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Dossier Lasciare l’euro? Ora sarebbe complicato

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    Dossier | N. 22 articoliAlla luce del sole

    Lasciare l’euro? Ora sarebbe complicato

    Quando nacque la moneta unica europea, l’Italia la adottò con entusiasmo, ma l’esperienza dell’ultimo decennio fa ritenere che si sia trattato di un errore. Il Pil reale in Italia è più basso di dieci anni fa, la disoccupazione è al di sopra dell’11% e il debito pubblico ormai supera il 130% del Pil.

    È impossibile sapere che cosa sarebbe successo se l’Italia non fosse entrata nell’Unione economica e monetaria, ma sembra plausibile immaginare che oggi l’economia se la passerebbe meglio se l’Italia avesse fatto come la Gran Bretagna, mantenendo una sua moneta e quindi la possibilità di gestire autonomamente la politica monetaria e il tasso di cambio.

    I fautori dell’adozione dell’euro sostenevano all’epoca che gli Stati membri sarebbero stati costretti dalle pressioni di mercato a convergere su un livello di produttività comune – e un corrispondente livello dei salari reali – più elevato. Non è mai successo.

    È successo invece che la Germania è andata a tutta birra, con un aumento della produttività che si è tradotto in un reddito pro capite superiore del 30% a quello italiano, un tasso di disoccupazione che è meno della metà e un surplus commerciale pari all’8% del Pil.

    I Paesi che hanno adottato l’euro non hanno mai soddisfatto le tre condizioni per un’unione monetaria efficace: mobilità della manodopera, flessibilità dei salari reali e una politica di bilancio comune che trasferisca fondi verso le aree colpite da incrementi temporanei della disoccupazione. La mobilità della manodopera all’interno dell’Eurozona è limitata dalle differenze linguistiche, oltre che da fattori legali come le licenze professionali e l’appartenenza ai sindacati. I salari reali sono lenti ad adeguarsi e non rispecchiano le differenze di produttività della manodopera. E l’Eurozona non ha mai adottato un sistema di tasse e trasferimenti all’americana, che compensi le variazioni cicliche del Pil nei singoli Stati.

    L’effetto combinato di una crescita economica lenta e disavanzi di bilancio ingenti ha fatto sì che il debito pubblico italiano crescesse più velocemente del Pil. L’aumento del rapporto debito/Pil ha provocato una rapida crescita del tasso di interesse sui titoli di Stato a lungo termine, arrivato nel 2011 al 7,5% sui Btp decennali. L’alto livello dei tassi di interesse ha fatto crescere il disavanzo di bilancio e provocato una crescita ancora più sostenuta del debito pubblico. I mercati finanziari hanno cominciato a preoccuparsi del rapido aumento del debito, paventando un default dell’Italia o un suo abbandono dell’euro.

    Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, si è lanciato al salvataggio nel luglio del 2012, con la sua famosa promessa di fare «tutto il necessario», sostenuta da un accordo all’interno della Bce per fornire credito a qualunque Paese dell’Eurozona che avesse presentato un piano accettabile per risolvere i suoi problemi di bilancio. Né l’Italia né gli altri Paesi della periferia dell’Eurozona hanno presentato un piano del genere, ma la disponibilità potenziale di un pacchetto di salvataggio è stata sufficiente a determinare un calo sensibile dei tassi di interesse a lungo termine. Alla fine del 2014, l’interesse sui Btp decennali era precipitato dal 7% a meno del 2%.

    La promessa di Draghi e il piano della Bce hanno impedito una crisi immediata, ma la discesa dei tassi di interesse ha fatto venir meno la pressione di mercato, che avrebbe costretto il Governo italiano a ridurre il deficit: il risultato è che il deficit e la situazione del debito continuano a peggiorare.

    Guardando con il senno di poi all’epoca in cui fu creato l’euro, è evidente che la moneta unica fu adottata per ragioni politiche, più che economiche. Jacques Delors disse pubblicamente che un mercato unico necessita di una moneta unica per funzionare bene, ma né la teoria economica né l’esperienza dei membri dell’Unione Europea che non hanno adottato l’euro supportano questa affermazione.

    La vera forza trainante dietro la creazione dell’euro era l’idea che se le persone avessero avuto in tasca euro, invece di lire italiane o franchi francesi, si sarebbero considerate maggiormente come «cittadini europei», creando le condizioni per progredire verso un’unione sempre più stretta. L’esperienza vissuta da allora ha dimostrato il contrario, e il consenso per l’euro in generale è diminuito.

    Se l’Italia dovesse lasciare l’euro e adottare una nuova moneta, i salari e i prezzi espressi nella nuova lira sarebbero più bassi di quanto fossero con l’euro, garantendo all’Italia un vantaggio negli scambi commerciali con gli altri Paesi europei e con il resto del mondo. Ma le famiglie italiane continuerebbero ad avere i mutui e gli altri debiti importanti denominati in euro, perciò i loro debiti crescerebbero più dei loro guadagni. Lo stesso effetto si avrebbe per molte imprese.

    Se gli italiani avessero saputo che cosa sarebbe successo dopo l’introduzione dell’euro, forse avrebbero optato per rimanerne fuori. Ma la decisione di andarsene ora è complicata da condizioni che non si sarebbero verificate se l’Italia non avesse mai adottato la moneta unica.

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