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Dossier Il «problema infernale» del nuovo disordine mondiale

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il «problema infernale» del nuovo disordine mondiale

Nel suo libro “A Problem from Hell”: America and the Age of Genocide (ed. italiana “Voci dall’inferno: l’America e l’era del genocidio”, Baldini Castoldi Dalai, 2004 ), che uscì nel 2002 e vinse il Premio Pulitzer l’anno successivo, Samantha Power condannava l’inazione degli Stati Uniti nel prevenire o fermare alcune delle peggiori stragi etniche del ventesimo secolo. Come, però, lei stessa avrebbe riscontrato in seguito ricoprendo il ruolo di ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite durante l’amministrazione Obama, quella d’intervenire raramente è una scelta facile. Oggi, mentre l’intensificarsi delle tensioni nella penisola coreana rischia di far precipitare la regione nel caos, tale riflessione sembra avere più rilievo che mai.

Nel suo libro, Power descrive le dinamiche distruttive che spesso si attivano quando lo sciovinismo nazionale o religioso si combina con il fallimento dello stato. Il titolo scelto dall’autrice è preso in prestito da Warren Christopher, segretario di Stato americano durante la guerra dei Balcani degli anni novanta. «L’odio che c’è tra bosniaci, serbi e croati ha dell’incredibile», diceva Christopher. «È un problema terribile e vecchio di secoli, che sembra giungere dritto dall’inferno».

In tempi di rapido sviluppo tecnologico ed economico, gli impulsi ancestrali all’origine di questi problemi possono sembrare anacronistici. La “storia” sembra finalmente cedere il passo al “progresso” – un ideale incompatibile con eccidi di massa, spopolamenti forzati e crisi dei rifugiati. Tuttavia, come Power ci ricorda, due ragioni hanno finora reso impossibile tradurre il ritornello del “mai più” in realtà: la prima è che le radici profonde dei conflitti passati spesso restano appena sotto la superficie; e la seconda è che gli esseri umani hanno una capacità innata per l’odio, la discordia e la violenza. Pertanto, in un articolo scritto nel 2002 per Project Syndicate, Power metteva in guardia dall’eccessivo compiacimento: «Se la storia ha una funzione predittiva – scriveva – una nuova “eruzione” di brutalità di massa potrebbe essere imminente».

Quindici anni dopo, visti gli indicibili orrori subiti dalle popolazioni di vari Paesi, dalla Siria al Sud Sudan, l’avvertimento di Power si è rivelato tragicamente premonitore. Molti commentatori di Project Syndicate temono, infatti, che la strada per l’inferno si stia preparando – con buone o cattive intenzioni, o con propositi per nulla discernibili – in un crescente numero di luoghi, compreso, e la cosa è ancora più allarmante, un contesto in cui una catastrofe nucleare è una possibilità reale. Inoltre, come questi esperti evidenziano, è emerso un comune acceleratore di conflitti a livello globale, e cioè la crescente disfunzione delle istituzioni nazionali e internazionali.

Nessun ordine mondiale
Le guerre dei Balcani scoppiarono all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, un evento che molti all’epoca considerarono foriero di una transizione globale che avrebbe inevitabilmente portato al trionfo geopolitico della democrazia liberale in stile occidentale. Ma, come lo scorso quarto di secolo ha dimostrato, un interregno globale può essere una faccenda lunga e imprevedibile. Come osserva Mark Leonard del Consiglio europeo per le relazioni estere, tali epoche spesso si rivelano «i periodi più terribili della storia». Citando Antonio Gramsci, Leonard fa notare che, «tumulti, guerre e persino malattie possono inondare il vuoto» che si forma quando «il vecchio ordine muore e il nuovo non può nascere».

Secondo Leonard, la crisi finanziaria globale del 2008 e gli sconvolgimenti politici del 2016 hanno segnato l’inizio di un nuovo interregno. A suo avviso, “l’ordine della sicurezza garantito dall’America” e “l’ordine legale inspirato dall’Europa” si stanno logorando, “e non s’intravede ancora un degno sostituto all’orizzonte”. Allo stesso modo, l’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio pensa che il mondo si stia preparando all’avvento di un “modello internazionale ben diverso, che deve ancora palesarsi e che si distinguerà tanto dall’’equilibrio dei poteri’ del diciannovesimo secolo quanto dalla ’comunità degli stati’ del ventesimo secolo.

