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Le amnesie di Trump sui temi commerciali

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Le amnesie di Trump sui temi commerciali


Succederà mai qualcosa sul fronte delle politiche commerciali, il tema prediletto di Trump oltre all'immigrazione? Finora non è successo quasi nulla. La Bloomberg riferisce che le aziende, dopo una breve pausa, hanno ricominciato come prima a trasferire posti di lavoro in Messico (l'articolo lo trovate qui: bloom.bg/2oozrWC), anche se non è chiaro se la pausa sia stata effettiva o sia stata solo una pausa negli annunci; in ogni caso, gli amministratori delegati apparentemente si sono convinti che l'Accordo di libero scambio del Nordamerica non è in pericolo.
Certo, Trump twitta minacce sui commerci con la Cina, e forse succederà qualcosa di grosso dopo il suo incontro con Xi Jinping, il presidente del Paese asiatico. Ma questo ci porta alla domanda: Trump è effettivamente nella posizione di prendere misure concrete in materia di politica commerciale?
La mia risposta è: probabilmente no, se non come mossa di disperazione politica.
Per parlare dell'argomento bisogna necessariamente partire dall'osservazione che durante la campagna elettorale, quando parlava di politiche commerciali, Trump non aveva la più pallida idea di quello che diceva (esattamente come quando parlava di sanità, tasse o carbone). Nello specifico, aveva due idee false:
1.Gli accordi commerciali esistenti sono palesemente iniqui nei confronti degli Stati Uniti e ci mettono in una situazione di svantaggio.
2.Limitare gli scambi sarebbe un bene per l'America e un male per gli stranieri, perciò minacciare misure protezionistiche ci garantisce un'enorme forza contrattuale.
Ora la realtà: se cercate palesi regalie nel Nafta, non ne troverete. È un accordo che ha abbattuto gran parte delle barriere commerciali tra Stati Uniti e Messico, non c'è nessuna asimmetria significativa. Anzi, dal momento che inizialmente i dazi messicani erano più alti, in realtà è il Messico che ha fatto più concessioni di noi (anche se noi stavamo offendo al Messico l'accesso a un mercato più grande). Riguardo alla Cina, la faccenda è un po' più complicata: si può sostenere che la Cina abbia eluso di fatto alcune delle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio, ma anche in questo caso non è evidente che cosa vorremmo da un nuovo accordo.
Voglio aggiungere che la manipolazione del tasso di cambio da parte di Pechino era un problema reale cinque anni fa, ma ora non più.
Passando agli effetti del protezionismo, lasciamo stare i benefici dello scambio descritti da ogni manuale di economia e parliamo degli interessi delle imprese. Il fatto è che i commerci internazionali moderni, a differenza di quelli di una volta, creano dipendenza reciproca. Le merci che esportiamo spesso sono prodotte con una gran quantità di componenti importati, e le merci che importiamo spesso includono indirettamente una gran parte delle nostre esportazioni.
Quando compriamo automobili in Messico, soltanto la metà circa del valore aggiunto è messicano, mentre gran parte del resto viene dagli Stati Uniti: perciò, se limitiamo quelle importazioni, tantissimi operai americani ci rimetteranno. Se limitiamo le importazioni di componenti dal Messico, faremo crescere i costi di produzione per gli americani che esportano in altri mercati: pure in questo caso, perderemmo un bel po' di posti di lavoro. Anche non volendo tenere minimamente in considerazione gli effetti sui consumatori, le politiche protezionistiche danneggerebbero seriamente l'industria americana.
Ma Trump non può nemmeno permettersi di ignorare gli interessi dei consumatori, se non altro perché la Walmart dà lavoro a un milione e mezzo di persone in America, ossia trenta volta di più di tutti quelli che lavorano nelle miniere di carbone.
Perciò, qualsiasi tentativo da parte del presidente di fare sul serio in materia di politica commerciale incontrerà una fiera opposizione, e non dalle persone che i suoi supporter amano odiare, ma da grandi interessi commerciali. È realmente pronto a fronteggiare un'opposizione di questo tipo?
L'agenda commerciale di Trump, almeno finora, consiste nel twittare alle aziende, dirgli di tenere i posti di lavoro qui da noi e poi prendersi il merito di qualunque iniziativa che sembri creare occupazione. Tutto questo gli ha procurato una certa visibilità mediatica in un paio di occasioni, ma nella pratica non significa nulla o quasi.
Quanto sopra sembra suggerire che sui commerci, come su qualsiasi altra tema importante, il trumpismo sarà soltanto una serie di contumelie e invettive senza nulla dietro. Ma c'è una cosa che mi fa riflettere: sto parlando della crescente necessità di Trump di trovare qualche modo per sviare il dibattito dalla spirale letale in cui è precipitata la sua amministrazione. In politica interna è lo stallo, la storia dei legami con i russi si allarga di giorno in giorno e perfino i Repubblicani cominciano a non avere più paura di affrontare a viso aperto l'uomo che segretamente (ma neanche tanto) disprezzano. Che cosa farà?
La classica risposta delle giunte militari in disfacimento è la «soluzione Malvine»: ricompattare la nazione creando uno scontro internazionale di qualche tipo. Di solito è una guerra propriamente detta, ma anche una guerra commerciale potrebbe assolvere alla bisogna.
In altre parole, lasciate perdere il nazionalismo economico e tutte quelle storie lì. Se Trump farà qualcosa di drastico sul versante delle politiche commerciali, non lo farà perché spinto dalle sue convinzioni economiche. Lo farà perché spinto dal tracollo del suo indice di gradimento.

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