È potenzialmente carico di significato l’incontro inaugurale, sotto la presidenza tedesca, dei ministri finanziari e dei banchieri centrali del G20 che si apre oggi a Baden-Baden. Non certo per la rilevanza dell’agenda proposta dal Paese ospitante centrata sui temi soliti delle riforme strutturali e della stabilità fiscale quanto, piuttosto, per il debutto intergovernativo dell’amministrazione Trump in quello che l’ex presidente Obama definì, all’inizio del suo mandato, come il principale foro per la cooperazione economica internazionale. Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, arriva in Germania avendo avuto poco tempo per preparare l’incontro, con i ranghi alti del suo ministero ancora tutti da riempire e una scarsa dimestichezza con le consultazioni intergovernative, dato il suo background di banchiere e uomo di affari. Eppure, considerata l’assenza di documenti programmatici sull’agenda presidenziale in materia economico-finanziaria, risulta ancora più importante per i ministri delle finanze, a partire dal presidente dello stesso foro, il tedesco Wolfgang Schäuble, stabilire un rapporto diretto con il plenipotenziario economico di Trump. Il vero, anche se non dichiarato obiettivo di questo incontro è, infatti, di piuttosto che metterne in evidenza le contraddiziontestare il perimetro negoziale dell’amministrazionei o l’isolamento internazionale.
Del resto, a casa Mnuchin si sta accreditando come un interlocutore pragmatico in alternativa agli ideologi che circondano lo studio ovale della Casa Bianca, cercando di ricomporre le esternazioni presidenziali che ricadono nel proprio ambito, riportandole sul terreno istituzionale loro proprio. In tal senso, è significativo che allorché il presidente Trump reitera l’accusa alla Cina di manipolare il cambio della propria valuta, il segretario al Tesoro afferma di riservare il suo giudizio sino al prossimo aprile, quando il dicastero di cui è titolare concluderà la consueta valutazione semestrale sulle politiche esterne dei paesi partner.
Il punto rilevante è che, sulla base dell’impianto legislativo in vigore e dei criteri tecnici adottati, non è possibile concludere che un Paese manipola il tasso di cambio a meno che la sua banca centrale non intervenga sistematicamente a indebolirne il corso con continue operazioni in valuta. Di recente, le autorità monetarie di Pechino sono intervenute, invece, in direzione contraria, mitigando il deprezzamento dello yuan, non inducendolo, come l’ultimo rapporto semestrale del Tesoro correttamente nota. È presumibile, pertanto, che nel comunicato finale i ministri e i banchieri centrali enfatizzeranno tutt’al più l’impegno a non deprezzare la propria valuta con interventi unilaterali e non concertati – impegno che l’amministrazione Obama aveva già ottenuto, per esempio, al vertice finanziario di Shanghai nel febbraio dello scorso anno. È, invece, sul commercio internazionale che il segretario Mnuchin lancerà dei segnali assai più chiari articolando la posizione dell’amministrazione che, proprio su questo dossier, è più avanzata che su altri. L’amministrazione, spiegherà Mnuchin, non si oppone al libero commercio in principio, ma chiede che gli scambi internazionali avvengano su un terreno di gioco uniforme e simmetrico per poter generare benefici equi per tutti.
Per contro, tale terreno di gioco è sfalsato a danno delle imprese e dei lavoratori americani ogni volta che questi competono con aziende straniere che ricevono sussidi dallo stato in svariate forme; o nei casi in cui barriere regolatorie, talvolta assai sofisticate, compromettono l’accesso profittevole a mercati di altri Paesi—un chiaro riferimento alla Cina; o, ancora, quando l’assetto istituzionale della moneta unica europea fornisce un importante vantaggio ad alcuni Paesi—leggi Germania. In tali casi, conclude l’amministrazione, non si tratta di ostacolare la dinamica delle forze di mercato, quanto piuttosto di favorirla rimuovendo le distorsioni strutturali che la opprimono. In tal senso, sarebbe sbrigativo liquidare la recente affermazione della Casa Bianca secondo cui la Germania beneficia di un cambio sottovalutato. È ovvio che la Bce non interviene normalmente sui cambi e il valore esterno dell’euro non è un obiettivo della sua politica monetaria, ma il punto è che la Germania viene percepita a Washington come il beneficiario di un costrutto istituzionale che le fornisce un indebito “sussidio” che porta ad accrescere ogni anno il suo avanzo corrente con il resto del mondo, pari ora a circa il 9 per cento del Pil.
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