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Dossier L’isolazionismo a tempo determinato della presidenza Trump

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

L’isolazionismo a tempo determinato della presidenza Trump

  • – di Tony Smith

Gli interrogativi legati agli eventi tra l’aprile del 1917 e l’aprile del 1919 – dall’entrata dell’America nella Prima Guerra mondiale fino alla proclamazione della Convenzione della Società delle Nazioni Unite – sono all’incirca gli stessi interrogativi cui ci troviamo di fronte oggi, mentre ci avviciniamo ai centenari di quegli eventi. Si tratta di domande sulla rilevanza dell’internazionalismo liberale per il futuro, e diventano più delicate ogni giorno che passa dall’inizio della presidenza di Donald Trump.

Il fascismo è morto con la Seconda Guerra Mondiale nel 1945 (sebbene sopravviva in alcuni Paesi sotto mentite spoglie), così come il comunismo è morto come ideologia vivente con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. E ora nelle mani dell’amministrazione Trump stiamo forse assistendo alla fine di una struttura che ha superato due dei massimi sistemi totalitari del ventesimo secolo e che ha portato un relativo ordine a un mondo violento e caotico? Se così fosse, è probabile che sia il risultato di questioni molto simili a quelle che hanno definito l’ascesa dell’internazionalismo liberale un secolo fa.

Le radici della neutralità
Con lo scoppio della guerra in Europa nell’estate del 1914, il presidente Woodrow Wilson si è trovato di fronte alla più grande sfida della sua presidenza: in che modo gli Usa possono garantire una pace mondiale duratura una volta conclusa la battaglia militare? La reazione iniziale di Wilson alla guerra fu di proclamare la neutralità degli Usa; il ruolo del Paese sarebbe stato quello di mediare tra le parti belligeranti. Di fatto passarono oltre due anni e mezzo prima che gli Stati Uniti prendessero attivamente parte ai combattimenti.

Theodore Roosevelt disse che Wilson era troppo moralista e idealista per far entrare l’America in guerra unendosi agli inglesi all’inizio, come avrebbe dovuto. Altri sostengono che Wilson avesse intenzione di unirsi a tutti gli Alleati, ma credeva che una piattaforma anti-guerra avrebbe funzionato meglio per la rielezione nel 1916.

Entrambe le asserzioni trascurano i pesanti condizionamenti all’immediata entrata dell’America dalla parte delle potenze alleate (Gran Bretagna, Francia e Russia, oltre a una serie di altri stati unitisi successivamente) contro le Potenze centrali (Germania e Austria-Ungheria, cui si sono poi aggiunti l’Impero Ottomano e la Bulgaria). Il sentimento pubblico americano si opponeva da tempo alle cosiddette entangling alliances ossia “alleanze vincolanti”, una posizione prudente che richiama il periodo in cui fu fondata la nazione e gli ammonimenti da parte dei presidenti George Washington e Thomas Jefferson.

Una buona parte dell’opinione pubblica americana, inoltre, pensava che la guerra fosse una cosa normale per gli europei: «Lasciamo che si tirino fuori da soli dai guai che loro stessi hanno creato» era un sentimento dominante per gran parte della guerra. E in ogni caso, sarebbe servito del tempo agli Usa per prepararsi a una battaglia così feroce e distante.

La politica della neutralità rifletteva altresì i modelli migratori verso gli Stati Uniti, che rendevano seriamente complicata l’entrata in guerra. La questione degli hyphenated Americans, ossia degli “americani col trattino”, come i tedeschi-americani, gli irlandesi-americani, gli italo-americani e così via, si era trasformata in un problema nazionale impellente. Le stesse divisioni etno-nazionali che alimentavano la guerra europea si potevano ritrovare negli Usa.

