Anche senza voler dare valore di tendenza profonda a numeri che sono per natura loro congiunturali e statisticamente “effimeri”, la fotografia dell’Istat sul mercato del lavoro a febbraio dimostra quanto sia vitale affrontare con decisione il tema del cuneo fiscale. Almeno su due fronti, questi sì, strategici: il rafforzamento dell’occupazione giovanile e il rilancio della domanda interna.
L’Italia del lavoro è fatta di un esercito di cinquantenni che ritrova l’impiego “congelato” dalla crisi (con cassa integrazione e con trasformazioni dei contratti da tempo indeterminato a part time o a collaborazione) e di un popolo di giovani, il miglior capitale umano di sempre, ai margini del mercato e a fortissimo rischio di demotivazione o di fuga.
Le aziende, quelle che sono riuscite a sopravvivere e a guardare con nuova speranza al futuro, finita la buriana della recessione, innanzitutto recuperano le risorse su cui avevano investito per anni. E i giovani scontano un anomalo periodo di attesa che non consente di spostare significativamente le variazioni statistiche: in un anno si sono creati solo 15mila posti per chi abbia tra 15 e 24 anni, mentre sono aumentati di più del doppio gli inattivi (36mila), vale a dire coloro che non studiano e non cercano nemmeno un lavoro perché demotivati e certi di non poterlo trovare.
Come sempre questi dati non sono mai monocromatici ed è significativa la situazione di chi abbia tra 25 e 34 anni di età: qui si sono creati 17mila posti e sono aumentati di 57mila unità i disoccupati, mentre sono scesi di 126mila gli inattivi, segno che è più forte la volontà di avventurarsi sul mercato del lavoro alla ricerca di un impiego rispetto alla sfiducia di non poter trovare realmente uno sbocco.
Il segnale di fondo è uno solo: finiti gli incentivi del jobs act per i neoassunti, i contratti a tempo indeterminato sono scesi di 17mila unità ed è ritornato competitivo il contratto a termine con un balzo di 23mila unità.
Con un corollario: l’uso di forme più precarie di ingaggio non agevola il modello sociale alla base della creazione duratura di nuova ricchezza e di nuovo sviluppo che resta fondato sulla diffusione dei nuclei familiari e sul loro classico stile di consumo e di risparmio.
Una nuova misura strutturale di incentivazione per le assunzioni dei giovani potrebbe modificare la situazione. I noti problemi di finanza pubblica e di scarsissima manovrabilità dei conti rispetto ai vincoli europei impediscono di tagliare, come si dovrebbe, in modo massiccio il cuneo italiano (secondo i dati Ocse è del 49% la distanza tra salario del lavoratore e costo del lavoro pagato dall’impresa tra i più alti d’Europa), è invece percorribile una strada mediana di una riduzione significativa del carico fiscale sui neoassunti. Gli oneri di mancato gettito sono gestibili e alla portata della manovra in corso di elaborazione.
Così come sembra gestibile, ed è già allo studio dei tecnici del ministero dell’Economia, l’allargamento dei benefici della decontribuzione del salario di produttività anche alla parte di costo del lavoro in carico all’impresa e non solo alla quota oggi in capo al lavoratore. Il progetto che vede premi fino a 3mila euro tassati al 10% per il lavoratore abbinati a una decontribuzione epr ildatore di lavoro fino a 800-mille euro va nelle direzione giusta.
Si crea in questo modo lo spazio per irrobustire la nuova tendenza delle relazioni industriali: incentivare la produttività è l’unico modo per allargare la torta delle risorse altrimenti non distribuibili. L’incentivo farebbe aumentare il ricorso ai premi di produttività - con un occhio particolare per le piccole imprese e contribuirebbe, per quella via, a modernizzare i rapporti tra le parti sociali potenziando il livello contrattuale aziendale, obiettivo ormai condiviso da tutte le parti sociali. L’importante è che la misura sia di facile applicazione e non vincolata ai bizantinismi cui ci avevano abituato certe pratiche sindacali del passato, peraltro ritornate, ad esempio, con la presunzione di trasformare uno strumento semplice come i voucher, ora aboliti, in una miriade di forme contrattuali di difficilissima gestione.
Senza contare che far crescere la produttività significa affrontare finalmente il vero male dell’economia italiana: la stagnazione ventennale della produttività totale dei fattori che ha impedito finora una vera spinta allo sviluppo.
È chiaro che più l’intervento è massiccio, più è realistico immaginare l’effetto-spinta nel cambiare la fotografia del lavoro e quella dei consumi. Il successo della misura degli iperammortamenti per gli investimenti nell’Industria 4.0 dovrebbe essere un esempio virtuoso da seguire , dato l’effetto avuto sui comportamenti reali (boom di investimenti in macchinari e software), assai superiore a quello bruciato nel fuoco di paglia dei tanti bonus. A maggior ragione quando - è il dato Istat relativo a marzo - le intenzioni di assumere da parte delle industrie non sono mai state così alte da almeno 15 anni.
La strada è quella di interventi strutturali di qualità. Ed è perfino scontato dire che l’uscita vera dalla recessione passa dal doppio obiettivo della lotta alla disoccupazione giovanile e alla stagnazione dei consumi.
Una cosa è certa: non è lasciando una gravosa tassazione (Irap o la parte più capziosa dell’Imu sui capannoni, solo per citare i casi più eclatanti) sui mezzi di produzione che si può immaginare una ripartenza degli investimenti e di una nuova stagione di sviluppo. I dati sull’evasione dell’Iva (recuperata e da recuperare) sono istruttivi e non è un’eresia immaginare che le risorse per cambiare davvero i connotati dell’Italia bloccata si potrebbero trovare proprio qui.
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