Poiché l’attuale strategia estera di Donald Trump è completamente incentrata sull’America – “America first” – qualcuno pensa che la Cina potrebbe diventare una forza stabilizzatrice. Ma, come Yong Deng dell’Accademia navale americana osserva, anche se volesse assumere tale ruolo, la Cina avrebbe difficoltà a svolgerlo efficacemente poiché manca del «potere e della legittimazione geopolitici» che gli Usa avevano quando la Pax Americana venne istituita dopo la seconda guerra mondiale. Come Richard Haass, presidente del Consiglio per le relazioni estere, spiegava nel 2013, «l’alternativa a un mondo guidato dagli Stati Uniti non è un mondo guidato dalla Cina, dall’Europa, dalla Russia, dal Giappone, dall’India o da qualsiasi altro Paese, ma piuttosto un mondo senza alcuna guida». Egli prevedeva che una rinuncia alla leadership americana avrebbe dato luogo a «crisi croniche e conflitti», che sarebbero stati «deleteri non solo per gli americani, ma per la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta».

Ora che l’America sembra avviata su questa strada, l’ex primo ministro svedese Carl Bildt prevede che le crisi non saranno soltanto croniche, ma anche ingestibili. «Non bisogna estremizzare il timore che le cose sfuggano al controllo – osserva – ma è innegabile che la prossima crisi potrebbe essere molto più imponente di quello a cui siamo abituati, se non altro perché risulterebbe più difficile da gestire». Bildt ritiene che abbiamo ormai superato i «tempi della normalità» in cui le relazioni internazionali offrivano «una prevedibilità, un’esperienza e una stabilità tali da rendere gestibili persino gli eventi improvvisi, senza dare luogo a uno scontro tra potenze». Con l’attuale «affermazione di un atteggiamento collettivo che pone l’io al centro», egli pensa che «dovremmo prepararci alla possibilità che il disordine assuma una dimensione globale».

Disseppellire i fantasmi dell’Europa
In realtà, la prossima crisi potrebbe avere sembianze fin troppo familiari. Di recente Bildt si è recato in visita in Bosnia, dove negli anni novanta aveva ricoperto vari incarichi diplomatici importanti, e lì, racconta, gli è stato chiesto più volte «se c’è il rischio che nella regione scoppi un’altra guerra». Sebbene «le circostanze odierne siano molto diverse da quelle» degli anni novanta, egli teme che «la regione diventi sempre più infiammabile», e che «alcune teste calde» possano «appiccare fuochi difficili da contenere».

L’unico modo per arginare il nazionalismo che «si è ripetutamente scontrato con il mosaico di vita civile che da sempre caratterizza la regione, alimentando un conflitto dopo l’altro», Bildt sostiene, è incorporare i Paesi balcanici nell’Unione europea. Dal momento, però, che finora solo la Slovenia e la Croazia sono entrate a farne parte, egli non s’illude che sarà un’impresa facile, soprattutto tenendo conto della crescente influenza della Russia nella regione.

La cosa peggiore, come dimostrano gli accadimenti dell’ultimo anno, è che l’Ue rischia di perdere la sua attrattiva tra i membri attuali e futuri. Essa «è incapace di conservare a lungo il sostegno dei cittadini», osserva l’ex ministro francese per gli Affari Europei Noëlle Lenoir, non ultimo a causa del «campanilismo dei leader europei». «La mancanza di una prospettiva storica nell’attuale generazione di leader politici – commenta Lenoir – mina il senso di responsabilità condivisa necessario per trasmettere ai cittadini europei il senso di appartenenza alla stessa comunità». E, senza quello, «i populisti di destra possono accaparrarsi il loro appoggio» facendo appello all’identità nazionale e «difendendola contro l’Europa “straniera”», o contro gli stranieri in generale.

“La mancanza di una prospettiva storica nell’attuale generazione di leader politici mina il senso di responsabilità condivisa necessario per trasmettere ai cittadini europei il senso di appartenenza alla stessa comunità”

Noëlle Lenoir, ex ministro francese per gli Affari Europei 

Per molti populisti europei la vittoria di Trump negli Stati Uniti è stata una fonte d’ispirazione. Contrapponendo un’identità nativista «alle minoranze e agli immigrati», scrive l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, «i populisti di destra come Marine Le Pen in Francia, Frauke Petry in Germania e Geert Wilders nei Paesi Bassi fanno leva sull’emotività dei cittadini» anziché appellarsi al loro «buonsenso». Ben-Ami ammette che oggigiorno per vincere le elezioni «bisogna strizzare l’occhio alla politica populista». Ma sebbene attaccare «il sistema consolidato, anche quando il candidato ne fa parte, sia ormai la norma», egli spera che un populismo «più illuminato» – come quello promosso dal senatore Bernie Sanders durante la campagna per le presidenziali Usa lo scorso anno – possa salvare la democrazia dall’etnocrazia.

