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Un riequilibrio utile ma difficile da realizzare

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LA VISITA DEL PRESIDENTE CINESE XI NEGLI STATI UNITI

Un riequilibrio utile ma difficile da realizzare

Durante la campagna elettorale per la Casa Bianca Donald Trump lanciò accuse al vetriolo contro la politica commerciale e valutaria di Pechino, minacciando di imporre dazi al 45% sulle merci importate dalla Cina. Ma nelle ultime settimane ha ammorbidito i toni dei suoi proclami.

La concorrenza delle merci cinesi a basso costo ha di certo causato la perdita di posti di lavoro in America. Ma analisi recenti hanno messo in discussione l’ampiezza degli effetti dell’import cinese sulla contrazione delle manifatture americane e, in generale, sull’impoverimento del ceto medio. Va detto anche che le importazioni cinesi a basso costo hanno aumentato il potere d’acquisto dei consumatori americani.

Tuttavia, per quanto lo squilibrio commerciale Usa-Cina sia notevole (nel 2016 Pechino ha esportato merci per 463 miliardi di dollari negli Usa e ne ha importate per 116 miliardi), la natura delle relazioni economiche fra Washington e Pechino è cambiata davvero a causa dei crescenti flussi di investimenti esteri diretti (Fdi) Usa-Cina degli ultimi decenni.

Dal 2000 le compagnie americane hanno creato fabbriche e investito in Cina per 228 miliardi di dollari. Nel 2016 la Cina è stata il primo mercato fra quelli emergenti in cui l’America ha investito. D’altronde, in passato la ricettività è stata un elemento prioritario della riforma cinese e della politica di apertura all’esterno di Pechino, oltre che un prerequisito per creare capacità manifatturiere, aggiornare la tecnologia e integrare il Paese nel sistema commerciale globale.

Ma la più importante novità con cui gli americani devono fare i conti oggi sono gli investimenti cinesi affluiti sul loro mercato nello stesso periodo, e che spaziano dalle auto elettriche alla ricerca medica avanzata, dai combustibili fossili ai servizi. Gli investimenti cumulativi di Pechino, secondo il Rhodium Group, hanno raggiunto i 109 miliardi di dollari e danno lavoro a circa 100mila americani. Quasi la metà, 45,6 miliardi di dollari, sono stati investiti nel 2016, con una accelerazione esponenziale rispetto a cinque anni prima. Per di più il 79% di questi ultimi flussi è di capitali privati.

Va detto che la Cina si trova in una situazione senza precedenti, alle prese con la transizione da un modello di sviluppo export-led a uno trainato dai consumi interni. Ma anche con l’ascesa di sentimenti nazionalistici infiammati, fra l’altro, da alcuni passi falsi compiuti dalla Casa Bianca come quello sulla “One China policy”. Nella competizione commerciale (come rivela il piano “Made in China 2025”) Pechino punta a divenire leader in settori strategici come l’high-tech, l’It, le macchine agricole.

Peraltro, secondo uno studio di Deutsche Bank, se Trump davvero imponesse restrizioni agli scambi con Pechino, ci sono molti prodotti sui quali la Cina potrebbe rivalersi con ritorsioni tariffarie considerato che assorbe il 47% delle esportazioni statunitensi di frutta e semi, l’11,8% degli aerei e il 23,3% dei prodotti in legno.

Non a caso l’Fmi ha espresso timori che la Cina e gli Usa possano far deragliare l’economia globale se i loro leader falliscono nel contrastare la marea montante del protezionismo. D’altronde, una guerra commerciale Usa-Cina avrebbe effetti imprevedibili e scatenerebbe una crisi ancora più ampia innanzitutto in Asia, coinvolgendo i Paesi alleati di Washington.

Intanto Robert Lighthizer, rappresentante per il commercio americano, ha dichiarato che Washington intende svuotare di prerogative la Wto, giudicata inadatta a trattare efficacemente i problemi di scambio con un Paese come la Cina, e trovare nuovi “approcci creativi” per regolare i rapporti con Pechino. In questo modo si è tornati a parlare di un accordo bilaterale fra gli Usa e la Cina che, tuttavia, appare assai difficile da realizzare dato che, con Trump, il mercato americano non ha più regole certe per gli investitori esteri.

A livello economico l’incontro fra Trump e Xi Jinping in Florida, dovrebbe consentire di raggiungere un accordo tale che, assicurando un miglior accesso commerciale agli Stati Uniti in Cina, in cambio di garanzie sull’accesso cinese al mercato americano, valga innanzitutto a ridurre l’ampio surplus commerciale di Pechino con gli Usa. Ma questo risultato scaturirà anche dal fatto che Trump riesca a rendere più competitiva l’economia statunitense che, dagli anni ’90, è sempre più integrata in quella internazionale.

Così, considerati i legami economico-finanziari sempre più stretti che, in caso di una guerra commerciale, condurrebbero a una reciproca distruzione e il fatto che difficilmente Pechino può usare l’arma della vendita dei bond del Tesoro Usa senza provocare l’intervento della Fed, il riequilibrio degli scambi commerciali appare il solo obiettivo in grado di avere effetti positivi a livello internazionale. Ma è assai impervio e difficile da raggiungere.

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