L’idea del lavoro umano soppiantato da altrettanti Avatar cui far pagare le tasse è ancora solo una provocazione intellettuale. Tuttavia autorevole se il primo a farla è Bill Gates che di rivoluzioni produttive e culturali se ne intende. Se poi quelle tasse dovessero servire – come teorizzano in molti – a finanziare un reddito di cittadinanza per remunerare chi il lavoro non lo troverà più, si rischia di creare indirettamente un inedito incentivo al non-lavoro. Con il corollario, neanche tanto corollario, di una società completamente diversa quanto a strutture e valori (a quando poi il diritto di voto al robot-contribuente?).
Fa bene l’Europa a mantenere un approccio prosaico al tema, centrato sul ruolo della formazione da destinare ai giovani, proiettati nella nuova rivoluzione del lavoro in atto che li vedrà anche in competizione con l’avvento dei robot.
L’Europa punta su nuove forme di tirocinio formativo nelle imprese 4.0, sulle internship tra università per calibrare nuovi indirizzi di laurea, ma anche su corsi semestrali più agili (dalla cybersicurezza allo sviluppo delle app, dal web design all’analisi dei social media). L’obiettivo è creare le competenze che il mercato chiede davvero.
Che il lavoro debba fare i conti con l’impatto del nuovo modo di produrre imposto dall’Industria 4.0 e del ruolo centrale delle nuove catene del valore globale è fuori dubbio. Il centro studi Bruegel ha stimato che nei prossimi decenni il mercato europeo lascerà sul campo dal 45 al 60% della forza lavoro destinata ad essere sostituita da robot e algoritmi. Diversi studi europei riportano una conclusione comune: il lavoro delle filiere tradizionali manifatturiere è già in fase di sostituzione da parte di macchine a controllo digitale, interconnesse in cicli produttivi globali, senza confini e senza tempi.
Le catene di montaggio esistono ancora adesso, ma è chiaro che il concetto novecentesco di alta intensità di manodopera è destinato a spostarsi dalle linee di produzione (dove i robot saranno la maggioranza) alla produzione di dati, al nuovo mondo del controllo dei big data, dove tutti gli esperti accreditano il più elevato tasso di sviluppo dell’occupazione futura.
Ciò che non è ancora chiaro è se questa rivoluzione porterà un saldo positivo tra posti lasciati sul campo e nuovi lavori legati alla gestione delle “macchine digitali”.
I bancomat hanno sostituito decine di migliaia di cassieri agli sportelli delle banche, ma le società di investimento sono diventate giganteschi network dove lavorano migliaia di tecnici informatici e di matematici per gestire, sul filo dei nanosecondi, algoritmi di acquisto e di vendita. Il drone postino, il robot vigile del fuoco, l’albergo giapponese a completa conduzione digitale con replicanti umanoidi sono già realtà. Entrerà in produzione presto R1, il primo robot-badante, creato dall’Istituto italiano di tecnologia. L’auto a guida remota e digitale farà impallidire il dibattito feroce tra tassisti e Uber.
È ormai evidente che i nuovi modi di produrre e creare servizi imporranno una riduzione delle opportunità di lavoro nei settori tradizionali (poche persone ad alta formazione destinate al controllo di molti robot) e ne apriranno di nuove in settori come la logistica, i trasporti, la cura delle persone, i servizi on demand, la manutenzione nel senso più ampio del termine.
Con un’ulteriore variante: la possibilità che con la meccatronica e la robotica made in Italy, riconosciute eccellenze su scala mondiale, si apra una nuova stagione di reshoring delle produzioni, di un ritorno in patria delle filiere delocalizzate anni fa per inseguire i vantaggi sul costo del lavoro che ormai i robot azzerano.
La crisi ha finora lasciato sul campo quasi un milione di posti di lavoro, un quarto della base produttiva, la meno resiliente: sono stati colpiti gli operai ma anche parte degli impiegati; la recessione ha diviso il Paese tra un gruppo di imprese ad alta competitività e perfettamente inserite nel contesto di produzione moderna di beni e servizi, un gruppo intermedio di imprese non ancora agganciato al nuovo paradigma tecnologico ma con un potenziale positivo (ed è il più consistente) e un terzo gruppo di aziende (minoritario) comunque destinate a uscire dal mercato perché non più in grado di affrontare la sfida tecnologica.
È evidente come sia centrale, quindi, la creazione delle competenze necessarie a traghettare il drappello mediano delle imprese per consentire loro di affrontare l’upgrading tecnologico e, per quella strada, aumentarne la competitività. Purtroppo il sistema formativo non sembra ancora orientato a creare quel tipo di talenti; e prima si attrezza meglio è, se è vero che le macchine oggi raddoppiano la loro potenza ogni 18 mesi, come ci avverte il sociologo Domenico De Masi, tra i primi ad avere teorizzato l’avvento dei robot.
La sollecitazione fatta dall’Europa va nella giusta direzione ma sarebbe del tutto inutile per l’Italia se non venisse completata l’infrastruttura di base necessaria a creare le condizioni per Industria 4.0: la diffusione della banda larga su tutto il territorio nazionale.
Miglioramenti ne sono stati fatti: la copertura con reti di nuova generazione in un anno è passata dal 41 al 72%, ma è solo nel 17% dei Comuni dove sono insediati i distretti del made in Italy. La media europea è al 76%; è significativo che Paesi come Spagna e Germania siano oltre l’80 per cento.
L’Europa stima 500mila posti di lavoro entro il 2020 nel settore dell’Ict; sarà qui la vera competizione tra i talenti del Vecchio Continente. Senza banda larga, però, per i candidati italiani sarà difficile fare anche solo l’allenamento.
© Riproduzione riservata