Votare contro l’«Altro»
Tutto ciò non è avvenuto durante le recenti elezioni in Olanda. Sebbene Wilders abbia perso, i partiti vincitori, sottolinea Steven Nadler dell’Università del Wisconsin-Madison, «si sono appropriati di alcuni elementi del suo messaggio xenofobo». Secondo l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, si tratta di un messaggio che scaturisce da una visione del «mondo attraverso un prisma razzista», e dalla convinzione di Wilders «di essere impegnato in una battaglia per salvare la civiltà occidentale dall’Islam».

Per Ian Buruma del Bard College, il pensiero che l’Islam «rappresenti una minaccia letale per la civiltà occidentale» ricorda «l’antisemitismo degli anni trenta». Addirittura, Buruma si domanda se i populisti odierni non abbiano semplicemente «sostituito i semiti di allora con un altro gruppo». Laddove «Hitler definiva gli ebrei come “germi patogeni”», Buruma osserva, «Frank Gaffney, figura di spicco nei circoli nazionalisti di Trump, ha paragonato i musulmani a delle “termiti” che «erodono la struttura della società civile e di altre istituzioni». In entrambi i casi, Buruma avverte, la retorica è chiaramente sterminazionista. «Quando degli esseri umani vengono paragonati a parassiti, germi o dannose termiti», sostiene, «la conclusione che vadano distrutti per difendere la salute sociale non è poi così remota».

Di recente, Buruma ha suggerito che «un buon test per capire da che parte stanno le persone» è chiedere loro «cosa pensano dell’investitore e filantropo internazionale George Soros». Soros incarna «tutto ciò che i nativisti e gli antisemiti odiano», e le sue iniziative ispirate alla società aperta in Europa orientale sono state giudicate particolarmente irritanti da politici “illiberali” come il primo ministro ungherese Viktor Orbán – che definisce Soros un «predatore» – e dal leader de facto della Polonia, Jarosław Kaczyński.

Eppure, come dimostra Slawomir Sierakowski dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, Kaczyński «è riuscito ad assumere il controllo su due questioni care e vicine agli elettori: i trasferimenti sociali e l’immigrazione». E ora che il nazionalismo illiberale ha stabilito una testa di ponte nell’Europa orientale, e influenzato notevolmente la politica olandese, tutti gli occhi sono puntati sulla Francia, dove il Front National, il partito di estrema destra di Marine Le Pen, è risultato in testa nei sondaggi per il primo turno delle presidenziali di aprile.

Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy teme il peggio. A suo parere, il cinico elettorato francese, dopo essere passato da un «egualitarismo redentore a una ribellione contro le pari opportunità e a un desiderio di regolare i conti», è avviato sulla «strada che conduce una società dalla vita alla morte». Dal canto suo, Verhofstadt continua a sperare in una «controffensiva» liberal-democratica, ma ammette che una vittoria di Le Pen significherebbe che i «pericolosi demoni nazionalisti del passato europeo» si sono risvegliati. E l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer è altrettanto funereo: «Le cripte del nazionalismo», dice, sono state riaperte. A meno che non vengano richiuse, «col tempo scateneranno di nuovo i loro demoni sul continente – e sul mondo intero».

Tempeste nel deserto
Altrove, i demoni della storia stanno già seminando disordine. Ishac Diwan, professore ospite e affiliato della Belfer Center’s Middle East Initiative presso l’Università di Harvard, sostiene che «una lunga tradizione di governi dispotici e sofferenze ignorate» nel Medio Oriente e in Nord Africa «hanno contribuito a fomentare conflitti». Sei anni dopo la primavera araba, Diwan nota che «antiche fratture insanabili» hanno assunto «nuovo rilievo, e ciò si riflette nel malcontento dei sunniti in Siria e Iraq, degli sciiti in Bahrain, Arabia Saudita e Yemen, e dei curdi e dei palestinesi ovunque». E in molti di questi Paesi, le rivolte del 2011 hanno trasformato tali fratture nel massimo avvenimento politico. «In assenza di istituzioni atte a garantire una transizione politica pacifica in questi Paesi», Diwan afferma, «i gruppi violenti si sono ritrovati ad avere un vantaggio sui cittadini comuni, e ne è scaturita un’aspra lotta per il poter».

