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Dossier A chi appartiene la storia del razzismo americano?

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

A chi appartiene la storia del razzismo americano?

Osserviamo per un attimo questi due dipinti.

Entrambi hanno attinto dalle iconiche immagini fotografiche della orrenda e inquieta storia delle relazioni razziali negli Stati Uniti, ed entrambi sono tra le opere più discusse attualmente in mostra alla Biennale del Whitney Museum of American Art di New York.

Il quadro sopra è di un artista bianco; quello sotto è di un afroamericano. Ed è ciò che ha fatto la differenza nella percezione dei due dipinti: quello sopra si è ritrovato al centro di una furiosa controversia. Non appena inaugurata la mostra lo scorso mese, Hannah Black, che si definisce una “Artista/Scrittrice”, e che nel 2013-2014 ha partecipato al Programma di studi indipendente del Whitney Museum, ha lanciato una petizione (sostenuta da decine di colleghi artisti e scrittori, sia neri che bianchi) per richiedere che il dipinto venisse rimosso dalla mostra. Ma la petizione si è spinta persino oltre, richiedendo che il quadro venisse distrutto affinché non potesse in seguito «entrare in nessun mercato o museo».

Sebbene l’artista avesse «l’intenzione di presentare la colpa dei bianchi», Black ha constatato nella sua petizione che «tale colpa non è correttamente rappresentata dal quadro di un ragazzo Nero morto dipinto da un artista bianco». Qualsiasi «artista non Nero che desideri sinceramente sottolineare la deplorevole natura della violenza bianca dovrebbe prima di tutto smettere di trattare la sofferenza Nera come una materia prima. L’argomento non li riguarda; la libertà di espressione dei bianchi e la libertà creativa degli stessi sono state fondate sulla costrizione degli altri e non sono diritti naturali. Il quadro deve essere rimosso».

Arte in bianco e nero
Ma un attimo. Errore mio, scusatemi: è il quadro sotto, raffigurante il corpo brutalizzato di Emmett Till, un ragazzo afroamericano di 14 anni torturato e assassinato da due uomini bianchi nel 1955, che è dell’artista bianca, Dana Schutz. Il quadro sopra, raffigurante il momento immediatamente successivo alla sparatoria ingiustificata dello scorso anno da parte di un ufficiale di polizia di Minneapolis contro di Philando Castille (come nella scena immortalata dalla sua ragazza misteriosamente pronta a riprendere con il suo smartphone) è di un artista nero, Henry Taylor.

La verità è che per entrambi i quadri è impossibile discernere la razza dell’artista. Ciò nonostante, Black e i firmatari della petizione hanno sostenuto che il valore e la validità – di fatto la reale liceità – del quadro di Schutz ruota completamente attorno alla questione della sua razza.

Come ha rilevato Black nella sua petizione, il quadro illustra «Till nella bara aperta come da volontà della madre “perché tutti possano vedere cosa hanno fatto a mio figlio”». Till, che viveva a Chicago, stava trascorrendo l’estate con i parenti a Money, nel Mississippi, quando fu rapito e brutalmente linciato per un presunto flirt con una donna bianca (un’accusa recentemente smentita, dopo oltre mezzo secolo, dalla stessa donna in questione). La vista del corpo martoriato di Till ha suscitato orrore tra i bianchi e i neri all’epoca: il suo volto, così orribilmente malmenato e gonfio da raddoppiare di volume, era irriconoscibile. L’assassinio di Till, unitamente all’ordine di desegregazione nelle scuole presa l’anno prima dalla Corte Suprema americana nel caso Brown v. Board of Education e al successivo boicottaggio degli autobus avvenuto nel corso dell’anno a Montgomery, in Alabama, è spesso annoverato tra le cause che hanno innescato il movimento dei diritti civili che vi ha fatto seguito.

Black, però, va oltre: «Che nemmeno il corpo sfigurato di un bambino non fosse sufficiente a spostare lo sguardo dei bianchi dal solito e freddo calcolo è evidente ogni giorno e in una miriade di modi, non da ultimo il fatto stesso che questo quadro esista. In sintesi: il quadro non dovrebbe essere accettabile per chiunque si preoccupi o finga di preoccuparsi per i Neri, perché non è accettabile che un bianco tramuti la sofferenza dei Neri in profitto e divertimento, sebbene tali prassi sia ormai da tempo diventata la norma».