Molti tedeschi-americani chiedevano la neutralità per bloccare ciò che correttamente credevano fosse un tilt anglo-americano nei confronti degli inglesi. Molti irlandesi-americani, comprensibilmente contrari al governo britannico in Irlanda, non volevano entrare in guerra al fianco degli inglesi. Gli scandinavo-americani e gli ebrei-americani tendevano giustamente a considerare la Russia zarista come un nemico per i loro confratelli etnici nel Nord e nell’Est europeo. Per contro, i polacco-americani, i cecoslovacchi-americani, gli slavo-americani e gli armeno-americani si unirono all’élite anglo-americana a favore degli Alleati.

“Dobbiamo assolutamente essere neutrali, altrimenti le nostre popolazioni miste si faranno la guerra tra di loro”

Il presidente Usa Woodrow Wilson nel 1914 

Le statistiche demografiche parlano chiaro. Di una popolazione americana che contava 92 milioni di abitanti nel 1910, circa 12 milioni erano dati da Paesi belligeranti o comunque coinvolti nella Grande Guerra. Altri 17 milioni avevano almeno un genitore proveniente da questi Paesi. Tali popolazioni erano concentrate nel Northeast e nel Midwest e costituivano ampi blocchi aventi diritto di voto. Come sottolineava Wilson nel 1914: «Dobbiamo assolutamente essere neutrali, altrimenti le nostre popolazioni miste si faranno la guerra tra di loro».

Il primo slogan America First
Durante la corsa presidenziale del novembre 1916, il Partito Democratico giocava sul presunto invito di Wilson a puntare su “America First” appellandosi al tradizionale sentimento isolazionista: «Ci ha tenuti fuori dalla guerra», così proclamavano i volantini della campagna del partito sul candidato. Se anche Wilson avesse utilizzato questa frase (non esiste alcuna prova documentale che l’abbia mai fatto), dovrebbe essere considerato non come qualcuno che abbracciava l’isolazionismo – il significato di “America First” risale a prima della Seconda Guerra Mondiale e ritorna con la presidenza Trump – ma piuttosto come un “internazionalista” impegnato. In una serie di discorsi tenuti nel 1916 (niente è più importante del discorso pronunciato a maggio alla prima assemblea della League to Enforce the Peace), Wilson delineò un’istituzione mondiale per il mantenimento della pace da creare alla fine della guerra.

Wilson faceva riferimento a una proposta che aveva già formulato con il segretario di Stato, Robert Lansing tra la fine del 1914 e il 1916, comunemente nota come Trattato panamericano, nonché ad argomentazioni che erano state formulate in Gran Bretagna e dagli americani interessati. Questa linea di pensiero non spinge Wilson a invocare un intervento armato americano nella guerra europea, ma certamente non è conciliabile con il sentimento pacifista e isolazionista.

Mentre gli americani si univano al di là del “trattino”, America First poteva agire in modo più efficace come forza in grado di garantire l’ordine mondiale. Alla fine, Wilson vinse per poco la corsa alle presidenziali contro il candidato Repubblicano più interventista, il giudice della Corte Suprema, Charles Evans Hughes, che aveva l’appoggio di Roosevelt. Ma questo non significa affatto che Wilson fosse un isolazionista cieco di fronte alla possibilità che gli Usa dovessero intervenire militarmente in Europa.

La decisione di intervenire
Gli eventi alla fine hanno eroso la resistenza di Wilson di entrare in guerra, esattamente come quella dei cittadini americani. La lista di rimostranze americane nei confronti della Germania si allungava e diventa sempre più amara. Il governo del Kaiser Wilhelm II aveva infranto la sovranità di altre popolazioni con la sua brutale conquista del Belgio alla fine del 1914, seguita dalla feroce invasione del Nord della Francia. Gli attacchi con i sommergibili U-boot – il più famoso è l’affondamento nel maggio del 1915 di Lusitania, che ha visto la morte di 1.198 passeggeri in viaggio da New York alla Gran Bretagna – disattesero la richiesta di Wilson della libertà dei mari.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Nel marzo del 1916, i sottomarini tedeschi danneggiarono gravemente il traghetto Sussex, causando numerose perdite umane. Wilson lanciò un ultimatum alla Germania, insistendo che ridimensionasse tali attacchi e che smettesse di cercare navi per poi affondarle. I tedeschi accettarono l’ultimatum, nella convinzione che la loro capacità sottomarina necessitasse di una sostanziale espansione per affrontare l’eventuale rischio di un intervento da parte degli Stati Uniti. Questa vittoria diplomatica rendeva credibile l’affermazione su Wilson secondo cui «ci ha tenuti fuori dalla guerra».