Inoltre, secondo Diwan, «la situazione sempre più grave dei palestinesi», resta «un motivo di perenne malcontento tra arabi e musulmani», e difficilmente cambierà nel breve termine. «Dopo mezzo secolo di occupazione dei territori palestinesi – riferisce Ben-Ami – Israele sta cedendo ai suoi impulsi di etnocentrismo più profondi e rifiuta sempre di più le frontiere riconosciute». Nella sua personale variante di autoritarismo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu adesso promuove «l’immagine dell’”ebreo” isolato e traumatizzato» rispetto a quella «dell’”israeliano” laico, liberale e globalizzato concepita dai padri fondatori». E questo richiamo all’ebraicità non solo fa vincere le elezioni, ma contribuisce anche a «bloccare i negoziati per una soluzione del conflitto israelo-palestinese».

Un’eccezione nella regione è rappresentata dai curdi, che, secondo Levy, «si stanno avvicinando a una svolta cruciale: una dichiarazione di autodeterminazione sotto forma di uno stato indipendente in cui tutti i cittadini possano vivere in libertà e a testa alta». Levy è convinto che, dopo la sconfitta dello Stato islamico, un referendum nel Kurdistan iracheno darà vita a un nuovo stato-nazione che «rappresenterà un polo di stabilità in una regione sempre più esposta al fanatismo e al terrore».

Ma tale risultato dipenderà molto dalla Turchia. E, come l’ex segretario generale della Nato Javier Solana sottolinea, uno degli obiettivi primari della «politica estera sempre più capricciosa» del presidente Recep Tayyip Erdogan è «ostacolare la creazione di un Kurdistan indipendente che possa esercitare la propria influenza sulla Turchia sud-orientale». Solana ritiene che «gli Stati Uniti e l’Ue debbano continuare a insistere con Erdogan affinché persegua priorità sensate su cui tutti concordano, come fermare la barbarie dello Stato islamico». Tale obiettivo non può essere raggiunto senza i curdi. Una forza «in grado di conquistare Raqqa, la roccaforte dello Stato islamico in Siria», Solana osserva, deve essere «il più inclusiva possibile».

Ma Erdogan potrebbe non lasciarsi convincere, e ciò, secondo Andrew Wachtel, presidente dell’American University of Central Asia, potrebbe significare la rovina per la Turchia. Erdogan, infatti, ha scoperchiato il vaso di Pandora prendendo la «fatidica decisione» di «rilanciare l’intermittente guerra civile con la popolazione curda della Turchia».

Con il terrorismo in aumento, la Turchia rischia di infilarsi in «una spirale di morte nel preciso istante in cui i suoi cittadini andranno a votare» ad aprile per un referendum costituzionale che, come osserva Solana, conferirebbe a Erdogan «poteri persino superiori» a quelli che deteneva Mustafa Kemal Atatürk, il venerato “padre” della Turchia moderna. Wachtel, avvertendo che la Turchia è ormai «incapace di gestire le molteplici crisi che affronta», prevede un risultato infernale: «L’economia turca subirà un crollo, che causerà un esodo massiccio di rifugiati – tra cui siriani e altri gruppi etnici che attualmente si trovano in Turchia –, nonché di turchi, verso l’Europa occidentale».

Anche l’India rischia gravi disordini interni dopo la vittoria ad ampia maggioranza del partito nazionalista indù Bharatiya Janata (Bjp) del primo ministro Narendra Modi nell’Uttar Pradesh, lo stato più grande del paese. Il Bjp, osserva Devesh Kapur dell’Università della Pennsylvania, «non ha presentato un solo candidato musulmano, anche se circa il 18% della popolazione dello stato è musulmana». Ancor peggio, tuttavia, è il fatto che Modi abbia nominato Yogi Adityanath come chief minister. Adityanath, dice Kapur, «è un classico rappresentante del nazionalismo indù più rabbioso, un sobillatore e provocatore antimusulmano che, insieme ai suoi seguaci, è stato accusato di fomentare tumulti popolari».

