Il summit tra Donald Trump e Xi Jinping a Mar-a-Lago, nella dorata residenza del presidente americano in Florida, è l’ultimo capitolo di una lunga, spesso turbolenta, ma sempre più vitale storia della relazione sino-americana.
All’epoca della Seconda Guerra Mondiale, i veterani del governo nazionalista cinese, come il finanziere T.V. Soong e la moglie del leader nazionalista, Chiang Kai-shek, si erano più volte fatti vedere nei corridoi del potere di Washington. Quando il presidente Richard Nixon e il presidente Mao Tse-tung si sono incontrati a Pechino nel 1972, era evidente che stessero dando un nuovo orientamento al mondo. Nel 1979 Deng Xiaoping fu il primo leader della Cina comunista a recarsi in visita ufficiale negli Stati Uniti, e la foto in cui indossò un cappello da cowboy durante un viaggio a Houston fece il giro del mondo.
Da allora per quarant’anni, gli Usa e la Cina hanno sviluppato il rapporto bilaterale più importante del mondo, grazie soprattutto alle corde spesse del commercio e degli investimenti che ora legano i due paesi in una rete di interdipendenza. Ma è evidente che il summit in Florida rappresenti un altro punto di svolta. Le inclinazioni protezionistiche di Trump sono fonte di crescente tensione, così come lo è il suo implicito ultimatum sulla Corea del Nord: se la Cina non aiuterà a “risolvere” il problema con il programma di armi nucleari in crescita della Corea del Nord, gli Usa potrebbero agire di propria iniziativa. Tutto ciò spiega l’ondata di libri di recente uscita che tentano di spiegare la Cina al mondo esterno e di analizzare il suo rapporto con gli Usa.
La lunga marcia della Cina verso il declino?
Molti di questi libri assumono un nuovo tono. Per gran parte degli anni 2000, c’è stata la tendenza a vedere la Cina come un Paese egemone in crescita la cui forza economica e militare la metterebbe inevitabilmente al primo posto in Asia, con un possibile ruolo di spicco nella leadership mondiale. Il forte contrasto tra la crescita economica a doppia cifra della Cina e il malessere dell’Occidente dopo la crisi finanziaria del 2008 sembravano dar peso a tale interpretazione.
Ma più o meno dallo scorso anno, diversi studi sostengono che l’attuale modello socioeconomico della Cina stia finendo fuori strada. Gli scienziati politici David Shambaugh della George Washington University e Minxin Pei del Claremont McKenna College hanno scritto due libri su questa linea. Pei è da alcuni anni uno dei più esperti e dei più pessimisti analisti – dieci anni fa pubblicò un libro intitolato “China’s Trapped Transition” (La transizione bloccata della Cina).
Shambaugh, che analizza la Cina da circa trent’anni, era più che fiducioso del fatto che il sistema cinese sarebbe riuscito ad adattarsi, invece che atrofizzarsi (per citare il titolo di uno dei suoi precedenti libri). Ma in “China’s Future” (Il futuro della Cina) anche lui si è convinto che il modello cinese semplicemente non può essere sostenuto.
Nel libro di Shambaugh c’è un punto di domanda stampato sulla copertina, e l’autore ci tiene a precisare che non considera inevitabile la caduta del sistema cinese. Con Xi, sostiene, la Cina ha scelto di perseguire ciò che lui definisce «autoritarismo duro»: un sistema sempre più repressivo che punta allo sfruttamento dell’economia. E Shambaugh esclude che vi sia presto un sistema totalmente democratico: una «semi-democrazia» è la soluzione migliore cui si può aspirare per i prossimi anni, e comunque anche questo è un esito alquanto improbabile.
Al contrario, un «autoritarismo morbido» – qualcosa di simile ai piccoli ma concreti passi avanti compiuti in Cina negli anni 1990 e 2000 con i presidenti Jiang Zemin e Hu Jintao – sarà probabilmente la chiave per evitare un futuro sempre più concentrato su se stesso. Per ora, però, ravvisa scarse possibilità che Xi abbracci una posizione più morbida.
