L'Italia dovrebbe avere una moneta propria e gestire autonomamente la sua politica monetaria? Per il momento concentriamoci sul lungo periodo, lasciando da parte la transizione e tutti i costi e benefici immediati. Quando si contempla la possibilità di un divorzio, è opportuno preoccuparsi di come sarà la vita una volta che tutto sarà stato sistemato, non soltanto di chi dovrà lavare la pila di piatti sporchi di oggi.
Dobbiamo ricordarci innanzitutto che la politica monetaria non è in grado di migliorare in modo rilevante la crescita di lungo periodo. La crescita di lungo periodo viene dalle persone e dalla produttività, da quanto produce ogni persona per ora di lavoro. A sua volta, la produttività viene dall'innovazione, da nuove imprese, da nuovi modi di fare affari e nuovi prodotti. Come nel caso di Uber, i consumatori ne traggono beneficio e i produttori esistenti vanno in crisi. I miglioramenti della crescita a lungo termine vengono unicamente dalle riforme strutturali, non dagli artifici monetari. La moneta è come l'olio in un'automobile: una cattiva politica monetaria può buttare giù un'economia, così come l'olio può bloccare un'automobile quando è troppo poco; ma oltre un certo punto, aggiungere più olio non serve a farvi andare più veloci, c'è bisogno di un motore più grande.
Nel breve periodo, la politica monetaria può anche «stimolare» un'economia. È come quando si prende un caffè di pomeriggio: va bene quando vi sentite sonnacchiosi, ma non è saggio prenderlo sempre, e in fin dei conti non può sostituire la dieta e l'esercizio fisico. E questo è il principale vantaggio di avere una moneta e una politica monetaria indipendenti: la possibilità che un'autorità monetaria saggia compensi gli shock negativi con occasionali fiammate di svalutazione e inflazione.
Ma quel «saggia» è importante. Quando la Banca centrale riduce i tassi di interesse, adotta provvedimenti inflazionistici o svaluta la moneta, gli esportatori ci guadagnano, ma gli importatori ci rimettono; aiuta i conti pubblici, ma riduce le somme effettive che lo Stato versa ai suoi dipendenti, ai pensionati e ai detentori di titoli di Stato; aiuta chi ha debiti, ma danneggia quelli che hanno prestato soldi al Governo, ai mutuatari e alle imprese. Dopo essersi scottati una volta, si fanno furbi, e prevedendo altre tornate di svalutazione e inflazione lavoratori e pensionati pretendono salari e pensioni indicizzati all'inflazione, e gli investitori in titoli di Stato pretendono tassi di interesse più alti.
Insomma, avere una valuta propria funziona solo per un Governo che ha i conti in ordine e dispone di istituzioni pubbliche abbastanza forti da resistere alle costanti richieste di un po' più di inflazione. Solo questa volta. E poi ancora e ancora.
Rimanere nell'euro rappresenta quindi un importante impegno ex ante: rinunciando solennemente alla possibilità di svalutare e far crescere l'inflazione ex post, l'Italia beneficia di credito e investimenti molto migliori ex ante; sta a lei usare questo credito in modo saggio, come la Grecia notoriamente non ha fatto.
Svalutare e lasciar crescere l'inflazione funziona, si dice, perché i prezzi e i salari sono «viscosi» e non si adattano rapidamente all'inflazione. Le persone, insomma, vengono indotte a lavorare più intensamente di quanto avrebbero fatto altrimenti, o ad accettare riduzioni dei salari e dei prezzi che avrebbero rifiutato se avessero potuto vederle direttamente. Ma se questi strumenti vengono usati spesso, anche le persone si daranno una svegliata e la viscosità scomparirà.