La possibilità di scontri violenti non avrà come unico effetto quello d’indebolire un’economia statale già povera e di rallentare la crescita complessiva dell’India. «I rischi vanno ben oltre l’aspetto economico», Kapur continua. «Anche se l’India ospita una delle comunità musulmane più numerose al mondo, finora i suoi membri si sono astenuti dal partecipare al teso dibattito globale sull’Islam militante». Questa situazione, tuttavia, potrebbe cambiare «qualora i musulmani del Paese si sentissero deliberatamente ignorati», e poiché il BJP fa leva su un «sentimento antimusulmano per rafforzare i voti indù», le probabilità che ciò avvenga sono elevate. «Poiché lo Stato islamico e l’Inter-Services Intelligence, gli imprevedibili servizi di sicurezza del Pakistan, cercano sempre di mettere il naso negli affari dell’India – Kapur sottolinea – una strategia politica apertamente antimusulmana equivale a giocare con il fuoco».

“Anche se l’India ospita una delle comunità musulmane più numerose al mondo, finora i suoi membri si sono astenuti dal partecipare al teso dibattito globale sull’Islam militante”

Devesh Kapur, Università della Pennsylvania 

Nel frattempo, in Afghanistan – un ginepraio per antonomasia – la Russia sta mobilitando i propri fantasmi per tenere gli Stati Uniti bloccati. «Quasi tre decenni dopo la fine della guerra dell’Unione sovietica in Afghanistan», riferisce Brahma Chellaney del Center for Policy Research di New Delhi, «la Russia si è data da fare per accaparrarsi un ruolo centrale negli affari afgani», non da ultimo «sostenendo i talebani in Afghanistan». Secondo Chellaney, l’obiettivo del presidente russo Vladimir Putin è «destabilizzare il governo afghano nello stesso modo in cui gli Stati Uniti, aiutando i ribelli siriani, hanno indebolito il regime di Bashar al-Assad sostenuto dalla Russia». Allo stesso tempo, «diventando un soggetto fondamentale in Afghanistan», dove i talebani hanno recentemente conquistato un distretto strategico nella provincia di Helmand, «la Russia può costringere l’America ad aver bisogno del suo aiuto per districarsi dalla guerra che imperversa nella regione».

La polveriera asiatica
L’America avrà anche bisogno di aiuto da un rivale nella penisola coreana, dove la Corea del Nord si sta adoperando per mettere a punto un missile balistico intercontinentale con testata nucleare in grado di raggiungere gli Stati Uniti. Avendo il leader nordcoreano Kim Jong-un dato il benvenuto all’amministrazione Trump con un nuovo ciclo di test missilistici all’inizio dell’anno, Christopher Hill, vice segretario di Stato americano per l’Asia orientale, osserva che «Trump ha ora ereditato l’annoso problema della Corea del Nord, una crisi globale ricorrente che dagli anni ottanta figura tra le questioni più spinose nell’agenda di politica estera di ogni presidente americano». Hill non intravede «alternative valide», e invita a «dispiegare tutte le risorse disponibili, puntando soprattutto al rafforzamento dei rapporti diplomatici e alla cooperazione con la Cina».

Tuttavia, come Minghao Zhao del Charhar Institute di Pechino sottolinea, «Trump sembra deciso a rafforzare la pressione sulla Corea del Nord, anziché applicare la retorica della sua campagna elettorale e parlare direttamente con Kim». E il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha confermato l’interpretazione di Zhao, rifiutando apertamente di negoziare con la Corea del Nord e mettendo tutte le altre opzioni “sul tavolo”.

“Trump sembra deciso a rafforzare la pressione sulla Corea del Nord, anziché applicare la retorica della sua campagna elettorale e parlare direttamente con Kim”

Minghao Zhao, Charhar Institute di Pechino 

Abbandonando la via della diplomazia, però, l’amministrazione Trump sta scartando la sua chance migliore – e unica – di risolvere la crisi. Secondo Yoon Young-kwan, ex ministro degli Esteri della Corea del Sud, una risposta militare è «una soluzione pericolosa e inefficace, perché probabilmente la Corea del Nord reagirebbe attaccando la Corea del Sud». E, come Hill, Yoon ci ricorda che l’applicazione di eventuali «sanzioni sufficientemente pesanti da indurre il leader della Corea del Nord a tornare sui suoi passi richiederà la collaborazione della Cina, e che ottenerla non sarà facile».

