L’Italia cammina sulla lama di un rasoio. Oggi l’economia è più piccola e meno produttiva di com’era nel 2001, mentre il debito pubblico è schizzato in alto del 30 per cento. Finché i tassi di interesse rimangono bassi, e lo Stato riesce a mantenere un avanzo di bilancio primario, la situazione è solo moderatamente insostenibile (con il rapporto debito/Pil che cresce poco a poco). Ma un problema anche piccolo, in patria o fuori, potrebbe spingere in alto i costi del finanziamento del debito e mettere a nudo la condizione precaria dell’Italia.
Questa situazione è una conseguenza del fatto che l’Italia fa parte dell’unione monetaria? In teoria, un Paese che dispone di una valuta propria ha la possibilità di «organizzare» un’inflazione non prevista che riduce in termini reali il fardello debitorio esistente. Inoltre, può deprezzare la sua valuta in termini reali per migliorare la competitività rispetto agli altri Paesi. Tutte cose che sembrano allettanti per un Paese dove il debito pubblico lordo è pari al 130% del Pil (più che in qualsiasi economia avanzata tranne Grecia e Giappone) e dove le esportazioni di beni e servizi rappresentano una quota importante del Pil (il 30%).
Una politica monetaria indipendente dell’Italia, controllata dalla Banca d’Italia, sarebbe sufficiente ad allontanare il Paese dal precipizio e garantire una prosperità sostenuta nel lungo periodo? Ne dubitiamo.
Per assicurare una crescita forte, sostenibile ed equilibrata, uscendo dalla spirale di stagnazione degli ultimi 15 anni, è necessario che l’Italia proceda a riforme strutturali e riduca il rapporto debito/Pil. Riguardo al primo di questi due elementi, il Belpaese oggi non è un posto attraente per fare affari: è al 50esimo posto su 190 Paesi, dietro il Messico, la Serbia e la Thailandia (1). Sono necessarie tasse alte per finanziare uno Stato elefantiaco, le rigidità del mercato del lavoro si traducono in una forte disoccupazione giovanile, le pensioni sono generose al punto di essere un peso e si spende poco in ricerca e sviluppo. Per realizzare miglioramenti duraturi del tenore di vita servono riforme di ampio respiro, che creino flessibilità. Per espandere l’offerta di beni e servizi serve meno regolamentazione dei mercati dei prodotti, del lavoro e dell’immobiliare.
Quanto al debito, rappresenta una zavorra sulla crescita di lungo periodo dell’Italia (2). Per riportare il debito italiano a un livello meno problematico senza una crisi c’è bisogno di una disciplina di bilancio costante, che manca da decenni. Soprattutto c’è bisogno di riforme di bilancio che portino a uno Stato più piccolo: meno spesa e meno tasse.
Non stiamo parlando di riforme economiche una tantum. L’Italia ha bisogno di un sistema economico flessibile, che sia in grado di adeguarsi rapidamente alle sfide future. Alcune di queste sfide sono già preventivabili: che cosa farà l’Italia con i milioni di autisti le cui competenze diventeranno obsolete quando i veicoli saranno automatizzati? Altre sono difficili da prevedere: non possiamo sapere con esattezza quali posti di lavoro saranno sostituiti da sistemi artificiali, o quante persone saranno colpite da questa evoluzione.
Anche se è indimostrabile, la nostra aspettativa è che le pressioni per spingere l’Italia ad adeguarsi saranno maggiori se l’Italia rimarrà dentro l’euro, per effetto sia dei requisiti imposti dai membri dell’Unione Europea sia della partecipazione dell’Italia al mercato di capitali integrato dell’eurozona. Quest’ultimo aspetto porta benefici, per esempio diversificazione per gli investitori nazionali ed esteri. E i premi di rischio che impone imporranno anche una disciplina maggiore di quella che sperimenterebbe l’Italia se isolasse i suoi mercati finanziari dal resto del mondo.
L’integrazione economica e finanziaria delle economie che partecipano all’unione monetaria è un evidente beneficio per tutte le parti coinvolte: ci sono più scambi di beni e servizi e flussi transfrontalieri di credito e investimenti più intensi.
Oltre a rafforzare le prospettive di crescita a lungo termine, rimanere nell’eurozona garantisce altri benefici. Il più importante è la stabilità dei prezzi. Nei quarant’anni precedenti all’introduzione dell’euro, nel 1999, l’Italia ha avuto in media un’inflazione del 7,5% l’anno; dal 1973 al 1984, la media superava il 15 per cento. Sicuramente nessun italiano vuole tornare a quei giorni di inflazione alta e imprevedibile.
È vero che la politica monetaria comune, l’allentamento e il restringimento delle condizioni finanziarie da parte del Consiglio direttivo della Bce, è finalizzata alla stabilizzazione dell’Eurozona nel suo insieme. Se i cicli economici futuri dell’Italia non saranno sincronizzati con quelli degli altri Paesi, una Banca d’Italia indipendente con una sua valuta in teoria potrebbe riuscire meglio a stabilizzare la crescita italiana (anche se non era così prima che venisse introdotto l’euro).
Ma quale sarebbe il costo nel lungo termine? Fuori dall’euro, la pressione per le riforme strutturali e della spesa pubblica probabilmente sarebbe minore; l’inflazione in stato stazionario probabilmente sarebbe più alta, gli scambi di beni e servizi più ridotti e il settore finanziario più isolato. Tutto considerato, l’Italia probabilmente se la passa meglio con l’euro che senza.
Banca mondiale, Doing Business 2017, Washington 2016
Stephen G. Cecchetti, Madhusudan S. Mohanty e Fabrizio Zampolli, «The real effects of debt», in Achieving Maximum Long-Run Growth, Atti della conferenza di Jackson Hole della Federal Reserve di Kansas City, 2011, pp. 145-196
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