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Berlino e Roma, disaffezione a Francoforte per motivi opposti

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Berlino e Roma, disaffezione a Francoforte per motivi opposti

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Dopo mezzo secolo di straordinari progressi verso la cooperazione e l’aggregazione, il pendolo della storia europea sta drammaticamente tornando indietro. Verso il conflitto e l’insofferenza.

Nulla alimenta tali sentimenti più della percezione di essere vittima di ingiustizia, e ancor più l’iniquità di chi gioca ruoli arbitrali. In questo momento non c’è arbitro più importante della Banca centrale europea, perché in un clima geo-economico-politico incerto quale quello attuale è l’economia a governare le decisioni delle élite, e il portafoglio a determinare le predisposizioni dei popoli.

A torto o a ragione, oggi la Bce non è percepita come un arbitro imparziale o efficace. Né dalle élite, né dai popoli. In Germania il presidente Mario Draghi, che controlla la politica monetaria, viene percepito dal popolo come l’italiano che con la sua politica espansiva e i suoi tassi azzerati sta rovinando la vita – o perlomeno i risparmi della gente. Mentre esperti di fama, quali il capo economista di Commerzbank Joerg Kraemer, lo vedono come l’uomo che sta conducendo l’euro lungo una strada che porta a una valuta pericolosamente debole. Più simile alla lira che al marco.

In Italia, invece, il popolo vede la Bce come espressione dell’euro, e in generale dell’Europa “germanizzata”, quindi la causa principale dei propri mali e del proprio malessere. Mentre molti economisti ritengono che, sin dalla sua nascita, il Single supervisory mechanism (l’organo di vigilanza della Bce) abbia optato per una politica di vigilanza asimmetricamente sfavorevole agli istituti creditizi italiani manifestatasi nell’imposizione di soglie e tempistiche irragionevoli sul problema dei non-performing loans, o Npl. Questa percepita inflessibilità si scontra a loro giudizio con la clemenza, o addirittura il disinteresse, per la criticità data dai derivati – o più precisamente dai cosiddetti “titoli di livello 3” – prodotti che invece abbondano nei portafogli di alcune banche del nord e centro Europa. E in particolare in quelli del gigante finanziario di Francoforte Deutsche Bank.

Insomma, la Banca centrale viene criticata – o apertamente attaccata – da entrambe le parti. Il che potrebbe voler dire che sta svolgendo il proprio mandato di arbitro come deve. Oppure che, pur essendo un organo tecnico, abbia vertici sensibili al fatto che la partita è soprattutto politica, quindi portati a dare un colpo al cerchio (con la politica “espansiva” di Draghi) e uno alla botte (con la politica “restrittiva” del Ssm). Nella speranza di riuscire a traghettare il sistema finanziario europeo fuori dalla turbolenza nata con la crisi del 2007/2008 senza essere travolti dai venti tempestosi provenienti da direzione opposte.

Comunque sia, da questa nostra inchiesta due cose emergono come certe. La prima è che il problema dei Npl delle banche italiane non è un’invenzione di Francoforte. Al contrario, per anni sistema bancario italiano, Banca d’Italia e Palazzo Chigi non solo hanno ignorato il problema, ma lo hanno negato. Soltanto l’intervento energico della sorveglianza europea ha portato alla luce del sole tutta la sua gravità. E ancora adesso in Italia, sulle banche, si preferisce puntare il dito sulle difficoltà altrui. Come ci dice Nicolas Véron, economista francese del Bruegel, un think tank di Bruxelles, «in Italia è diffusa la tendenza a sottrarsi alle necessarie discussioni sulle criticità del sistema bancario andando a sottolineare i problemi altrui. Ma questo è un approccio che non è né costruttivo, né risolutivo».

La seconda cosa certa è però che i dubbi sui titoli di livello 3 di Deutsche Bank balzati alla luce nel 2008 non sono mai stati veramente sciolti dalla vigilanza. Né da quella tedesca prima del novembre 2014. Né da quella europea dopo quella data.

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