E così via. Non importa che Schutz abbia ripreso in mano la fotografia di Till spinta dall’angoscia per la raffica di omicidi registrati negli ultimi anni in tutto il territorio degli Stati avvenuti per mano della polizia contro giovani neri. Aveva risposto alla foto, ha dichiarato, come una madre che tenta di mettere in evidenza il dolore e l’orrore di tutte le madri di quei ragazzi e giovani uomini – e in ogni caso non ha mai avuto l’intenzione di vendere il quadro che è il risultato delle sue valutazioni.

Black non è interessata a nessuna spiegazione. A suo avviso, l’identità di Schutz, e non il suo intento, deve guidare il nostro giudizio estetico. La sua petizione corrisponde a una sorta di retorica e a una forma di critica che dilagano negli ultimi decenni nelle scuole d’arte e nelle università americane, e che si fanno più pressanti con il passare degli anni. Si può riconoscere il terreno intellettuale con la sua lingua indigena, i suoi oratori formali che discutono di termini quali “privilegio”, “intersezionalità”, “appropriazione”, “post-coloniale”, “di genere”, “cis-gender” e “sguardo” come molti altri simboli logorati.

Non significa che il tenore generale della critica sia completamente privo di fondamento. Anzi, i termini sopra citati sono nati per identificare questioni ritenute degne di rispettabile – e spesso pertinente – considerazione. Allora cosa si cela dietro la loro degenerazione in cliché tendenziosi, scontati, strumentalizzati?

Movimenti per la verità culturale
Secondo lo storico religioso Donald Nicholl, le eresie nella Chiesa paleocristiana generalmente consistevano in aspetti di verità da tempo soppressi elevati al livello di Assoluta Verità e idolatrate come tali – un problema non tanto di verità quanto di proporzione. In questo senso, l’attuale focus accademico, ad esempio, sulla bancarotta dello “sguardo privilegiato” – e quindi su chi abbia il diritto di parlare anche a nome di chi – può essere considerato eretico: è una convinzione sbilanciata, una giustizia senza vincoli.

È possibile immaginare un altro modo di pensare a queste cose – come auspicato un tempo da James Baldwin. Ogni giorno che passa, Baldwin, scomparso nel 1987, sembra consolidare la sua posizione di voce massima, più preveggente e assolutamente necessaria della sua generazione di scrittori americani. E il tratto più saliente di oggi è il metastabile “noi” usato nelle sue formulazioni, il modo in cui lui passa da “noi gente nera” a “noi americani” – una costante negoziazione che ha animato tutte le sue opere.

Prendiamo ad esempio il seguente passaggio tratto dalla fine del saggio di Baldwin del 1964 intitolato “Parole di un figlio originario”:

«La storia che spero di vivere abbastanza a lungo da raccontare, affinché esca fuori completamente, ha a che fare con i terribili, terribili danni che stiamo facendo a tutti i nostri figli. Perché ciò che sta accadendo tra le strade di Harlem ai ragazzi e alle ragazze nere sta accadendo anche in tutte le strade americane a tutti. È una terribile delusione pensare che qualsiasi parte di questa repubblica possa essere sicura fino a quando 20 milioni dei suoi membri saranno minacciati come lo sono ora. La realtà che sto tentando di mostrare per quello che è che l’umanità di questa popolazione sommersa è uguale all’umanità di chiunque altro, uguale alla vostra, uguale a quella di vostro figlio. Lo so ogni volta che entro nella camera mortuaria di Harlem e vedo un ragazzo morto che giace lì. Lo so, non importa quello che dicono gli scienziati sociali, o quello che dicono i liberali, ossia che è estremamente improbabile che lui finisca nella tomba così presto se non fosse nero. È una cosa terribile da dover dire. Ma se fosse così, allora le persone che ne sono responsabili sono in una terribile condizione. Attenzione. Non mi interessa dare colpe a chiunque. La colpa è un lusso che non possiamo più permetterci. Lo so che non l’avete fatto voi, e nemmeno io, ma mi sento responsabile perché sono un uomo e un cittadino di questo Paese e siete responsabili anche voi, esattamente per la stessa ragione….Dobbiamo fare il grande sforzo di renderci conto che non esiste una cosa come il problema dei Negri – ma semplicemente un ragazzo minacciato. Se riuscissimo a fare questo, potremmo salvare questo Paese, potremmo salvare il mondo. In ogni caso, il ragazzo morto è una questione che mi riguarda, una mia responsabilità. E riguarda anche voi».

Per Baldwin, la memoria di Emmett Till che giace nella sua bara appartiene a tutti noi e ci chiede di intervenire. È certamente quello che ha pensato anche la mamma di Till, la sua intenzione era chiaramente quella di persuadere tutti noi – in quanto neri, americani, esseri umani – a lottare e a lottare ancora, per rispondere a questo ancorato appello.