China’s Future, basato sulla lunga carriera spesa ad osservare la politica cinese, offre una valutazione piena di spunti, per quanto pessimistica, sull’attuale direzione imboccata dal paese. E i recenti accadimenti appoggiano le remore di Shambaugh. Nei mesi successivi alla pubblicazione del libro, si è amplificato il giro di vite da parte dello Stato su avvocati, accademici e media. E i cartelli con la scritta «Ting dang de hua» («Obbedire al Partito») circolano sempre più di frequente a Pechino e in altre grandi città cinesi.
Il trionfo della corruzione
Mentre Shambaugh si focalizza sull’alta politica, Pei riserva maggiore attenzione all’economia politica della Cina. Ma il suo messaggio non è più ottimista. La Cina, come molti altri Paesi che stanno vivendo una fase di rapido sviluppo economico, ha sofferto di corruzione endemica, pur continuando a prosperare. Ma l’argomentazione di Pei è che la corruzione non è stata accolta come effetto collaterale indesiderato della crescita economica, ma come vera e propria forma di cambiamento economico in atto da quando gli anni Ottanta hanno reso la corruzione l’elemento centrale del sistema. “China’s Crony Capitalism” (Il capitalismo degli amici in Cina) fornisce un resoconto dettagliato e meticolosamente documentato di un sistema divorato dall’interno.
Pei si concentra sulla privatizzazione, e in particolare sulla sua implementazione in assenza di un regime rafforzato sui diritti di proprietà (per certi versi, come quello in Russia negli anni 1990). Affronta il tema in modo critico e senza ipocrisie: «L’elemento caratterizzante del capitalismo dei compari», a suo avviso, «è il saccheggio dei beni nominalmente appartenenti allo Stato da parte di élite colluse». Invece di separare il potere politico dalla proprietà, le stelle nascenti della burocrazia cinese si fanno invischiare in pratiche corrotte all’inizio della carriera, per continuare nel corso degli anni. La vendita di terreni, in particolare, ha consentito ai governi locali di accumulare vaste somme di denaro, parte delle quali finite nelle tasche dei funzionari che supervisionavano le transazioni.
A fronte di questa situazione, le inflessibili campagne anti-corruzione di Xi sono diventate alquanto popolari al pubblico cinese. La maggior parte dei cinesi comprende che l’ampio giro di vite messo in atto da Xi è servito da pretesto per rimuovere gli avversari dalle posizioni di potere; ma desidera ancora che gli ufficiali con il Rolex e le Rolls-Royce siano puniti come meritano. Pei, però, lo sa bene: proprio perchè le campagne di Xi sono sospinte da motivazioni politiche, non sradicheranno le cause strutturali della corruzione.
Cina resiliente?
Ma Shambaugh e Pei non sono le uniche voci nel coro. Dopo tutto, il Partito Comunista Cinese (PCC) vanta una lunga tradizione di rinnovamento, che riflette la sua capacità di adattarsi per garantirne la sopravvivenza. Knowing China (Conoscere la Cina) di Frank Pieke prende questa capacità come punto di partenza, che porta a una valutazione molto più positiva della capacità del Pcc di portare avanti la Cina.
Mentre Shambaugh e Pei sono scienziati politici, Pieke è un antropologo, e la sua conoscenza del Pcc è segnata dalle categorie di analisi di quella disciplina. Considera il Pcc non come una versione distorta di una tipologia ideale di partito politico del mondo liberale, ma come un’entità che è cresciuta nei decenni come parte di una serie organica di evoluzioni che definiscono il rapporto tra il popolo cinese e i loro governanti politici.
Quindi per Pieke, il periodo dal 1978 non è stato un periodo di «riforma» (con l’implicazione del neoliberalismo), ma di «neosocialismo». Per raccogliere le sfide del futuro, sostiene, «il prolungato dominio del Partito Comunista non è il principale ostacolo, ma la condizione principale», perché «il dominio del Pcc mantiene la Cina unita e garantisce stabilità e pace». Ribadisce che questa affermazione non implica la «negazione» della necessità che il Partito migliori; ma implica che le affermazioni sull’imminente collasso del sistema possano essere malriposte.