Inoltre, la svalutazione e l'inflazione che sfruttano questa viscosità sono utili quando si è alle prese con livelli complessivi di salari e prezzi troppo alti, ma non quando si è alle prese con un settore o una regione che hanno livelli troppo alti mentre un altro settore o un'altra regione ce li hanno troppo bassi. E le variazioni tra settori e regioni sono maggiori delle variazioni tra Paesi. Se il problema è la viscosità, sarebbe molto meglio rimuovere tutte quelle misure che favoriscono in partenza la viscosità di prezzi e salari. Per l'Italia, in particolare, gli argomenti a favore di avere una moneta in realtà sono argomenti a favore di averne due, una per il Nord e una per il Sud. Se l'idea di due monete suona poco allettante, forse è poco allettante anche averne una.
L'Italia sarà fortemente limitata nelle cose che potrà fare con una politica monetaria saggia. La speranza è che avere una propria valuta significhi che l'Italia continuerà in qualche modo a far parte dell'Unione Europea o quantomeno della sua area di scambi e investimenti più o meno liberi, come la Danimarca, la Norvegia o la Gran Bretagna prima della Brexit. La speranza è che gli italiani possano continuare a comprare e vendere merci liberamente in tutta Europa, che possano condurre i loro affari in euro o in lire, possedere conti correnti in entrambe le valute, comprare e vendere liberamente titoli, lavorare in Europa e assumere chi gradiscono.
Non sono cose che vanno date per scontate. La prima cosa che fanno molti Governi, di fronte a una valuta debole e problemi di debito pubblico, o quando si accorgono che i loro sforzi di stimolo monetario hanno scarso effetto, è di costringere i loro cittadini a usare quella valuta debole, proibire i conti correnti in valuta estera, limitare i diritti dei cittadini di vendere e comprare euro o di prendere soldi in prestito o di investire all'estero. Impongono limiti agli interessi che i cittadini percepiscono dalle banche e allocano il credito bancario. Tutto questo passa sotto il nome burocratico di «controlli di capitale». Gli economisti la chiamano «repressione finanziaria», espressione che rende meglio il senso dei suoi effetti. È il genere di politica monetaria che può realmente rallentare un'economia, come quando si toglie l'olio dall'automobile. E non è chiaro nemmeno se l'Italia potrebbe lasciare l'euro senza uscire dall'Unione Europea.
Se l'Italia rimarrà un'economia aperta, come deve necessariamente essere se vuole crescere, la politica monetaria sarà sempre vincolata dal tasso di cambio e dalla concorrenza dell'euro. Misure troppo accomodanti faranno calare eccessivamente il tasso di cambio, e viceversa. Le oscillazioni estreme del tasso di cambio sono un male per gli affari e gli investimenti. Gli italiani semplicemente useranno gli euro al posto delle lire, indebolendo la moneta nazionale e provocando l'introduzione di controlli di capitale. Perfino l'Islanda sta valutando di agganciarsi all'euro. La Svizzera, e in misura minore la Danimarca, stanno sudando sette camicie per impedire che le loro monete si apprezzino.
Insomma, nel lungo periodo l'Italia se la passerebbe meglio con la vecchia e cara lira? Una moneta ben gestita all'interno di un'economia aperta ai commerci, ai capitali e alle persone può avere alcuni vantaggi. L'esperienza della Gran Bretagna prima della Brexit, della Danimarca, della Svizzera, della Norvegia o della Svezia evidenzia alcuni piccoli vantaggi, qualche problema e nessun disastro particolare, fino a questo momento. L'esperienza dell'Italia prima dell'euro è meno incoraggiante, quella della Grecia prima dell'euro ancora meno e quella di tanti piccoli Paesi con problemi di debito e di crescita ancora meno. Tornate su tornate di inflazione e svalutazione non hanno prodotto prosperità, e i controlli sui capitali e sui cambi hanno danneggiato notevolmente la crescita.
In definitiva, non c'è artificio monetario che possa sostituire un'economia reale dinamica. L'euro non è perfetto ma non è male, e offre un importante impegno ex ante contro le cattive politiche. I pericoli e le tentazioni di una lira, a mio parere, non compensano la perdita di un caffè pomeridiano ogni tanto per darsi uno stimolo.
John H. Cochrane è senior fellow presso la Hoover Institution dell'Università di Stanford.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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