Una possibile soluzione, suggerisce Yoon, è che gli Usa portino avanti un dialogo parallelo sia con la Cina che con la Corea del Nord per placare in simultanea le preoccupazioni di entrambi i Paesi in relazione alla sicurezza. A tale scopo, egli propone che Trump «prometta alla Cina che la sua amministrazione non spingerà per un cambio di regime in Corea del Nord, offrendo invece garanzie sul piano della sicurezza se la Corea del Nord accetta di denuclearizzarsi»; oppure, in alternativa, «offra di ritirare il nuovo sistema missilistico americano Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) – a cui la Cina si era opposta – dalla Corea del Sud non appena la Corea del Nord avrà rinunciato al suo programma nucleare».

Anche Haass vede la necessità di intavolare negoziati, ma ritiene che gli «Stati Uniti dovrebbero porre dei limiti in tal senso». Ancor più importante, «non si possono fermare i test militari di routine da parte degli Usa e della Corea del Sud, poiché sono una componente di deterrenza e di difesa vista la minaccia militare posta dalla Corea del Nord». Haass suggerisce che, in cambio del «congelamento dell’arsenale missilistico e nucleare da parte della Corea del Nord, gli Stati Uniti e i loro partner offrano, oltre a negoziazioni dirette, l’allentamento delle sanzioni», accettando anche di «firmare, oltre sessant’anni dopo la fine della guerra di Corea, un accordo di pace con la Corea del Nord».

Chiudere la porta?
Tra i problemi infernali di oggi, quello riguardante il programma nucleare della Corea del Nord è senz’altro il più urgente. Se la Corea del Sud e il Giappone dovessero mai sentirsi costretti a sviluppare un programma nucleare – come Trump ha suggerito in un’occasione – potrebbe risultarne una corsa agli armamenti a livello regionale o persino globale. «Ciò darebbe adito a uno scenario estremamente pericoloso», sostiene Richard Weitz dell’Hudson Institute. «A parità di condizioni, un aumento degli Stati dotati di arsenale nucleare implica un maggior rischio di guerre, terrorismo e incidenti nucleari».

Tuttavia, anche se negli ultimi anni i problemi difficili si sono moltiplicati, la cooperazione internazionale ha ottenuto alcuni risultati importanti, come l’accordo sul nucleare iraniano, l’accordo sul clima di Parigi, e l’accordo di pace siglato tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero delle Farc. Il grosso interrogativo adesso è se tale collaborazione sarà ancora possibile nell’era di Trump, malgrado il suo essere imprevedibile e il suo disprezzare le leggi internazionali e le istituzioni “globaliste”.

“A parità di condizioni, un aumento degli Stati dotati di arsenale nucleare implica un maggior rischio di guerre, terrorismo e incidenti nucleari”

Richard Weitz, Hudson Institute 

Se lo sarà, un’Europa unita, forte e sicura di sé sarà imprescindibile, e per Verhofstadt il raggiungimento di questo obiettivo presuppone che tutti gli Stati membri aderiscano a norme liberal-democratiche. Facendo appello all’Ue per «cominciare a difendere la democrazia liberale in Polonia prima che sia troppo tardi», Verhofstadt propone di «assoggettare le future erogazioni di fondi strutturali al rispetto dello stato di diritto da parte dei Paesi beneficiari». Come egli sottolinea, «è assurdo che oggi l’Ue disponga di strumenti per l’applicazione di regole di ogni tipo, da quelle sulla concorrenza a quelle sulla vigilanza, ma non per proteggere i suoi principi liberal-democratici fondamentali».

Inoltre, Palacio suggerisce che, per riuscire a promuovere un’azione coordinata, l’Ue dovrà mantenere la sua attuale struttura intergovernativa, «che sostanzialmente significa un’unione a guida tedesca». Tale risultato «non è quello che i suoi fondatori avevano immaginato», osserva, «ma è praticabile, purché gli europei riconoscano che questa è la strategia che hanno scelto e optino per un livello di cooperazione piuttosto elevato». Supponendo che «Angela Merkel riesca a restare in carica oltre settembre», conclude, un’Europa guidata dalla Germania «potrebbe non essere una cattiva soluzione» a fronte di «un mondo sempre più aggressivo».

Se però l’Europa va in fumo, la Cina continua a mantenere le distanze sul piano globale e Trump resiste, la cooperazione internazionale rischierà d’indebolirsi, così come le istituzioni che ne sono alla base. In tal caso, gli innumerevoli “problemi dall’inferno” di oggi si intensificheranno ulteriormente e ne attireranno di nuovi. Ciò che in teoria non sarebbe dovuto succedere di nuovo rischia, invece, di diventare routine.

Traduzione di Federica Frasca

Copyright: Project Syndicate, 2017

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