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Tutte le ambiguità della dottrina Trump

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GEOPOLITICA

Tutte le ambiguità della dottrina Trump

«Sarebbe cambiato qualcosa se invece di Trump fosse stato eletto un repubblicano tradizionale?», si interroga Paul Krugman sul Sole 24 Ore. In politica estera non molto perché il presidente ha fatto retromarcia su Russia e Medio Oriente anche rispetto alle dichiarazioni più recenti quando ancora tre settimane fa pensava di far restare Assad al potere. Un presunto bombardamento chimico di Damasco ha fornito agli Usa l’opportunità di correggere il tiro.

Sull’Iran però non c’erano troppi dubbi. Aveva definito un «pessimo accordo» quello sul nucleare raggiunto da Obama nel 2015 e insieme al segretario di Stato Tillerson ha dichiarato che gli Usa lanceranno una verifica dell’intesa «perché Teheran è uno Stato sponsor del terrorismo e potrebbe prendere la strada della Corea del Nord». Lapidaria la risposta del ministro degli Esteri iraniano Zarif: «Le logore accuse degli Stati Uniti non possono mascherare l’ammissione che l’Iran rispetta l’accordo». L’accordo verrà rispettato anche dagli Usa ma condito probabilmente con nuove sanzioni.

Le conseguenze possono essere interessanti, anche per noi. In primo luogo in Iran si avvicinano le presidenziali di maggio dove tenta una riconferma il moderato Hassan Rohani che su questo accordo ha costruito la sua ascesa, duramente contestato dai falchi del regime. Rohani è nel mirino dei Pasdaran e viene difeso, ma fino a un certo punto, dalla Guida Suprema Alì Khamenei, 77 anni, la cui salute è al centro delle speculazioni sulla successione. I duri, con l’aiuto di Washington, preparano la rivincita sui moderati.

Un secondo aspetto riguarda proprio l’intesa sul nucleare, attuata soltanto in parte: le grandi banche non fanno crediti per le commesse in Iran per timore di altre sanzioni americane. Un ostacolo non indifferente anche per i 10-15 miliardi di commesse delle aziende italiane ma anche per quelle europee.

Quando ci sono di mezzo Israele e l’Arabia Saudita, gli avversari dell’Iran, il pragmatismo del businessman Trump viene accantonato. Anche se la Boeing ha appena firmato un accordo per vendere 60 “737” per tre miliardi di dollari, un affare che significa 18mila posti di lavoro.

Se oggi c’è una “Dottrina Trump” per la lotta all’Isis e in Medio Oriente comunque non è di Trump. E anche la guerra al Califfato assume contorni ambigui, come del resto è stata per anni, al punto che non si sa bene se davvero gli Usa vorranno appaltare l’assedio di Raqqa alla coalizione di curdi siriani e arabi e in quali termini. Per inciso si fa notare che Mosul, appesa a un filo, non è ancora caduta: la roccaforte irachena è diventata una questione più diplomatica e di sicurezza che militare.

A spiegare la Dottrina Trump non è il presidente ma i generali. In giro per la regione c’è il capo del Pentagono Mattis che la sta elaborando con il responsabile della Sicurezza nazionale MacMaster. I due ex collaboratori del generale Petraeus in Afghanistan e Iraq hanno preso in mano la politica estera riportandola nell’ortodossia repubblicana: mezzaluna sunnita contro mezzaluna sciita.

In sintesi il nemico numero uno nella regione è quello di sempre, l’Iran degli ayatollah con gli Hezbollah libanesi sciiti, poi vengono Assad e il suo grande protettore Putin, con il quale eventualmente ci si può mettere d’accordo nella spartizione delle zone d’influenza.

Gli alleati principali sono Israele, l’Arabia Saudita a la Turchia, oltre all’Egitto del generale Al Sisi, riciclato dopo la visita a Washington. Erdogan, che negozia anche con la Russia e Teheran, ha appena ricevuto da Trump il bollino di garanzia su un referendum presidenziale vinto di stretta misura in maniera irregolare: è un alleato della Nato assolutamente da recuperare se Washington vuole stringere la morsa nella guerra siriana. Dopo avere usato la Turchia come passaggio dei jihadisti per abbattere Assad - secondo la teoria della Clinton del “leading from behind”, guidare da dietro - Erdogan può tornare utile in Siria nel gioco delle parti con Mosca.

A Riad intanto Mattis ha consegnato il via libera per nuovi bombardamenti in Yemen contro i ribelli Houthi alleati di Teheran. Non importa se i sauditi con il Qatar sponsorizzano i jihadisti e le versioni più radicali dell’Islam sunnita che ispirano i terroristi. Con loro si fanno affari, con Teheran solo geometria variabile. Alla Casa Bianca business as usual.

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