“Abbiamo intenzione di cominciare il primo di febbraio una guerra sottomarina indiscriminata. Tenteremo però di far rimanere neutrali gli Stati Uniti d’America”

Telegramma inviato nel 1917 dal ministro degli Esteri tedesco Arthur Zimmermann all'ambasciatore tedesco in Messico, Heinrich von Eckardt 

Ma successivamente, il 1 febbraio del 1917 la Germania dichiarò che avrebbe rinnovato gli attacchi alle navi, dopo di che tre sottomarini fecero affondare tre navi americane senza preavviso. Poi, il 1 marzo del 1917 fu pubblicato il famigerato Telegramma Zimmermann, intercettato dagli inglesi, inviato dal ministro degli Esteri tedesco all’ambasciatore germanico in Messico:
«Abbiamo intenzione di cominciare il primo di febbraio una guerra sottomarina indiscriminata. Tenteremo però di far rimanere neutrali gli Stati Uniti d’America. Nel caso non riuscissimo, facciamo una proposta di alleanza al Messico sulle seguenti basi: condurre la guerra comunemente, siglare la pace comunemente, un generoso supporto finanziario e l’accettazione da parte nostra della riconquista messicana dei territori perduti del Texas, del Nuovo Messico e dell’Arizona».

Il 20 marzo, il governo di Wilson votò all’unanimità per la guerra mentre il Paese era travolto dalla febbre patriottica. Eppure, quando gli Usa entrarono nel conflitto, non si definirono una potenza “alleata” bensì “associata”, per sottolineare la loro distanza dalle “alleanze vincolanti” e preservare il proprio ruolo di mediatore se interpellati dalle parti belligeranti.

Una feroce guerra di pace
Una volta decisa la guerra, Wilson dovette formulare i termini con cui alla fine stipulare la pace. Il suo impegno a dichiarare guerra allo scopo di proteggere, e di promuovere, la democrazia dei popoli e del governo era indiscutibile. Eppure, sin dall’inizio non lanciò mai alcun appello per una crociata democratica. Wilson non aveva marciato su Città del Messico nel 1914, malgrado lo sciovinismo di chi voleva che così facesse in risposta alle incursioni da parte dei rivoluzionari messicani nel Southwest americano. Né avrebbe marciato su Berlino o sulla bolscevica Mosca nel 1918, per la sua convinzione che i governi nascono dalle storie domestiche, con le proprie culture e con particolari istituzioni sociopolitiche.

Pur rasentando l’anglofilia, Wilson era in dubbio persino sulle credenziali della Gran Bretagna come democrazia e partner. Le sue leggi sul suffragio tardarono ad arrivare rispetto a quelle americane, la sua Chiesa anglicana ufficiale era sempre osteggiata dai calvinisti come Wilson, e il suo imperialismo e i calcoli sull’equilibrio dei poteri risalivano a secoli prima e non erano elementi di interesse a suo avviso.

“Nessun governo autocratico può essere ritenuto affidabile nel mantenere fede a se stesso o nell’osservare gli accordi. Solo le popolazioni libere possono (...) preferire gli interessi dell’umanità a qualsiasi interesse individuale limitato”

Il presidente Usa Woodrow Wilson nel 1917 

Eppure il 2 aprile 1917, presentando la dichiarazione di guerra alla Germania davanti a una Sessione congiunta del Congresso, Wilson fece il suo discorso più famoso, da cui la celebre frase: «Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia».