L’argomentazione di Pieke si basa sulla conoscenza della cultura premoderna della Cina, con il “mandato del cielo” – una sorta di legittimazione ottenuta in ragione della capacità dei governanti di creare prosperità – ora nelle mani del Pcc. Dipinge un’affascinante e contro-intuitiva immagine del Pcc come istituzione quasi-teologica, e certamente come istituzione che non ha alcuna intenzione di utilizzare la tattica familiare alle società liberali per riformarsi. Ma ha più fiducia di Shambaugh o Pei nella capacità del sistema di avvalersi di meccanismi quali la democrazia consultiva, le petizioni e il sistema giuridico in rapida crescita, benché molto costretto, per incoraggiare un profondo cambiamento.
Per coloro che sono più interessati ai risultati geopolitici, il breve ma intenso libro di Jonathan Fenby “Will China Dominate the 21st Century?” (La Cina dominerà il XXI secolo?) parla della questione senza mezzi termini e sostiene – a ragione – che la risposta è no. Fenby, ex direttore del South China Morning Post, fa notare che la Cina sarà sempre una potenza «dipendente», che importerà vaste quantità di minerali, combustibili fossili e persino generi alimentari negli anni di cattivo raccolto. Ugualmente importante, malgrado il reale risentimento dell’essere costretta a operare in un sistema internazionale non creato dalla Cina, non esiste nulla di simile al “modello cinese” che possa essere messo in funzione in modo coerente altrove.
Una cosa è sostenere che la Cina abbia una politica unica che rende impossibile la democrazia liberale; un’altra è affermare che gli altri debbano scambiare i diritti politici con i benefici economici. Fenby non si spinge così avanti come Pei e Shambaugh, ma avverte, «se la riforma non sarà intrapresa in modo profondo», la Cina «passerà da un problema all’altro, limitando il suo futuro sviluppo».
Sapremo di più sul probabile percorso che intraprenderà la Cina il prossimo autunno, dopo il XIX Congresso Nazionale del Pcc. Una volta che Xi si sarà assicurato il secondo mandato presidenziale di cinque anni, e avrà riempito con i suoi alleati il Comitato Permanente del Politburo, la massima autorità politica della Cina, dovrà rivolgersi ai problemi di breve termine più gravi della Cina: la necessità di riformare l’ultimo dei maggiori settori di proprietà dello Stato e di domare il debito vertiginoso.
Ed è fondamentale risolvere entrambi i problemi per una riforma a lungo termine. Ma affrontarli potrebbe essere davvero un processo caotico di crescita limitata e repressione politica in crescita, dal momento che Xi utilizza tutte le armi a sua disposizione per neutralizzare gli avversari e ribilanciare l’economia. Se riuscirà a farlo, una cauta liberalizzazione politica sarà possibile all’inizio degli anni 2020, soprattutto nel momento in cui la Cina sarà più dipendente dai settori economici di alto valore che puntano a un’economia e una società più aperte. Ciò, ovviamente, presume che l’imprevedibile Trump e il riservato PCC non si facciano cogliere da una grave crisi nei prossimi anni.
La dialettica sino-americana
La possibilità di evitare un esito di questo genere dipende da come Xi e Trump affronteranno gli attuali problemi e le prospettive future legate al rapporto sino-americano. Due nuovi e importanti studi storici che esaminano la relazione bilaterale da una prospettiva a lungo termine aiutano i lettori a comprendere le dinamiche alla base delle politiche di entrambi i fronti.
