1° gennaio 1999: vengono fissati i tassi di cambio tra l’euro e le valute nazionali. L’entusiasmo sorpassava a destra la letteratura economica, secondo cui regimi di cambi fissi fra Stati diversi non hanno vita lunga.
Forti però erano i supporti regolamentari sui rischi. I titoli di Stato dei Paesi membri (i Govies) erano tutti uguali (risk-free) per gli attori del sistema finanziario e soprattutto di fronte alla Bce. Il concetto di condivisione dei rischi (risk sharing) permeava la nuova architettura europea. La libera circolazione di beni e servizi saldata al levelling the playing field (nessun ostacolo alla concorrenza) si poneva l’obiettivo di rendere i fattori di produzione, capitale e lavoro parimenti accessibili per il sistema produttivo banco-centrico dell’Eurozona.
Per quanto concerne il lavoro c’erano elementi di eterogeneità derivanti da stratificazioni normative, differenze linguistiche e radicazioni geografiche; per l’accesso al capitale il risk-free dei Govies era un’ottima premessa. Con quattro anni di operazioni di arbitraggio (i convergency trades), la finanza infatti aveva condotto alla germanizzazione dei tassi nell’Eurozona: il paradigma che un’area valutaria dovesse avere un unico costo del denaro veniva dunque rispettato e si poteva partire.
C’erano ovviamente delle imperfezioni, tra cui l’impossibilità per la Bce di monetizzare i debiti pubblici e un’operatività incentrata su un obiettivo di inflazione al 2%. Sul raggiungimento di questo obiettivo la Bce non era peraltro tenuta a perseguirlo puntualmente in tutti gli Stati membri; la convergenza era sostanzialmente un optional e purtroppo lo è ancora. E questo nonostante fosse ben noto che i differenziali di inflazione tra vari Stati trovino i loro naturali aggiustamenti nel tasso di cambio, che però tra i Paesi dell’Eurozona non era più previsto. La mancanza di questi aggiustamenti non è un dettaglio, in quanto avvantaggia attraverso il costo finanziario della produzione industriale gli Stati con minore inflazione.
Già prima della crisi tale vantaggio per la manifattura tedesca, rispetto per esempio a quella italiana, era ben superiore al 5%. Dopo la crisi, a causa dello spread, questo vantaggio competitivo supera il 20%. Nel medio-lungo termine la competizione tra le due economie viene quindi compromessa. E la svalutazione del costo del lavoro a carico dell’erario, come fatto di recente (Jobs act), non può normalizzare la concorrenza sleale derivante dallo spread.
La concorrenza, pietra angolare dei Trattati, non è tale da portare le istituzioni europee a riflettere per risolvere questi fattori di distorsione. Ecco spiegata una prima determinante del surplus commerciale tedesco; una seconda può essere compresa dall’analisi della sua composizione geografica nel tempo. Prima dell’apice della crisi dei debiti sovrani tale surplus veniva largamente alimentato dai Paesi periferici dell’Eurozona, secondo un tipico schema di vendor financing: le banche tedesche finanziavano l’acquirente per comprare la manifattura teutonica, che grazie alla moneta unica era divenuta più accessibile. Quando i crediti erogati sono diventati eccessivamente rischiosi, la Bce ha fornito la liquidità alle banche dei Paesi periferici per onorare i loro debiti (attraverso gli Ltro). Successivamente il surplus teutonico verrà sostanzialmente alimentato dal di fuori dell’Eurozona, complice il cambio dell’euro calmierato dal Quantitative easing, anche perché la domanda interna degli Stati periferici era oramai esaurita. Insomma, abbinare la violazione dei Trattati che il persistente surplus commerciale tedesco rappresenta esclusivamente alla metafora della locomotica tedesca e non anche a queste disfunzioni è quantomeno semplicistico.
Il problema dello spread non è solo dell’economia reale. Nell’economia finanziaria – ben dieci volte più grande – lo spread genera infatti delle valute-ombra, dato che discrimina il rapporto tra le banche dei vari Paesi membri e tra queste e la Bce. Lo spread è quindi una patologia che altera la concorrenza nell’Eurozona e non un elemento fisiologico, come si legge tra le righe nel rapporto dei cinque presidenti delle istituzioni europee sul “Completamento dell’Unione economica e monetaria dell’Europa”. Eppure il rapporto beneficiava delle statistiche economiche non certo incoraggianti per l’Eurozona, Germania a parte, relative al periodo 2008-2014 e della consapevolezza che quei numeri fossero conseguenti alle numerose decisioni prese dall’euroburocrazia a trazione tedesca all’indomani della crisi e finalizzate a segregare i rischi dei debiti privati e pubblici nei rispettivi Stati membri.
In questo nuovo assetto – in cui persino l’Eurozona ha cominciato a dubitare di se stessa, abdicando al risk sharing, nonostante nei Trattati sembrasse un valore fondante – i mercati finanziari hanno cominciato a scommettere sulla dissoluzione della moneta unica. Ed ecco i tassi negativi sui Bund, che in fondo quotano la possibilità di un rimborso del debito pubblico tedesco con un marco rivalutato rispetto al vecchio euro, e gli spread per esempio dei BTp, che quotano invece il rischio di un rimborso in lire svalutate. I divergency trades hanno preso il posto dei convergency trades, mentre nell’Eurozona si celebra il paradosso della parsimonia di Keynes.
L’euro non è, quindi, l’origine di tutti i problemi, ma le scelte di policy che sono state prese nell’Eurozona sì. A queste vanno aggiunte dissennatezze nazionali; in Paesi come l’Italia, per esempio, si sono perduti i preziosi anni dell’avvio della moneta unica in cui i tassi d’interesse si erano germanizzati e si sarebbe dovuto rafforzare il Paese sia dal punto di vista della finanza pubblica che delle riforme.
Il problema è che non si vede il cambio di rotta. Dispiace constatare che prima della crisi le istituzioni chiave dell’Eurozona puntassero a un debito pubblico europeo, a un bilancio federale, insomma a un vero progetto di Stati Uniti d’Europa, mentre ora il massimo sforzo che si riesce a mettere sul tappeto è quello di cartolarizzare una parte dei debiti pubblici degli Stati membri (gli ESBies) – peraltro secondo dinamiche partecipative che disprezzano qualsivoglia criterio di mutualità – con il fine di creare sui mercati un euro di serie A e un euro di serie B. E questo nonostante sia chiaro che in questi anni l’euro, comportandosi come un sistema di cambi fissi, è divenuto un magnete che proprio tramite la finanza ha trasferito ricchezza verso i Paesi core, in particolare verso la Germania.
Serve un cambio di passo che riavvii i convergency trades. Non è impossibile. Basterebbe che lo scudo anti-spread (le outright monetary transactions) venisse attivato e impostato al valore “zero spread”. La finanza non scommetterebbe contro la Bce in quanto intravedrebbe i guadagni senza rischio derivanti da un nuovo arbitraggio dei Govies. Una rinascita dell’euro che, per prevenire gli errori del passato, andrebbe affiancata a un percorso guidato, a briglia corta, su politica fiscale e riforme e al rilancio degli investimenti; insomma, dare una chanche alla “resilienza dell’Eurozona” (per usare un’espressione di recente usata da Draghi), prima che per danni collaterali eccessivi qualche Stato membro – magari spinto da tensioni sociali e dalle risultanze di interrogativi rivolti alla pancia degli elettori – decida di rompere l’attuale precario equilibrio. Sarebbe un vero peccato.
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