Identità post-eretiche
Accade proprio in questi giorni che al secondo piano della Biennale siano esposti alcuni quadri degli anni Ottanta, tra cui compare un influente e indelebilmente potente dittico di Eric Fischl: la sua “Visita verso le/ Visita dalle / Isole” del 1983, in occasione della catastrofica fuga di rifugiati da Haiti registrata in quell’anno.

Cosa potrebbero dire Hannah Black e i firmatari della petizione di un dipinto come questo? Direbbero che Fischl avesse il “diritto” di raffigurare un lato di questo dipinto ma non l’altro? Esattamente quanto pensano che diverrà sterile e logoro il nostro comune discorso culturale?

E nel contempo, mentre i firmatari provocano l’incendio sul tappeto, l’elefante nella stanza minaccia di buttare giù il tetto. Così mentre gli esperti guidati dalla critica digrignano i denti e si infuriano e insegnano i loro punti di vista agli altri addetti culturali, i veri razzisti e i fautori della supremazia bianca cementano la loro presa sulle più alte cariche del governo americano.

Ricordo la risposta del grande poeta e saggista Elliott Weinberger in un momento simile, all’inizio degli anni Ottanta. La risposta di Weinberger ha assunto la forma di un discorso ai colleghi poeti durante un’assemblea a New York. Iniziò col dire di aver preso «la parola ’politica’ in senso molto stretto: ossia, come sono gestiti i governi. E ho preso la parola ’governo’ con cui intendo l’inflizione organizzata o l’alleviamento della sofferenza tra la propria popolazione e tra le altre popolazioni». Non male come definizione, quella. E proseguiva:

«Una delle cose avvenute dopo la Guerra del Vietnam era che, negli Usa, nella sinistra intellettuale, la politica ha subìto una metamorfosi trasformandosi in qualcosa del tutto differente: la politica dell’identità e suo fratello imbranato, la dottrina, che pensava fosse un Marxista, ma non ha mai consentito ad alcun governo di interrompere la sua successione di pensieri. La destra però si è attaccata alla politica in senso stretto ed è diventata potente in assenza di qualsiasi vera opposizione politica, e persino di critica, dato che la sinistra aveva la mente da un’altra parte: era preoccupata di trovare esempi di sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, omofobia ecc. – solitamente tra i suoi stessi membri o tra quelli già deceduti da tempo, ignorando i razzisti/sessisti/omofobi veri e attivi della destra – e tendeva a esprimersi in un incomprensibile gergo accademico o con una poesia accademica referenziale con l’illusione che tale linguaggio fosse una sorta di resistenza alle prevalenti strutture di potere – il potere, ovviamente, solo immaginato in astratto. (Non importa che le opere realmente rivoluzionarie a livello politico – Tom Paine o il Manifesto comunista o Brecht o Hikmet o altre migliaia di opere – siano scritte in modo semplice e diretto).
Nel frattempo, Ronald Reagan stava completamente smantellando i programmi sociali del New Deal e della Great Society di Johnson …».

Weinberger aveva ragione allora. Ahimé, non avrebbe meno ragione oggi, più di tre decenni dopo. Black e i firmatari della petizione hanno sollevato alcuni punti importanti; ma quei punti dovrebbero essere visti come un invito a un ulteriore approfondimento e impegno, e non come la preclusione di tutti i possibili discorsi. Come dovrebbe essere rappresentata l’angoscia, e con quale diritto?
Aime Cesaire, il grande poeta, politico e saggista francofono che ha contribuito a fondare il movimento Négritude a metà del ventesimo secolo, una volta apostrofò i suoi lettori così: «Attenzione, anche quando pensate, ad assumere lo sterile atteggiamento dello spettatore, perché la vita non è uno spettacolo, un mare di dolore non è un proscenio, un uomo che piange non è un orso danzante».

La questione che gira attorno alla Biennale di quest’anno è solo su chi stia violando l’editto di Cesaire. È Schutz, con il suo struggente atto mentale di testimonianza (il dipinto stesso scava profondamente nell’angosciata compassione). Oppure sono i Saint-Just e i Robespierre dei nostri giorni, che userebbero il suo atto di solidarietà come occasione per uno scambio polemico spettacolarmente inopportuno e fuori dal tempo?

Lawrence Weschler, direttore emerito del New York Institute for the Humanities presso la New York University, è autore del recente Uncanny Valley: Adventures in the Narrative.

Copyright: Project Syndicate, 2017.



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