Per quanto sorprendente, “The Beautiful Country and the Middle Kingdom” (Il paese meraviglioso e l’impero di mezzo) di John Pomfret è uno dei pochi libri a indagare le relazioni sino-americane negli ultimi tre secoli. Un classico di un’epoca precedente, “The United States and China” (Stati Uniti e Cina) di John King Fairbank contribuì a definire gran parte delle conversazioni della Guerra Fredda sulla Cina nell’accademia americana. Pomfret, giornalista americano di esperienza, che ha lavorato come corrispondente in Cina per trent’anni, ha prodotto un degno erede: un racconto vivido e scritto in modo chiaro degli incontri più importanti intercorsi tra Cina e Usa.
Il tema ricorrente nel resoconto di Pomfret è che la relazione sino-americana è stata definita da un senso sempre più stretto di reciproca dipendenza, reciproca ammirazione e reciproca diffidenza. La dinastia Qing considerava gli Usa con ambivalenza: i barbari americani erano in molti modi rapaci come quelli della Gran Bretagna e Francia, ma almeno erano meno entusiasti di conquistare il territorio cinese. Chiang Kai-shek, il leader nazionalista della Cina per diversi anni a metà del XX secolo, inclusa la Seconda Guerra Mondiale, riempiva i suoi diari di espressioni che oscillavano tra l’astio intenso nei confronti degli Usa, che temeva tentassero di compromettere il suo governo, e la convinzione che gli Usa dovessero riplasmare l’Asia post-bellica. Mao, il grande rivale di Chiang, una volta definì l’America come «il nemico più rispettabile».
Un centinaio di anni fa, era corretto affermare che la Gran Bretagna fosse il Paese estero più importante per la Cina; 80 anni fa, era il Giappone; e 60 anni fa, l’Unione Sovietica. Ma negli ultimi cinquant’anni, e in particolare dopo la visita di Nixon e Henry Kissinger in Cina nel 1972, descritta in modo affascinante da Pomfret, non vi è dubbio che siano gli Stati Uniti. Le élite dei due Paesi riflettono questo cambiamento: Xi ha mandato sua figlia ad Harvard, mentre la famiglia Trump ha notevoli interessi e affari in Cina.
Comunismo tagliagole
In “Unlikely Partners” (Partner improbabili), Julian Gewirtz descrive in dettaglio uno dei momenti più intriganti nello sviluppo della relazione sino-americana. È ora opinione diffusa che i Comunisti al governo in Cina sovrintendano a uno dei sistemi capitalisti più spietati al mondo. Ma il processo con cui ciò sia avvenuto è stato spesso alquanto oscuro.
Dopo il 1978 la Cina attinge da una serie di esperienze, sia interne che esterne, per riparare la distruzione operata dalla Rivoluzione culturale, per riavviare la propria economia e alla fine diventare una grande potenza globale con il secondo Pil più elevato al mondo. Il libro di Gewirtz si focalizza su una notevole, e poco nota, sequenza di cambiamenti avvenuti negli anni 70 e 80, quando una sequela di economisti occidentali si recò in visita in Cina per consigliare il Politburo di Deng su come riformare l’economia cinese.
La storia non può esimersi da elementi farseschi. Nel settembre del 1980, il premio Nobel Milton Friedman, forse il più prominente fautore del libero mercato negli anni 70, fu invitato in Cina, insieme alla moglie, l’economista Rose D. Friedman, per tenere delle conferenze sull’importanza dei “mercati privati liberi”. Ciò che i Friedman dicevano era alquanto ineccepibile da confondere le autorità – tanto che una delegazione è stata mandata nella stanza di hotel dei Friedman per istruirli sui «trionfi del Partito Comunista Cinese».
Eppure le relazioni con gli altri economisti – compresi quelli della parte riformista del mondo comunista, come l’ungherese Janos Kornai e l’economista britannico Alec Cairncross – hanno influenzato il “neosocialismo” descritto da Pieke e hanno dato vita a un miracolo economico. Gewirtz traccia altresì la genealogia intellettuale delle figure che da allora si susseguono ai vertici nella Cina in era di riforma, compresi Zhou Xiaochuan (oggi governatore della People’s Bank of China) e Wu Jinglian (illustre economista il cui soprannome, piuttosto appropriato, è “Wu dei mercati”). Il risultato è un libro straordinario, scritto con equilibrio e disinvoltura, che mostra quanto la riforma cinese fosse legata alle idee dei blocchi capitalisti e socialisti durante la Guerra Fredda, e illumina sugli esordi di un’idea economica che trasformerebbe la Cina e cambierebbe il mondo.