«La sua pace deve poggiare sulle provate fondamenta della libertà politica... Un accordo di pace duraturo può essere sostenuto soltanto da un partenariato di nazioni democratiche. Nessun governo autocratico può essere ritenuto affidabile nel mantenere fede a se stesso o nell’osservare gli accordi. Deve essere una lega dell’onore, un partenariato di opinioni... Solo le popolazioni libere possono mantenere l’obiettivo e l’onore su un fine comune e preferire gli interessi dell’umanità a qualsiasi interesse individuale limitato».

La formula di Wilson per vincere la pace dopo aver vinto la guerra derivava dalla sua fiducia nel potere di pacificazione dei valori e delle istituzioni che aveva visto svilupparsi negli Usa dalla Guerra Civile (anche se ignorava deliberatamente, addirittura intensificando a causa del suo personale razzismo, la brutta situazione degli afro-americani). La democrazia a livello domestico si basava sulla fiducia e sulla ragione nel definire l’interesse comune, come espresso nel dibattito aperto e formulato nello stato di diritto attraverso le istituzioni sulla base del consenso di chi viene governato. Allora perché questa pratica non dovrebbe funzionare anche tra le popolazioni democratiche e gli stati? Quattro giorni dopo, il 6 aprile 1917, il Congresso votò a larghissima maggioranza una Dichiarazione di guerra al governo imperiale germanico.

Infastidito dai tentativi di Wilson di agire da subito come arbitro tra le parti belligeranti, il re britannico George V una volta si chiese: «Gli Stati Uniti sono co-belligeranti o arbitri?» La domanda non sarebbe stata posta se fossero state prese in considerazioni le azioni di Wilson, e non solo le sue parole. Durante il conflitto, la maggiore preoccupazione di Wilson era la Germania. In un discorso al Congresso tenuto nel gennaio 1917, sembrava avere due opinioni diverse – la Germania deve essere trattata con correttezza; senza un governo che poggi sulla volontà della popolazione, la stabilità non può essere garantita.

«Deve esserci, non un equilibrio di poteri, ma una comunità di poteri; non rivalità organizzate, ma una comune pace organizzata... Deve esserci la pace senza la vittoria…[eppure] nessuna pace può durare, o dovrebbe durare, se non riconosce e non accetta il principio in base al quale i governi traggono tutti i loro giusti poteri dal consenso di chi è governato…»

“L’obiettivo di questa guerra è liberare i popoli del mondo dalla minaccia e dall’attuale potere di una vasta struttura militare controllata da un governo irresponsabile”

Il presidente Usa Woodrow Wilson nel 1917 

Nel corso del 1917, i toni di Wilson si sono acuiti. Così scrive a Papa Benedetto XV quell’agosto:

«L’obiettivo di questa guerra è liberare i popoli del mondo dalla minaccia e dall’attuale potere di una vasta struttura militare controllata da un governo irresponsabile, che, avendo segretamente pianificato di dominare il mondo, ha proceduto con il proprio piano senza considerare né i sacri obblighi del trattato né le pratiche consolidate e i principi a lungo custoditi e difesi dell’azione internazionale e dell’onore; ha scelto i propri tempi per la guerra; ha inferto il proprio colpo in modo feroce e improvviso; non si è fermato né di fronte alla legge né di fronte alla pietà; ha gettato un intero continente nel sangue... Non è il potere della popolazione tedesca. È lo spietato padrone della popolazione tedesca. Non è compito nostro capire come un grande popolo siano caduto sotto il controllo o si sia sottomesso temporaneamente al predominio del suo obiettivo; ma è compito nostro far sì che la storia del resto del mondo non resti più nelle sue mani».

