoccupazione per un’epoca indefinita e di transizione, in cui un numero già elevato di crisi regionali e minacce transnazionali rischia di essere soffocato dal riaccendersi di rivalità e conflitti tra le grandi potenze.
    A mio avviso, le parti più prescrittive del libro di Haass sono quelle meno riuscite, perché personalmente faccio fatica ad afferrare cosa intenda per “obbligo sovrano”, il principio alla base del cosiddetto Ordine Mondiale 2.0. Se certamente ha ragione quando dice che gli Usa resteranno il Paese più potente a livello mondiale per i prossimi decenni, penso che si sbagli sul ruolo che avranno gli altri nella definizione del nuovo ordine.

    ““Sul principio dell’essere decisi in politica estera ci sarebbe molto da dire: frequenti capovolgimenti globali corrono il rischio di turbare gli amici e incoraggiare gli avversari. La confusione in casa propria è legata alla confusione nel mondo: le due combinate insieme sono a dir poco deleterie” ”

    Richard Haass 

    Purtroppo, A World in Disarray arriva troppo tardi per prendere in considerazione il fenomeno Trump. Ma forse dalle sue parole emerge un monito velato. “Su un equivalente del principio dell'essere decisi in politica estera ci sarebbe molto da dire”, scrive, perché “frequenti capovolgimenti globali corrono il rischio di turbare gli amici e incoraggiare gli avversari. La confusione in casa propria, pertanto, è indissolubilmente legata alla confusione nel mondo. E le due combinate insieme sono a dir poco deleterie”.

    Mentre leggevo queste parole, Trump rigettava la necessità di due Stati al conflitto israelo-palestinese, uno dei temi principali della politica estera degli Stati Uniti dell'ultimo quarto di secolo. Qualche giorno più tardi, dichiarava, invece, di «apprezzare la soluzione dei due Stati». Allo stesso modo, dopo aver guardato favorevolmente alla prospettiva di un'implosione della Ue (e aver costretto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a convocare un vertice d’urgenza due settimane dopo), nel giro di poco Trump aveva cambiato idea: “Sono completamente a favore della Ue. Penso che sia una cosa meravigliosa, se sta bene a loro. Se loro sono contenti, io sono a favore”.
    Il potere morbido dell'America – un tema trascurato da Haass – sta sfumando davanti ai nostri occhi. Le minacce, i capovolgimenti politici, i “fatti alternativi” e il comportamento capriccioso e spesso stizzoso di Trump hanno fornito abbondante materiale per i social media. Nel mondo reale, però, gli Stati Uniti non saranno più in grado di sostenere l'ordine globale se continuano a perdere seguaci.

    Copyright: Project Syndicate, 2017

    Tra i libri di Michael Burleigh, da ricordare Small Wars, Faraway Places: The Genesis of the Modern World (La genesi del mondo contemporaneo, Feltrinelli, 2014) e Blood and Rage: A Cultural History of Terrorism, The Third Reich: A New History (Il Terzo Reich, BUR, 2013), infine The Best and the Worst of Times: The World As It Is (che uscirà all’inizio di novembre edito da Pan Macmillan). Burleigh è amministratore delegato della società di consulenza Sea Change Partners.