Parallelismi storici
La storia è fonte di analogia per il presente, e coloro che cercano tali analogie troveranno la vena principale nella tagliente satira di un libro, “Eight Juxtapositions” (Otto giustapposizioni) di Jeffrey Wasserstrom, celebre storico della Cina, che in questa opera provocatoria e riflessiva utilizza abilmente il suo sapere per delineare le analogie (imperfette ma reali) tra la Cina di oggi e i vari precedenti storici.
Wasserstrom canzona la Cina parlando della possibilità di una «sfera di co-prosperità» cinese che riecheggia le ambizioni dell’impero giapponese pre-bellico nell’Est asiatico. Traccia anche un parallelismo tra Xi e Papa Francesco – entrambi, dopotutto, a capo di organizzazioni segrete che esercitano un’influenza globale ma che necessitano urgentemente di una riforma. E, consapevole dei confronti Usa-Cina, Wasserstrom risponde ai critici che chiedono perché le banconote cinesi riportano l’immagine di Mao, responsabile della morte di milioni di persone: Andrew Jackson, fa notare, ha vigilato sulla pulizia etnica dei nativi americani provenienti dal Sud-est degli Stati Uniti, eppure il suo viso corrucciato resta ancora oggi sulla bancomat da 20 dollari.
Le analogie di Wasserstrom potrebbero sembrare provocatorie, ma mostrano una certa rilevanza. Xi e Trump stanno interagendo in un mondo in cui il contrasto tra Cina e Usa (e il mondo liberale in generale) è diventato più confuso. Ma non commettiamo errori: gli Usa sono tuttora una vibrante democrazia liberale (non ci sono sketch del tipo “Saturday Night Live” che fanno la parodia di Xi su Cctv) con la più grande economia e il più potente apparato militare del mondo.
Ma si è rafforzato il linguaggio dei due leader sotto certi aspetti. Xi costringe i media cinesi a comportarsi come comportarsi come se il loro “soprannome” fosse “Il Partito”, mentre Trump si scaglia contro le “menzogne” e le “fake news” dei media che non riflettono il suo punto di vista. In Giappone, India e nelle Filippine, i leader democraticamente eletti si comportano in modo ambivalente – o peggio ancora – quando si tratta di libertà di stampa, diritti civili e diversità. Mentre i valori liberali sono erosi nell’Occidente geopolitico, diventa sempre più difficile prendere posizione per principio contro il sistema cinese.
In modo analogo, le principali potenze mondiali si sono spostate verso la Realpolitik allontanandosi dall’idea che i valori universali debbano sostenere gli affari internazionali. Trump ha precisato che l’unico ideale che guiderà le sue politiche sarà “America first”, un concetto basato sull’ottenimento di vantaggi economici a somma zero, e non sulla presunta superiorità dei valori rivendicati come propri dagli Usa. (Come dichiara lui stesso quando critica la Russia, «Pensate che noi siamo così innocenti?»). Con l’Unione europea che probabilmente sarà alle prese con le crisi per anni, e il Regno Unito che ha divorziato dall’Ue e che cerca freneticamente (forse chimericamente) accordi commerciali con la Cina, è altamente improbabile che a breve pensino a criticare la politica domestica della Cina.
Se la Cina inizierà a cedere sotto il fallimento sistemico, oppure troverà un nuovo equilibrio e diverrà più sicura di sé, gestire le relazioni con lei sarà un compito cruciale per il resto del mondo – soprattutto per gli Usa. Questi libri, con le loro prospettive e i loro approcci molto diversi, forniscono un’eccellente indagine di quella che è – e che potrebbe essere – la posta in gioco.
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