La risposta allora alla domanda del re George era che, malgrado il fatto di definirsi una “potenza associata” e non un “alleato”, gli Usa di fatto fossero co-belligeranti. Alla fine dell’estate 1918, circa 1 milione e mezzo di soldati americani si trovava in Europa. Oltre 53mila soldati morirono in combattimento, più di 63mila morirono a seguito delle lesioni riportate, e altri 204mila furono feriti. Sebbene queste perdite impallidiscano di fronte ai diversi milioni di morti in Europa, la sconfitta della Germania alla fine si rivoltò contro la decisione americana di entrare in guerra.

Un’alleanza da sogno
La migliore speranza di Wilson per una pace duratura dopo la Grande Guerra dipendeva dalla Società delle Nazioni. Fondata nel 1919, subito dopo l’Armistizio, la Società delle Nazioni è stata analizzata in modo alquanto circoscritto, come un meccanismo di sicurezza collettivo inteso a incoraggiare il disarmo e a confrontarsi con qualsiasi potenza che rifiutasse l’arbitrato obbligatorio in una controversia dove era probabile l’uso della forza. Eppure le ambizioni di Wilson andarono oltre questo obiettivo.

Wilson non concepì mai le proprie idee in termini di grande strategia. Ma la sua analisi del carattere della Germania, opposto a quello degli Usa, suggerisce che il suo obiettivo maggiore fosse quello di superare il complesso di autoritarismo, militarismo, protezionismo e imperialismo che alimentavano i calcoli dell’equilibrio dei poteri in una minaccia senza fine alla pace mondiale.

Considerata in un’ottica più ampia, la visione che Wilson aveva della Società delle Nazioni combinava quattro elementi separati:
•La cooperazione tra “stati totalmente autonomi” (con cui Wilson intendeva “democrazie”, anche se l’accordo della Società delle Nazioni non ne parlava in questi termini);
•Collegamenti internazionali attraverso un’apertura economica;
•Negoziati tramite istituzioni multilaterali che promuovessero un solido impegno sul fronte del diritto internazionale e della reciproca difesa;
•La leadership americana di ciò che, negli anni Novanta, la generazione successiva di wilsoniani definiva «una comunità di democrazie nel mercato libero».

Internazionalismo liberale a bada?
Qui sta l’essenza delle politiche che hanno contribuito direttamente alla vittoria dell’America nella Guerra Fredda. Pur essendo un moralista e un idealista, Wilson non era però né un utopista né un imperialista. La Società delle Nazioni non era antesignana della Dottrina di Bush del 2002, con la sua velata richiesta di mettere fine alla tirannia nella nostra epoca. L’ambizione neo-wilsoniana del presidente George W. Bush – dettata dalla disastrosa convinzione che i Paesi ostili potessero essere trasformati in democrazia attraverso la forza – non ha fatto altro che far seriamente riflettere molti americani sull’accortezza di una politica estera fondata sulla necessità morale, economica e militare di lavorare con altre democrazie. Bush rinnegò il prudente riserbo di Wilson nella promozione della democrazia e dei mercati aperti, anche se dichiarò di sostenere il retaggio di Wilson.

Forse, con Trump, l’internazionalismo liberale ora è destinato a seguire la strada di altre ideologie globalizzanti, dando vita a una nuova era di equilibrio di poteri – esattamente quel mondo cui Wilson sperò invano di porre fine una volta per tutte facendo entrare in guerra gli Stati Uniti nell’aprile del 1917. O forse, dopo un breve e nichilista interregno di Trump, l’internazionalismo liberale tornerà con una forma ringiovanita. È ciò che è successo dopo la presidenza di Wilson, quando, dopo oltre un decennio di eclissi, iniziò il lungo mandato di Franklin Delano Roosevelt nel 1933.

Traduzione di Simona Polverino

Tony Smith è professore emerito di scienze politiche alla Tufts University. Il suo ultimo libro si intitola Why Wilson Matters: The Origins of American Liberal Internationalism and Its Crisis Today.

Copyright: Project Syndicate, 2017.

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